Storie di classe dirigente

marzo 29, 2011


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di Marco Ferrante

Nel dibattito sulla Fiat di Marchionne e sugli anni di Marchionne a Torino, uno degli aspetti della discussione è stato quello del rapporto tra l’amministratore delegato e la nuova classe dirigente aziendale, in parte selezionata da lui, in parte ereditata dalle precedenti storie della Fiat, e quasi sempre – secondo le analisi – condizionata dalla personalità accentratrice del Marchionne leader.

Se n’è occupato, per esempio, Giuseppe Volpato con un libro pubblicato dal Mulino nel 2008 e adesso in uscita in una edizione aggiornata. Ma nella interminabile bibliografiat (copyright Giuseppe Berta), è appena spuntato fuori un libro giornalistico, interessante per una ricognizione sulla storia della classe dirigente del l’industria torinese. Si intitola La Fiat. Dove si racconta di cavalieri, di principi, di un’altra Camelot, di sedici personaggi e di altre storie.

È una raccolta di ritratti, sedici uomini di vertice dell’azienda accomunati dal l’aver ricevuto il cavalierato del lavoro. Un po’ pretesto narrativo, un po’ escursione centenaria in una storia di dirigenti d’azienda che hanno fatto la Fiat e al tempo stesso hanno beneficiato di una specifica condizione che su di loro si è riverberata: la Fiat è stata un grande generatore di cultura, identità industriale e classe dirigente nazionale. Agnelli e Valletta sono stati rispettivamente non solo fondatore e, nel dopoguerra, ri-fondatore dell’industria automobilistica italiana, ma anche i protagonisti di un modello di sviluppo del paese, con tutte le sue contraddizioni.

Tra gli anni Sessanta e gli Ottanta Gianni Agnelli è stato simbolo internazionale del capitalismo italiano, autore di una narrazione personale – tra Juventus, Anita Ekberg, Andy Wharol e la Ferrari – in cui un’intera comunità cercava conferme collettive. E Romiti è stato l’interprete di una stagione storica a metà tra il residuo dell’egemonia di Valletta e una dimensione del potere economico fatta di diversificazione (come andava di moda) e anche molto di relazioni. Il libro, pubblicato da Marco Serra Tarantola Editore (pagg. 334, euro 20,00), scritto da un giornalista bresciano, Marco Giovanni Manfredi, ha una buffa origine, come racconta l’autore in una postfazione.

Gianpiero Beccaria, industriale e già sottosegretario all’Industria nel primo governo Berlusconi gli aveva proposto di scrivere un libro su suo padre, Bruno, ingegnere, ex direttore generale della mitica fabbrica di autocarri Om di Brescia, comprata dalla Fiat nel 1933, e fondatore dell’Iveco, cioè il primo esperimento di consolidamento anche internazionale promosso da Torino. Alla fine il libro è diventato una piccola galleria, in cui c’è Gaudenzio Bono (alter ego di Valletta), e Vittorio Bonadè Bottino, l’architetto che fece il Sestriere, torri incluse.

Ci sono Beccarla, Bertolone, Rota, Genèro (che entra in Fiat nel 1906 a diciott’anni come tecnico, e diventerà direttore dell’Auto, ceco da un occhio a causa di uno schizzo di calce viva che lo colpisce mentre da solo imbianca la sua casa). C’è Gianluigi Gabetti, Gabriele Galateri, Luca di Montezemolo e Sergio Marchionne. E c’è naturalmente il ritratto incrociato dei duellanti degli anni 80, Romiti e Ghidella. Vittorio Ghidella è morto due settimane fa, personalità moderna e più complessa di come è stata raccontata in questi anni, non fu solo il padre della Uno: significativo il ricordo di un giornalista che lo ha conosciuto bene, Francesco Bonazzi, pubblicato dal «Secolo XIX».

Nel libro di Manfredi è un eroe buono, contrapposto al più feroce Romiti. Tecnico del l’automobile, ma anche con una visione strategica, peraltro iscritta nella visione americanista dell’Avvocato. Con il progetto di fusione con Ford, Ghidella è già nella seconda metà degli anni 80, l’anticipatore di una storia che sarebbe stata sviluppata dalla Fiat del nuovo secolo. Prima, nel 2000, da Gianni Agnelli, Paolo Fresco e Paolo Canterella con la cessione a General Motors, poi azzerata nel 2005. E in seguito dall’operazione Chrysler, firmata Marchionne, il cui sviluppo è sotto i nostri occhi.

In questo racconto collettivo e frammentario, resta un aspetto fondante della Fiat-istituzione, se si può dire così. Come spiega Franco Debenedetti nella prefazione, per una serie di elementi diversi (l’auto come simbolo del secolo, il boom economico, l’identificazione del nostro capitalismo nella storia degli Agnelli), «la Fiat ha esercitato una fascinazione sugli italiani quale nessun’ altra azienda».

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Prefazione di Franco Debenedetti – 12 dicembre 2010

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