Un prezzo troppo alto per un «voto a perdere»

giugno 21, 2005


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Ora inventiamo il «populismo riformista»

“La maggioranza dei votanti razionali si astengono dall’acquisire informazioni politiche di per sé, votano invece sulla base di dati disponibili o acquisiti accidentalmente”. Così, nel 1957, nella sua “An Economic Theory of Democracy”, Anthony Downs poneva le basi teoriche della “ignoranza razionale del votante” e del connesso paradosso del voto. Ogni votante “sconta” il vantaggio che può derivargli da un esito della votazione a lui favorevole, in base alla considerazione che il suo voto influisce in modo infinitesimo sul risultato.

Nel caso del referendum di domenica e lunedì scorso, il costo per acquisire informazioni era diabolicamente elevato: quattro diversi quesiti, ciascuno difficile da comprendere nel suo significato letterale e da apprezzare nelle sue conseguenze giuridiche e pratiche, lontani dai dati di esperienza della grande maggioranza dei votanti, rispetto a ciascuno dei quali si potevano scegliere 4 opzioni di voto (sì, no, scheda bianca, non voto) dando teoricamente luogo a 256 diverse combinazioni di voto. Perché una persona “adulta” dovrebbe dedicare tempo per decidere sulla probabilità di successo delle ricerche sulle staminali embrionali rispetto alle staminali adulte? Perfino lo slogan degli astensionisti, “non si vota per la vita”, un slogan di cui si deve riconoscere l’efficacia comunicativa, aveva un significato ambiguo: poteva essere letto col punto esclamativo finale, dunque come un perentorio ammonimento; o con i puntini di sospensione, come un bonario invito a non dar al voto importanza vitale. Oltre che di per sé, complessità e molteplicità dei quesiti spingevano all’astensione anche in modo indiretto: perché il non votare era un modo per evitare di riconoscere la propria incapacità a formarsi un’opinione; e perché il rumore di fondo saturava l’ambiente, rendendo ancora più costoso acquisire informazioni utili. Sarebbe interessante che un esperto di comunicazioni di massa calcolasse il costo per informare 45 milioni di utenti su tali quesiti in tali condizioni ambientali.

In queste circostanze diventa determinante ciò che Downs dice di ogni elezione: la grande maggioranza dei votanti segue le indicazioni di coloro in cui ha fiducia. Se aggiungiamo che dall’ultima settimana era chiaro che non si sarebbe raggiunto il quorum e che il voto non avrebbe dato luogo ad alcun risultato diretto e certo, c’è perfino da stupirsi dei risultati prossimi al 35% raggiunti in grandi città: Torino, Milano, Roma.
(100-30) : 2 = 35. Ammessa un’astensione naturale anche solo del 30%, egualmente distribuita fra destra e sinistra; immaginando che la metà di Paese che vota a sinistra andasse compatta a votare; sarebbe stato necessario che il 15% dei votanti, cioè il 30% del centrodestra, votasse in difformità dalle indicazioni dei suoi partiti di riferimento. L’aritmetica da terza elementare porta a risultati singolarmente vicini a quelli ottenuti con tecniche sofisticate dall’Istituto Cattaneo.

Bisogna chiedersi: per che cosa hanno votato gli elettori? che cosa in realtà ci hanno detto? Di sicuro noi sappiamo solo che essi hanno votato in situazione di incertezza informativa, su una molteplicità di questioni complesse, in un assordante rumore di fondo, sapendo che era un voto “a perdere”. Solo in un senso molto indiretto, solo sottintendendo un gran numero di passaggi, possiamo dire che hanno votato per l’eterologa o per non mettere in legge i diritti dell’embrione. Solo con un elevato tasso di arbitrarietà possiamo prendere il risultato come proxy della risposta a quesiti relativi ai valori della vita, come indicatori di laica indipendenza o di cattolica obbedienza. Il voto comprende anche questi contenuti, trattiene anche l’eco della “battaglia sui valori e la modernità”: ma è maledettamente complicato distillare questa componente volatile dal voto grezzo, ed è sicuramente arbitrario vederla rappresentata uno a uno dal risultato del voto. Nella campagna elettorale sono stati toccati temi di grande importanza, temi che vanno trattati con rispetto, con la finezza e la passione di Giorgio Tonini (La ricerca e la coscienza, Il Riformista), pagine che dovremo ricordare a partire da quelle sulla necessaria coscienza del limite. Sarebbe imperdonabile ridurre questi temi li alla banalità dell’alternativa laico-confessionale. La distanza tra questi temi e il risultato del voto appare talmente grande da chiedersi perfino in che senso ci sia tra gli uni e l’altro un rapporto di causa ed effetto; vale a dire se approfondite riflessioni e infuocate polemiche sono le cause che hanno avuto come conseguenza il voto, o non viceversa, se l’occasione del voto è stata la causa che ha prodotto studi e polemiche.

Se tutto questo è (parzialmente) vero, se il contenuto di informazione del voto è diverso da quello di cui parla la maggioranza dei commenti, se questo è stato (anche) un evento politico e non (solo) una battaglia culturale, diventa centrale la domanda: che giudizio dare sull’iniziativa politica di indire il referendum.
Il giorno dopo, si sa, tutto appare chiaro: ma anche il giorno prima il risultato era largamente prevedibile. Questa è chiaramente un’autocritica: non sono stato capace di distinguere tra temi del referendum e iniziativa referendaria, tra l’appoggiare con entusiasmo i primi, e il giudicare temeraria la seconda.
E’ vero, i sondaggi davano un risultato molto meno negativo, e, ancora un volta, hanno clamorosamente fallito. Azzardo un’ipotesi: le domande erano esse stesse un’informazione data all’interrogato, e quindi riducevano quel difetto di informazione che è stata la caratteristica determinante di questa consultazione.
Sondaggi o non sondaggi, questo episodio deve essere archiviato come un infortunio. Chi può sostenere che si sarebbe deciso di indire il referendum anche prevedendo questo risultato, e perfino uno di dieci punti migliore? La cosa più semplice e onesta è riconoscerlo, anche per evitare di fare danni ulteriori. Non diciamo che ha perso l’Italia laica. Non diciamo che abbiamo fatto tutto questo a scopo pedagogico, per rendere avvertito il Paese che un tema così importante è trattato dalla legge 40 in modo oscurantista per la vita civile e ottuso per la ricerca scientifica. Non facciamo i maestri che dividono chi ha capito da chi non ha capito. Se è vero che in carenza di informazioni l’elettore razionalmente ignorante tende a seguire le indicazioni che gli vengono dalle fonti di cui si fida, abbiamo un risultato paradossale e cioè che un referendum che avrebbe dovuto essere trasversale, finisce per indicare sostanzialmente la misura in cui l’elettorato di centrosinistra segue le indicazioni che gli vengono dai suoi tradizionali punti di riferimento: il risultato non è neppure tanto negativo.

Ma è stato ottenuto a costi proibitivi: e quindi bisogna cercare di trarne qualche altra utilità per il futuro. E il messaggio per i riformisti non è né facile, né consolatorio: non bastano le idee giuste per vincere, devono essere parte di un progetto semplice, comunicabile. Le diverse “sensibilità politiche”, le varie “identità tradizionali”, i “tanti riformismi” che il centrosinistra delicatamente raccoglie dentro si sé, sono i veicoli del messaggio, non lo possono determinare. Il riformismo, se vuole vincere, deve sapersi innestare in un messaggio comprensibile, che tocchi i dati di esperienza di tutti. Dobbiamo avere il coraggio di inventare il populismo riformista. Siamo talmente abituati al “popolare” che storciamo il naso al “populista”. Ma populista non è solo Bossi e Haider, è anche Thatcher e Reagan, Blair, e Zapatero.
“Siamo servi inutili. Abbiamo fatto quanto dovevamo fare”, cita Tonini dal Vangelo di Luca. Inutili nel senso di inadeguati, ma quindi “liberi e sciolti nel presente, umili e grati nel passato, capaci di gratuità per il futuro”.
Potrebbe essere, per un riformista, la lezione di questo voto.

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