→ agosto 31, 2008

I rischi di Tremonti – Andrebbe ridisegnato il welfare da cima a fondo. In Italia ancora troppa protezione verso i soggetti forti
Giulio Tremonti ha annunciato per l’autunno un’ampia discussione sull’economia sociale di mercato. Poichè questa espressione ha subito negli anni mutazioni e perfino metamorfosi, c’è da chiedersi che cosa con essa si intenda, oggi, in Italia.
leggi il resto ›
→ agosto 28, 2008

di Carlo Bastasin
Sembrano slegati tra loro i temi che nelle ultime settimane hanno innervato il discorso pubblico italiano: la riscoperta dell’economia sociale di mercato, il futuro della scuola e il conformismo che si esprime nell’opinione pubblica. Ma se riuscissimo a intrecciarli metterebbero in luce una filigrana sorprendente e perfino scioccante della società italiana…
L’economia sociale di mercato non è un modello definito di società, ma una visione del ruolo centrale dell’individuo nella società. È nato nel ’48 in Germania cercando di coniugare il desiderio di libera iniziativa del cittadino con la sua necessità di sicurezza, a cui esso partecipa sia come percettore di risorse pubbliche sia come contribuente, come lavoratore e come capitalista. Dopo alcuni decenni, sulla libertà di iniziativa dell’individuo ha prevalso il ruolo politico dello Stato sociale, che aveva permesso di ricostruire un sentimento pubblico positivo. Una forma di patriottismo sociale è riuscita infatti a riscattare gli Stati nazionali screditati dalle tragedie della guerra e un sentimento di eguaglianza è diventato centrale nella tradizione repubblicana europea e nella sottostante identità etnica.
Tuttavia negli ultimi anni, nonostante uno Stato sociale enorme, la disuguaglianza e la povertà sono tornate a crescere. In Germania la quota dei poveri aumenta dal ’98 dell’1% all’anno e sfiora il 20% della popolazione. In Italia c’è uno scivolamento delle fasce medie di reddito verso il basso, mentre il debito pubblico impedisce sia di investire, sia di correggere le pesanti aliquote fiscali che colpiscono anche i redditi medio bassi.
Così, in Germania, dove pure è in atto una competizione a distribuire reddito in vista delle elezioni del 2009, la cancelliera Merkel ha lanciato una campagna di ammodernamento dell’economia sociale di mercato fondata sulla scuola. « Alla Bundesrepublik va sostituita la Bildungsrepublik»: la repubblica dell’istruzione.
Il ragionamento è semplice. I poveri sono per quasi tre quarti immigrati, spesso disoccupati, e per un’altra fetta sono genitori soli. I figli di questi cittadini sono svantaggiati dall’inizio alla fine della loro vita.
Il modo per aiutarli è l’intervento pubblico nelle scuole, dall’infanzia all’università. In tal modo si sviluppa non solo l’integrazione sociale, ma la capacità di crescita del Paese e una generale tensione alla conoscenza, alla competizione dei talenti e all’apertura delle idee.
Ciò che cambia radicalmente è che se nel passato l’obiettivo dello Stato sociale era l’elettore medio, fulcro dell’interesse politico, ora è invece quello ai margini: spesso non è nato in Germania, parla male la lingua, spesso nemmeno vota perché è troppo giovane o troppo sradicato. Il contrario dell’elettore mediano. È sufficiente questo a capire quanto anticonformismo politico sia necessario oggi per fare il bene del proprio Paese.
Merkel ha cominciato un viaggio tra asili e accademie dell’intera Germania, parla con i presidi e con i genitori e promette di riportare il sistema dell’istruzione alle vette del passato. I giornali ironizzano sul cancelliere che va a scuola e i Laender le contendono la competenza costituzionale. Ma il tema “scuola” è ormai tornato centrale, in modo semplice e credibile. Da qualche anno perfino i risultati degli studenti sono risaliti dal basso livello – pari a quello italiano – che aveva scioccato la Germania e scatenato l’allarme.
Proviamo un parallelo con l’Italia. Di questi tempi non si può nemmeno parlare di aiuti scolastici agli immigrati, che sono mal tollerati perfino se istruiti, nonostante garantiscano un futuro al Paese. Il clima di costante eccitazione elettorale inoltre porta a corteggiare il consenso della maggioranza contro quello delle minoranze e dei più deboli.
Un accenno del ministro dell’Istruzione alle disparità regionali della qualità delle scuole (approssimazione molto fedele dei dislivelli di reddito) ha suscitato irritazioni e facili ipocrisie, essendo peraltro in contrasto con l’anacronistica visione governativa di una scuola incubatrice dei sentimenti di tradizionalismo nazionale, di identità e di omologazione (fin dalla divisa). Infine alla verifica delle qualità degli insegnanti e degli studenti attraverso test nazionali, si è privilegiato il rafforzamento gerarchico dei presidi.
Chiusure nazionali, autoritarismo, pretese identitarie: la scuola non può crescere in questo conformismo. Il dibattito sull’opinione pubblica suscitato il mese scorso su queste colonne è presto deragliato su una strada ideologica, ma dovrebbe invece misurarsi proprio sul tema della scuola e dell’informazione, le piattaforme su cui si basa la libertà di scelta degli individui.
Una cornice di miseria psicologica di massa, in cui gli individui tendono a mimetizzare le proprie idee entro percorsi imitativi, sentendosi protetti solo se riaffermano ciò che è uguale a se stesso e discriminano ciò che è diverso – a scuola come nell’informazione – non è un ambiente da cui nascono idee e spirito di iniziativa. È anche così che il conformismo italiano da anni ostacola il cambiamento e lo sviluppo.
I media hanno la loro pesante responsabilità. Sarebbe infatti interessante vedere il presidente del Consiglio, così come ha fatto a Napoli con la questione rifiuti, confrontarsi sul campo con la questione della scuola. Ma che cosa succederebbe se Berlusconi imitasse la Merkel visitando licei e accademie per sensibilizzare il Paese? Telecamere, passerelle, applausi e fischi in un Paese politico trasformato dal suo sistema nervoso mediatico e dai suoi attori in un teatro vano e retorico.
ARTICOLI CORRELATI
Il sociale di mercato e la deriva socialista
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2008
L’economia mista? Prima farla, poi teorizzarla
di Giuseppe De Rita – Il Sole 24 Ore, 26 settembre 2008
Il liberismo? È più «sociale» dello statalismo
di Geminello Alvi – Il Giornale, 08 settembre 2008
→ agosto 16, 2008
Riscoperto da Tremonti, è stato un mariuolo, un guitto o il primo comunista della storia?
Palalexus, Cortina D’Ampezzo
Il ministro dell’Economia Giulio Tremonti e la sua Robin Tax hanno riportato in auge l’eroe inglese Robin Hood che, secondo la leggenda, “ruba ai ricchi per dare ai poveri”. Anche se nell’Italia del Terzo Millennio si parla di social card e l’Inghilterra del XII secolo è assai lontana, rimane il solito problema: condannare o assolvere?
A dare vita al processo in piazza organizzato da Cortina Incontra, ci pensano Franco Debenedetti nei panni del Pubblico Ministero, Piero Sansonetti come avvocato difensore, Enrico Cisnetto in qualità di Presidente del Tribunale e Federico Della Rosa, ovvero Robin Hood.
[flv]http://www.francodebenedetti.it/http%3A/www.francodebenedetti.it/wp-content/uploads/video/c_incontra.flv[/flv]
L’intervento in PDF
→ agosto 3, 2008

Mantenere il controllo nelle mani di pochi e dare potere a chi li puntella: é questa la “difesa dell’italianità”
Un liberista né deluso né rassegnato si sente provocato dall’intervista che Cesare Geronzi ha dato al Sole 24 Ore. Il perché è presto detto. Quindici anni fa si incominciò a smontare il sistema delle Partecipazioni Statali, con Amato, poi con Dini, Ciampi e Prodi. Oggi si stanno ricreando, con un minore impiego di capitale pubblico, assetti proprietari stabili, benedetti o sponsorizzati o perfino garantiti dallo Stato.
leggi il resto ›
→ luglio 21, 2008

di Massimo Giannini
Non c’è bisogno di aver letto Carl Schmitt sul ruolo della banca centrale tedesca ai tempi di Weimar, per capire quanto contino, in una democrazia degna di questo nome, le autorità indipendenti. Per comprendere quanto pesino, in uno Stato ad economia liberale, i cosidetti «poteri neutri». Eppure qualche lettura colta non farebbe male ai leader del centrodestra che oggi guidano l’Italia all’insegna della dottrina (schmittiana anche questa) dello «Stato governativo». Si eviterebbero mostruosità come quella che hanno appena compiuto ai danni dell’Autorità per l’energia elettrica e il gas. Passato quasi sotto silenzio, ad eccezione di poche e isolate grida d’allarme, il blitzkrieg notturno con il quale la Lega ha azzerato i vertici dell’Authority, con un banale ma micidiale emendamento alla manovra, è un «atto sedizioso». Così l’avrebbe chiamato Guido Carli.
Con la scusa di un apparente ampliamento dei poteri dell’istituto alle attività di «concessione, autorizzazione o convenzione per l’avvio della produzione di energia nucleare», è stato ridotto da 5 a 4 il numero dei membri, ed è stato rimosso il presidente in carica. Guarda caso, proprio quell’Alessandro Ortis che si era «permesso» di sollevare dubbi sulla possibile «traslazione» sui consumatori della Robin Hood Tax, e che aveva «osato» proporre la separazione proprietaria di Snam Rete Gas dall’Eni. Il governo non aveva gradito. Scajola aveva bacchettato il grand commis: «Non travalichi le sue competenze istituzionali». Colossale fesseria ministeriale: è esattamente nei poteri delle Authority suggerire soluzioni tese alla migliore efficienza dei mercati su cui sono chiamate a vigilare. Ma il rimbrotto non era bastato. E così è arrivato il siluro.
Non si era mai vista una purga staliniana ai danni del presidente di un’autorità amministrativa indipendente a due anni dalla scadenza del suo mandato. Stupisce che gli economisti e i commentatori liberali non se ne siano accorti, ma è un precedente di una gravità inaudita. Alla fine anche i «colbertisti» l’hanno capito. E così, a quanto pare dalle cronache parlamentari, lo scempio leghista è stato riparato in Commissione, con uno stralcio inserito all’ultimo minuto nel maxiemendamento alla stessa manovra. Ma l’incidente rimane agli atti. E la dice lunga, purtroppo, sulla cultura politica di questa maggioranza. A quando un bel repulisti anche alla Banca d’Italia o alla Consob, come lucidamente si chiede Franco Debenedetti sul sito lavoce.info? La domanda è tutt’altro che retorica.
ARTICOLI CORRELATI
Un colpo all’indipendenza delle autorità
di Franco Debenedetti – La Voca, 15 luglio 2008
→ luglio 21, 2008

di Sergio Romano
Siamo abituati agli atti d’accusa che coinvolgono numerose persone e alle sentenze, soprattutto in Appello e in Cassazione, che riducono considerevolmente il numero e le responsabilità degli imputati. Nel procedimento che concerne dal 2005 Telecom, Pirelli e il responsabile dei loro servizi di sicurezza, Giuliano Tavaroli, sembra che stia accadendo esattamente l’opposto. Durante lo «scandalo dei dossieraggi» (un gigantesco mercato di controlli telefonici e spionaggio informatico che coinvolse, come vittime e clienti, parecchie migliaia di persone) avemmo tutti l’impressione che le indagini avrebbero inevitabilmente trascinato sul banco degli accusati il presidente e l’amministratore delegato dell’azienda, rappresentati come registi dell’intera operazione. Ebbene, no. Dopo tre anni di indagini, la Procura della Repubblica di Milano starebbe per incriminare una trentina di persone, fra cui Tavaroli, e per rinviare a giudizio le società Telecom e Pirelli, ma avrebbe implicitamente scagionato Marco Tronchetti Provera e Carlo Buora. Il «teorema», come direbbe Berlusconi, è stato smontato. Ma questo non è accaduto alla fine di un sofferto tragitto giudiziario, costellato di sentenze e di appelli.
È accaduto grazie a una Procura che, occorre riconoscerlo, non ha fatto nulla, nella fase calda dello scandalo, per alimentare sospetti e supposizioni. Forse è giunto il momento di chiedersi come e perché l’Italia sia particolarmente vulnerabile a questo tipo di vicende. Quando esplodono, gli scandali italiani cadono su un terreno pronto ad accoglierli. Una parte importante della pubblica opinione è convinta che la sua classe dirigente (politici, imprenditori, finanzieri) sia avida, corrotta, profondamente immorale, instancabilmente indaffarata ad arricchire se stessa e a derubare i suoi connazionali. La battuta di Giulio Andreotti («a pensare male s’indovina») è diventata un motto nazionale. In molti Paesi la possibilità che una truffa o un complotto siano stati orditi da personalità eminenti suscita generalmente sorpresa, sconcerto, incredulità. Da noi suscita una specie di trionfale compiacimento e ribadisce convinzioni diffuse. Le assoluzioni, quando arrivano, dimostrano soltanto che anche la giustizia, in ultima analisi, è al servizio dei potenti. Il sospetto che diventa una patologia nazionale crea un ingranaggio inarrestabile, un ciclo continuo, difficile da interrompere. Non è necessario costruire teoremi. Esistono già, depositati nel profondo della diffidenza e della sospettosità nazionali. Attenzione, non vorrei essere frainteso. In un Paese afflitto da corruzione, conflitto d’interessi, spirito mafioso e criminalità organizzata, gli scandali, purtroppo, sono spesso reali. Ma se è sciocco negarne l’esistenza, è altrettanto sciocco pensare che tutti gli amministratori pubblici siano ladri e tutti gli imprenditori sospettabili delle peggiori nefandezze. Il Paese, nonostante tutto, è molto meglio di quanto pensino i suoi cittadini.
Esiste naturalmente una responsabilità dei mezzi d’informazione. La stampa, nel senso più largo della parola, è lo specchio che riflette i sentimenti, gli umori e le idiosincrasie della società. Ma quella italiana non si limita a registrare gli umori del Paese. In molti casi li amplifica e li rilancia. Le ragioni sono in parte antiche e in parte nuove. Là dove non esiste una netta distinzione tra stampa d’informazione e stampa popolare, il giornale è spesso condannato a essere contemporaneamente l’uno e l’altro per cercare di raggiungere il maggior numero possibile di lettori. Questa ambivalenza tende a diventare ancora più evidente in una fase in cui i giornali sono insidiati da nuovi mezzi d’informazione, moderni, aggressivi e destinati a conquistare una parte crescente della società. Esiste la concorrenza, beninteso, ma vi sono circostanze in cui costringe i concorrenti a rincorrersi verso il basso piuttosto che verso l’alto. Temo che nella vicenda dei dossier illeciti l’informazione abbia avuto, quasi senza eccezioni, le sue responsabilità. Per «servire» il lettore e non restare indietro rispetto alla concorrenza, ha finito per somministrargli ogni giorno una dose crescente di sospetti. E ha dimenticato che certe vicende, anche quando sono destinate a ridimensionarsi, possono avere conseguenze micidiali per la sorte dei protagonisti dello scandalo. Nel Sole 24Ore di ieri Franco Debenedetti ha intravisto una relazione tra lo scandalo dei dossier e le sorti di Telecom nei mesi successivi. Per Debenedetti in questa vicenda vi sarebbe anche lo zampino della politica. Può darsi. Ma vi è certamente una responsabilità della informazione di cui noi tutti dobbiamo essere consapevoli.
ARTICOLI CORRELATI
Tronchetti-Telecom, se la politica rovina le aziende
di Franco Debenedetti – Il Sole 24 Ore, 20 luglio 2008
Telecom, Tavaroli dà la colpa a Tronchetti Provera
di Oreste Pivetta – L’Unità, 22 luglio 2008