Sì a regole per aiutare la concorrenza

agosto 8, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Fra regole, leggi e capitalismo

E’ forse utile una premessa, per sgombrare il campo da malintesi: il liberista non nega che esistano beni pubblici che il mercato non è in grado di fornire, al massimo è cauto nell’uso della locuzione “fallimenti del mercato”. A ben vedere infatti molti presunti “fallimenti” o sono dovuti a vincoli che impediscono il corretto funzionamento dei mercati, oppure non reggono all’analisi: come nella famosa confutazione di Coase sul caso dei fari, per anni acriticamente ritenuto un sistema che non avrebbe potuto funzionare senza l’intervento della mano pubblica.

Val la pena di ricordare che secondo lo stesso Friedrich von Hayek “assicurare un reddito minimo a tutti, o un livello sotto cui nessuno scenda quando non può più provvedere a se stesso, non soltanto è una protezione assolutamente legittima contro rischi comuni a tutti, ma è un compito necessario della Grande Società in cui l’individuo non può rivalersi sui membri del piccolo gruppo specifico in cui era nato”. Individuare ciò che deve avvenire fuori dal mercato è cosa affatto diversa dal voler imporre correzioni al mercato medesimo: le regole, appunto.

Nel “dizionario liberale” il capitalismo è l’ordine esteso della cooperazione umana; un ordine che si è evoluto spontaneamente e si è diffuso tramite selezione evoluzionistica; un ordine che non è sorto da un progetto, ma che è l’esito inintenzionale delle azioni umane intenzionali. E’ questa una concezione che si pone agli antipodi del programma costruttivista degli illuministi e dei positivisti, dei teorici della “teoria cospiratoria” della società, secondo la definizione di Karl Popper. Agli antipodi per intenderci del programma di un Voltaire che alla voce “legge” del Dictionnaire Philosophique scrisse: “Se volete buone leggi, bruciate quelle che avete e fatevene altre da soli”. Il razionalismo costruttivista che vuole programmare la società, indirizzarla a mezzo di “regole” è, in senso proprio, superstizione, poiché presuppone che gli individui sappiano più di ciò che conoscono. Invece nella cornice evoluzionistica l’idea del diritto come ordine spontaneo, che ” è esistito per molte epoche prima che all’uomo venisse in mento di poterlo creare o modificare” si contrappone all’idea costruttivista del diritto inteso come legislazione, frutto della volontà del legislatore. Per il liberale la società moderna è una società complessa che può funzionare solo se si affida al mercato, all’iniziativa individuale, alla concorrenza.

E’ proprio la natura delle regole a fare la differenza tra un ordine sociale spontaneo e la struttura ordinata di un’organizzazione. Cruciale a questo riguardo è la distinzione che Hayek fa tra legge e legislazione.
La legge “si può definire come un comando dato una volta per sempre, diretto a ignoti e che fa completa astrazione dalle particolari condizioni di tempo e di luogo, riferendosi solo a condizioni suscettibili di verificarsi da per tutto e in qualsiasi momento.” Leggi astratte sono ,a esempio, le tre leggi fondamentali di Hume, la stabilità del possesso, la cessione per muto consenso, l’adempimento della promessa. La legge è cosa distinta dagli atti dell’autorità legislativa, la maggior parte dei quali “sono piuttosto istruzioni impartite dallo Stato ai propri dipendenti sul modo in cui essi devono dirigere l’apparato di governo e i mezzi che hanno a disposizione”.

Il liberale ha dunque verso le “regole” un atteggiamento di critica sistematica, suo strumento è il principio che Popper ha chiamato del rasoio liberale: se “lo stato è un male necessario, i suoi poteri non devono essere moltiplicati oltre necessità.” In una prospettiva storica, regole sono state imposte e regole si sono dissolte. Regole che apparirono “naturali” e indispensabili quando vennero introdotte, si rivelano, nell’arco di poche generazioni, fondate sul pregiudizio. Il che non impedisce che altre ne vengano riproposte e di nuovo imposte, all’apparenza ugualmente “naturali”. Pensiamo a come sono cambiate le regole relative ai diritti individuali, alla famiglia, a ciò che viene considerato penalmente rilevante, al modo con cui e al fine per cui viene sanzionato. Regole che possiedono una loro isteresi, che sopravvivono alle buone o cattive ragioni che le avevano ispirate; e questo assai di più se il giudice, secondo l’impostazione razionalistica, amministra la giustizia in nome della norma, anziché considerare di dover gestire problemi di equilibrio sociale, come nei paesi di common law.

A maggior ragione il liberale userà il “rasoio” di Popper verso le “regole” invocate da coloro per cui il mercato è inevitabilmente “selvaggio”. E’ per domarlo che si erige l’armamentario di regole. A volte le cittadelle che esse dovrebbero difendere vengono espugnate, a volte restano isolate, ingombranti residui di vecchi privilegi. Pensiamo all’armamentario di regole con cui si sono presidiati i servizi pubblici, le banche, i trasporti, le professioni, la scuola, la sanità, le poste; le regole imposte per controllare i movimenti di merce e persone alle frontiere. Regole per il controllo dei cambi e per il movimento dei capitali. Regole per fondare un’impresa, regole quando vorrebbe crescere, regole quando dovrebbe morire. Regole la cui sorte appare, in questa fase storica, segnata, ma che ancora in parte resistono, sorrette dalla paura: e quanto più evidente appare il loro carattere arbitrario, con tanto più vigore gli interessati ne sostengono l’immutabilità, e anzi ne reclamano di nuove. E nel viluppo di norme finisce imbrigliata la capacità creativa del mercato.

C’è una speciale categoria di regole che pone un problema delicato per chi crede nella “inscindibilità di libertà economica e di libertà senza aggettivi” come ha scritto N. Bobbio: sono le regole che devono creare un quadro di riferimento proprio per il funzionamento del mercato concorrenziale. Qual è lo status delle norme e degli istituti che vengono introdotti per favorire l’affermarsi del mercato concorrenziale, se la sua superiorità sta proprio nell’essere il prodotto di un’evoluzione spontanea? Bisogna innanzitutto distinguere tra autorità di regolazione (quali quelle dell’Energia elettrica e del Gas, o quella delle Comunicazioni) e autorità Antitrust. Le prime hanno lo scopo di attuare la transizione dal regime di monopolio a quella di concorrenza, e operano ex ante; l’Antitrust invece controlla ex post se i comportamenti delle imprese sono tali da provocare effetti restrittivi o lesivi della concorrenza. Per le Autorità di regolazione la difficoltà non è nella loro legittimazione – dato che nascono per ricreare mercato concorrenziale là dove era stato abolito – quanto nel loro concreto agire. Le Autorità di regolazione dettano agli operatori regole di comportamento, stabilendo tariffe, definendo i diritti di concorrenti e consumatori. Il rischio è che finiscano per modellare il mercato secondo propri criteri, e per creare imprese che siano esse stesse creature del regolatore. E’ facile sottostimare il danno che lunghi periodi di monopolio creano al mercato concorrenziale, e quindi la durata e la profondità degli interventi necessari a ricostituirlo: ma i regolatori (e le loro strutture amministrative) dovrebbero aver chiaro che la loro è un’attività a tempo, che il loro compito è di realizzare le condizioni per la propria inutilità, entro un orizzonte temporale che non sarebbe male se venisse fissato dalla stessa legge istitutiva.
Più complesso dal punto di vista teorico il discorso sulle autorità Antitrust: tant’è che gli orientamenti in materia sono cambiati nel tempo. Sin dall’istituzione dell’atto che porta il suo nome, con il senatore Sherman, repubblicano dell’Ohio, stava chi sosteneva che la libera concorrenza equivaleva alla piena libertà industriale dei cittadini, e dunque che la politica doveva tirarsi indietro. Con il suo oppositore, George Edmunds, anch’egli repubblicano ma del Vermont, stava invece chi sosteneva che la politica non doveva fare il passo indietro ma stare bene in mezzo, per distinguere e decidere essa quale concorrenza fosse altrettanto pericolosa dei monopoli: per esempio dire si’ ai sindacati, anche se essi oggettivamente limitano la concorrenza tra lavoratori. Con la scuola di Chicago, con George Stigler e Richard Posner, sta chi altrettanto rifiuta la separazione, e non perché la politica sia sovraordinata, ma al contrario perché anche alla sfera politica e amministrativa si applica la logica privata dell’interesse e del profitto.

Si tratta di interpretazioni teoriche che hanno accompagnato l’evoluzione di istituti che dagli USA si sono diffusi in Europa accompagnando l’evoluzione del mercato verso assetti più concorrenziali. La globalizzazione dilata i mercati di riferimento e la tecnologia sovverte le posizioni dominanti: e ciò modifica le regole tradizionali con cui giudicare delle integrazioni verticali e orizzontali. E’ in atto un fertile processo di meticciato tra forme di mercato e modelli aziendali anglosassoni ed europei continentali. Questo desta preoccupazioni in chi teme che esso “dia luogo ad aperture e ad una “oralità” che insidia sempre più il vecchio modello di diritto teorizzato dal normalismo keynesiano”(Guido Rossi, Corriere della Sera del 25 Luglio); alcuni magistrati vorrebbero contrastarlo con l’istituzione di procure specializzate; organi come la Consob, di fronte alle prospettive di integrazione delle piazze finanziarie, additano il rischio che siano le imprese a scegliersi il regolatore. Al contrario, in una prospettiva liberale delle regole appare positivo l’emergere di un “paesaggio giuridico sempre meno riconoscibile nella sua tradizionale configurazione statalista e normativista “. Che ciò si accompagni con il diffondersi di nuove tecnologie e con il sorgere di interi nuovi settori industriali è, per i liberali, la controprova di un nesso largamente previsto.

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