Zandano si è mosso. Adesso a chi tocca?

aprile 24, 1997


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


La prudenza era d’obbli­go: quando Zandano an­nunciò che aveva un piano per privatizzare il San­paolo, la reazione mia, e di quanti si impegnano per la privatizzazione delle banche pubbliche era stata di cauto ottimismo, troppe volte in questo Paese agli annunci non sono seguiti i fatti, o i fatti non sono stati chiari.

Quando due anni fa, insie­me a Giavazzi Penati e De Nicola, presentammo la nostra proposta di legge per la pri­vatizzazione delle casse di ri­sparmio, volevamo solo dimostrare che l’operazione era tecnicamente possibile, e che gli ostacoli stavano solo nella non volontà delle fon­dazioni a vendere.

Eravamo stati accusati di volere tempi troppo brevi: la privatizzazione del Sanpaolo viene annunciata 17 mesi do­po la presentazione della mia proposta di legge, che preve­deva due anni di tempo per vendere. Credo di non pecca­re di presunzione dicendo che il frutto che oggi si coglie è dovuto anche a quella no­stra iniziativa. Dimostrando che si poteva, se si voleva, si è diffusa la sensazione che forse si doveva.

Chi è profondamente con­vinto che gli assetti proprie­tari non siano ininfluenti rispetto alla performance del­l’azienda, che società scala­bili siano soggette ad una maggiore pressione per con­seguire risultati positivi, de­ve di conseguenza ritenere che il nuovo assetto aziona­rio renda più competitiva la banca, e che per via di com­petizione sul mercato quanto è stato fatto a Torino acceleri un processo che finirà per interessare anche le altre ban­che, incominciando dalle maggiori.

Il nuovo assetto azionario non risolve certo tutti i pro­blemi. Dal lato della banca sono quelli comuni a tutto il sistema bancario italiano: in estrema sintesi, troppe persone a fare i mestieri di ieri, troppo poche professionalità per fare quelli di domani. Dal lato della fondazione, la ne­cessità di inventarsi un me­stiere nuovo, difficile.

Ma in ogni caso una cosa va riconosciuta. Rispetto alla salva dei tanti no opposti da tante fondazioni a vendere le loro banche, questa è una privatizzazione vera, anche se non perfetta. Tra Monte­paschi, Imi e Fondazione, la proprietà pubblica resta forte del 30%, anche se solo del 15% quanto a diritti di voto. Resta, anzi si rafforza la partecipazione incrociata con l’Imi, controllato e controllo­re.

Molto dipenderà da come la Compagnia di San Paolo venderà le azioni eccedenti il 5% il cui diritto di voto rima­ne per ora congelato. La in­terposizione nella struttura proprietaria della Holding può essere un elemento di minor trasparenza.

Se lo si ricorda non è per sminuire l’importanza di quello che è stato deciso, ma anzi per segnalare le diffi­coltà che si devono superare in operazioni di questa dimensione. Alcune sono ob­biettive, di natura tecnica e finanziaria; altre dipendono anche da rapporti personali, da antiche incomprensioni che è merito del presidente della Compagnia, Gianni Merlini, aver saputo com­porre.

Il Sanpaolo non è più da decenni una banca torinese, ha filiali in tutta Italia: ma è pur sempre una banca di To­rino.

Il Sanpaolo è la maggiore banca nazionale: questa ope­razione ha dunque un valore emblematico, e si vuole spe­rare che abbia effetti sull’in­tero sistema delle banche pubbliche.

Torino indicando la strada ha lanciato una sfida. Racco: glierla tocca ora ad altri’, in: cominciando da Cariplo: può rilanciare realizzando ;Una privatizzazione non solo ve­ra, ma anche perfetta.

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