Siamo certi che il problema sia Geronzi?

novembre 8, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Geronzi e i “piani alti”

C’é un problema Geronzi? Lo sostiene, senza punto interrogativo, “Report” di domenica scorsa. Secondo la sua conduttrice Milena Gabbanelli, dopo la condanna in primo grado per insider trading, con le nubi delle vicende legate al crac Cirio, da quanto emergerebbe da indagini interne sull’uso di fondi per iniziative promozionali, Cesare Geronzi non dovrebbe sedere sulla poltrona di Presidente del Comitato di Sorveglianza di Mediobanca.

Già il Financial Times aveva aggiunto il suo nome alla lista degli “unfit” decretati dalla migliore stampa anglosassone, suggerendo inoltre che il Governatore della Banca d’Italia non avrebbe usato il potere di moral suasion per bloccare la sua nomina. In altri Paesi – questa la tesi del giornale britannico – basta che il Governatore della Banca centrale sollevi un sopracciglio perché certi fatti non avvengano: Mario Draghi quel sopracciglio non l’ha sollevato.

Pertinente il riferimento alla Banca d’Italia: ma a quella dell’epoca Fazio. Fu infatti per difendere le banche, e in primo luogo Capitalia, dalle accuse di avere truffato i risparmiatori con i bond Cirio e Parmalat, che l’allora Governatore ebbe a dire in Senato che si trattava di “poche persone e pochi soldi”. Da quella frase, una frase pronunciata da lui stesso, non da altri, come quelle poi divenute celebri, incominciò il percorso che, attraverso la commissione d’inchiesta parlamentare, portò alla legge sul risparmio, e dunque alle modifiche dei poteri di Banca d’Italia: quella riforma di cui si discuteva da un quarto di secolo. Con le dimissioni di Antonio Fazio si è chiusa l’epoca dei “piani regolatori”, dei “confessionali” dove i progetti di acquisizioni bancarie dovevano essere confidati prima ancora che ai consigli di amministrazione. Questa è la storia da cui veniamo, questa la strada che abbiamo definitivamente abbandonato. La legge sul risparmio ha modificato i poteri di Banca d’Italia, e Banca d’Italia deve ridefinire il proprio ruolo, fondare la propria autorità solo sull’autorevolezza. Guai a compromettere questo processo con interventi “a sopracciglio alzato”, e non sul filo del rigore giuridico. Anche la governance duale, adottata da Mediobanca e da Intesa SanPaolo, è terreno nuovo: e Draghi è intervenuto per fare osservare a Cesare Geronzi l’incompatibilità tra presidenza del consiglio di sorveglianza e incarichi nel consiglio di amministrazione.

Fu Antonio Fazio a bloccare le due OPA ostili, SanPaolo IMI su Banca di Roma e Unicredito su Commerciale. Dopo quella duplice bocciatura, Unicredito si svilupperà in Germania, Commerciale entrerà nell’orbita di Intesa; lì finirà anche SanPaolo, incapace di mettere in atto una strategia alternativa. Ci si può sbizzarrire a immaginare che cosa sarebbe accaduto nel nostro sistema bancario senza quel doppio divieto: ma è certamente una conseguenza anche di quei fatti se oggi ai “piani alti” del sistema finanziario italiano troviamo Unicredito, che dal 18% scenderà al 9% di Mediobanca, di cui nomina il presidente; Mediobanca a sua volta con il 15,7 % di Generali, che hanno il 5% di IntesaSan Paolo. Mediobanca e IntesaSanPaolo hanno ciascuno il 10,6% e Generali il 28% di Telco, che ha il 23% di Telecom. IntesaSan Paolo potrebbe diventare il socio forte di Alitalia. E tutti i soggetti sono soci di RCS, editore del Corriere della Sera. Un sistema imbricato e compatto non tanto diverso da un’IRI senza Ministero delle Partecipazioni Statali. Era questo risultato che si aveva in mente quando si è privatizzato del sistema finanziario italiano?

Questo intreccio è conseguenza anche di decisioni passate, ma lo è soprattutto della pregiudiziale che Governo, partiti politici, e fino a poco fa Banca d’Italia, tutti congiuntamente, hanno fatto e fanno gravare sui mercati: doversi preservare l’italianità delle società coinvolte. E’ questo vincolo che, nonostante i conflitti, di interesse e non solo, che lo attraversano, cementa il blocco di quelli che abbiamo chiamato “ i piani alti” della finanza italiana. Questo intreccio è il problema vero, strutturale della finanza italiana: altro che Geronzi!

Ma è bastato che Algebris, un piccolo fondo hedge con una partecipazione inferiore all’1%, chiedesse ragione delle performance, nel medio periodo non stellari, di Generali e ne indicasse una delle cause nell’intreccio proprietario, e nella barocca struttura gestionale, per mandare scosse in tutto il sistema. Il terrore che si potesse materializzasse a Trieste lo spettro di Amsterdam, dove i fondi hanno mandato a casa il presidente di ABN Amro, sostituendo la sua ambiziosa ma inefficiente strategia con un più redditizio spezzatino tra scozzesi, spagnoli e belgi. Anche da noi, i vertici delle aziende “attaccate” hanno reagito dispiegando una vivace campagna di comunicazione. Le loro accuse contro gli hedge fund le vedremo riprese, c’è da scommetterlo, da molti dei commentatori usi a elaborare rapporti e a declamare invettive. Quella per cui i fondi sono “locuste” che minano la stabilità delle aziende, privilegiano le strategie “mordi e fuggi”, mettono i campioni nazionali nelle mani di chissà chi. E quella per cui sarebbero opachi, domiciliati in paradisi fiscali, fermi nel non rivelare l’identità di chi c’è dietro. La realtà è che gli hedge fund mirano solo al rendimento dei capitali che investono, non godono a esercitare il potere, non rincorrono i benefici privati del controllo, non difendono la nazionalità: sono senz’anima. E quindi non peccano.

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