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→  dicembre 6, 2011


di Alessandro De Nicola

Le privatizzazioni e le liberalizzazioni sono il nerbo delle riforme strutturali necessarie a rilanciare la nostra economia. Servirebbero a ridurre debito e sprechi e anche a frenare la corruzione. Ma il mito della proprietà pubblica è duro a morire

Consoliamoci, la manovra economica del governo non è la fiera di tasse esotiche che avrebbe potuto diventare. Tuttavia uno dei suoi capitoli più oscuri rimane quello delle privatizzazioni che, insieme alle liberalizzazioni, sono il nerbo di quelle riforme strutturali che potrebbero rilanciare l’economia del nostro paese.

Il mito della proprietà pubblica è duro a morire perché non nasce con il marxismo ma è profondamente radicato nella storia e nella cultura del Bel Paese. Dall’ager publicus romano alla Cassa Depositi e Prestiti, sono cambiate le motivazioni per le quali lo Stato possiede e si cimenta nella gestione di attività economiche, ma la sua ingombrante presenza è sempre lì.

Vediamo di riassumere brevemente perché privatizzare è invece una scelta politica virtuosa per l’Italia.

Prima di tutto bisogna ridurre lo stock del debito pubblico. Sappiamo che ha raggiunto il 120 per cento del Pil e che la spesa pubblica è il 50,8 per cento del Pil: in queste condizioni la vendita di aziende e immobili ai fini sia della riduzione del debito che degli interessi passivi pagati dallo Stato italiano ai sottoscrittori dei suoi titoli è indilazionabile. A seconda delle stime, un programma massiccio di dismissioni sia di imprese che di immobili pubblici (statali e degli enti locali) potrebbe portare a ricavi tra i 250 e i 300 miliardi di euro, sufficienti per riportare in breve tempo il debito pubblico sotto il 100 per cento del Pil senza bisogno di patrimoniali. Inoltre, si risparmierebbero almeno altri 10 miliardi di interessi, l’equivalente di una manovra (basti pensare che l’aggiustamento dei conti compiuto con il decreto di ferragosto, portava ad aggiustamenti per il 2012 di appena 5 miliardi). E’ vero che si verrebbero a perdere i dividendi delle imprese che fanno profitto, ma nel corso degli anni clamorose son state pure le perdite (Tirrenia ed Alitalia insegnano).

L’obiezione che in questo momento le società quotate non sono valorizzate adeguatamente non regge. Prima di tutto anche i titoli di Stato pagano interessi elevati (oltre 300 punti di spread con il bund tedesco) e poi solo il mago Merlino sarebbe in grado di indovinare il momento giusto.

Altra obiezione, più sensata, è che le privatizzazioni dovrebbero andare di pari passo con le liberalizzazioni. Anche in questo caso è facile obbiettare che finché lo Stato è proprietario le liberalizzazioni sono più difficili e Poste e Ferrovie ne sono un esempio attuale. Peraltro, gran parte di ciò che si può vendere compete già sul mercato con i privati.

Il secondo punto parte proprio da questa constatazione: lo Stato fa concorrenza sleale ai privati. Le imprese pubbliche hanno un accesso facilitato al credito (almeno fino ad oggi la garanzia del governo vale qualcosa) ed in più sono vicine sia al legislatore che al regolatore. Controllati e controllori rispondono in ultima istanza allo stesso potere politico che li ha nominati.

Tale contiguità ci porta alla terza ragione per la quale il Leviatano dovrebbe spogliarsi dei suoi beni. Le scelte manageriali delle sue aziende, infatti, vengono più di qualche volta influenzate da motivi di convenienza elettorale, non di efficienza. Si tratti di assunzioni di raccomandati, di privilegi ai sindacati interni, di investimenti in collegi elettorali sensibili, di conclusione di affari con società amiche, sempre di sprechi stiamo parlando e le cronache dei giornali traboccano di esempi di “prossimità” tra faccendieri e imprese pubbliche.

Il che ci conduce al quarto punto: dove ci sono sprechi, intrusioni politiche, opacità, lì prospera la corruzione, piaga che non casualmente affligge così tanto il nostro Paese dove quasi tutto è intermediato dalla politica. Non è vero, come si illudono alcuni, che la proprietà di un’azienda o di un bene sia indifferente, purché funzioni. La politica non maneggia soldi suoi e ne ha meno cura, difficilmente viene sanzionata elettoralmente per cattiva gestione e, controllando il potere economico, può minacciare le fondamenta della democrazia. D’altronde, come ammoniva Ludwig von Mises, a cosa servirebbe la libertà di stampa se lo Stato possedesse tutte le tipografie?

→  luglio 29, 2011


di Massimo Mucchetti

BTP nel mirino della speculazione

Il differenziale tra i Btp a 10 anni e i bund tedeschi è salito ieri fino al 3,37%. Di questo passo, in poche settimane, i tassi sul debito pubblico italiano potrebbero superare quelli spagnoli. Troppo alti per dare ancora fiducia. E allora la fuga dal rischio Italia potrebbe diventare un’eventualità concreta. Irrazionale, ove si consideri l’economia reale. Ma i mercati sono razionali solo nella fantasia degli economisti. Tipico, per esempio, l’effetto gregge. Di cui abbiamo appena avuta una dimostrazione con il riposizionamento di alcuni fondi americani e di assicurazioni tedesche e italiane.

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→  luglio 23, 2011


Intervista di Paolo Berizzi

«Il mio rapporto con Penati? Si è incrinato quando ho iniziato a criticare il sistema. Che era diventato una palude insopportabile. Se fai impresa — a Sesto, a Milano, a Parma, a Napoli, dappertutto — devi entrare nella palude. Altrimenti non lavori. I politici te lo dicono chiaramente. Vuoi un’autorizzazione? Devi pagare. Oppure te lo fanno capire in modo più nobile: perché non sponsorizzi il partito, dai…? Come se fosse una squadra di calcio…». E’ un torrente in piena Piero Di Caterina, il Grande Accusatore (assieme al costruttore Giuseppe Pasini) al centro dell’inchiesta per corruzione che ha travolto la ex Stalingrado d’Italia e messo nei guai Filippo Penati. Cinquantasette anni, origini pugliesi, big lombardo dei trasporti pubblici con la sua Caronte (150 dipendenti), oltre che «uomo di fiducia di Penati» e presunto ricettore delle tangenti destinate al politico, Di Caterina secondo la Procura è stato anche un «grande finanziatore del Pd».

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→  luglio 12, 2011


Caro Augias, a me pare che le nomine nelle aziende di Stato le firmi il Direttore generale del Tesoro o quanto meno ne prenda coscienza ed eserciti dovuta vigilanza. Tremonti, della cui onestà economica non dubito, si fidava di dormire nella casa di un ricattatore. Grilli, della cui onestà sono certo, si fidava di avallare le nomine proposte dallo stesso personaggio. Spero che chi di dovere abbia già fatto paralleli del genere e concluso che in quello stagno conviene mettere il divieto di pesca.

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→  aprile 2, 2011


Un intero Paese si mobilita solo perché una sua azienda, che produce latte, viene comprata da una che produce formaggi, di un Paese limitrofo, con il quale ha creato un mercato unico e condivide la moneta. Voi pensate: (1) è un Paese molto fortunato perché non ha problemi più seri a cui pensare; (2) hanno scoperto come trasformare il latte in arma di distruzione di massa; (3) è un Paese che assomiglia a un circo, governato da pagliacci che credono di essere domatori.

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→  marzo 22, 2011


Lettera al Direttore

Caro Direttore,

tocca molti argomenti Mario Pirani nel suo “Perché è possibile rinunciare al nucleare”: i deleteri effetti di una “propensione prometeica” a sviluppo e profitto; un’efficienza energetica accelerata oltre a quanto già quotidianamente constatiamo, dalle lampadine alle autovetture, dagli isolanti agli elettrodomestici; la possibilità, senza il nucleare, di sostenere uno sviluppo, inevitabilmente energivoro, che coinvolga anche chi oggi ne è ai margini, e ciò finché arriverà (se arriverà) la fusione nucleare; la definizione degli obbiettivi, dato che a una centrale si chiede di produrre energia e non posti di lavoro. Temi su cui si può consentire o dissentire ( e io dissento su tutti).

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