Il forum ha spostato gli equilibri interni alla sinistra
Quanti voti avrà spostato il Social Forum di Firenze? Credo pochi in negativo, il suo pacifico svolgimento non dovrebbe aver spaventato nessun benpensante. Ma pochi, credo, anche in positivo: non riesco a individuare i profili sociologici di elettori del centrodestra che il raduno di Firenze abbia convinto a votare a sinistra: quel distacco dal 45% al 60% che esisterebbe oggi, secondo il sondaggio di Renato Mannheimer (Corriere della Sera del 4 Novembre) tra il mercato potenziale dei due schieramenti, credo che sarà rimasto, nella migliore delle ipotesi, invariato.
Anche sul merito dei due temi che vi hanno tenuto banco, il rifiuto della guerra e dell’”iperliberismo”, non si vede quali effetti possa aver avuto Firenze sull’azione di governo. Le decisioni che riguardano la collocazione internazionale del Paese sono del massimo rilievo: ma, per quanto diffuso possa essere il pacifismo, e l’antiamericanismo che ne é il motore, resta il fatto che l’Italia può giocare solo un ruolo simbolico, sia nelle battaglie diplomatiche tra cancellerie, sia nelle operazioni militari sul campo. Quanto al “pensiero unico” esso da noi é rimasto allo stadio, appunto, di pensiero condiviso da pochi: e tra i tanti difetti di questo Governo c’è anche quello di inclinare verso politiche neo-keynesiane e interventiste. Quanto poi alle multinazionali, ci manca purtroppo la materia prima.
Non é su queste cose che si deve giudicare Firenze: il suo risultato é stato di spostare equilibri tutti interni al centrosinistra, anzi, più precisamente, interni alla sinistra. La forza dei temi “dibattuti” sta proprio nel loro essere astratti, metafisici, quindi “non falsificabili”, quindi genericamente condivisibili: chi non è contro la guerra? chi non vorrebbe eliminare fame, malattie, povertà? Quei temi servono perfettamente allo scopo di creare l’unità di consensi del movimento da contrapporre alla divisioni che attraversano il centrosinistra dei partiti. E, a forza di mettere in campo persone a milioni per volta, diventerà presto arduo sostenere che non è cambiato nulla, che altra é la maggioranza che ha vinto a Pesaro, che un congresso di partito non è una piazza. E’ facile lasciare uscire dalla bottiglia il genio del populismo: soprattutto quando non si devono tenere insieme coalizioni politiche gelose delle proprie identità, quando non ci si deve preoccupare della compatibilità di interessi divergenti, quando basta dire un no globale. Se poi la situazione economica del Paese peggiorasse ulteriormente, se fallimenti e licenziamenti dovessero mordere nel tessuto sociale del Paese, allora il consenso, cementato sui temi “alti” del rifiuto della guerra e della globalizzazione, sarà pronto per essere rivolto ai temi concreti della politica economica.
Ma la parte difficile è fare rientrare il genio nella bottiglia: il populismo é uno strumento straordinariamente difficile da maneggiare politicamente. Un conto è mettere un’ipoteca sui futuri sviluppi all’interno della sinistra, altro è avere una proposta che ribalti quel 45 contro 60 del sondaggio di cui si diceva. Per questo ci vogliono uomini che formino una credibile squadra di governo, ci vuole un leader che si imponga al Paese. Sarebbe paradossale, se il movimento nato per dare voce ai cittadini e agli elettori fuori dalla mediazione dei partiti, dovesse attingere i propri quadri politici ai think tank che si stanno formando; sarebbe paradossale se l’entusiasmo mobilitato a Firenze servisse solo per raccogliere consensi da offrire a un leader al suo ritorno. Paradossale e neppure così scontato: perchè se il genio lo si lascia crescere, diventa ingombrante, e potrebbe non aver più voglia di rientrare nella bottiglia.
novembre 15, 2002