Senza proprietà non c'è capitalismo

gennaio 25, 2010


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Michele Salvati invita la sinistra a sposare il riformismo se vuole ritrovare un ruolo da protagonista nel paese

Interesse intellettuale e passione politica si intrecciano nei lavori di Michele Salvati, rigore scientifico e impegno civile, fondendosi, diventano cifra stilistica. In “Capitalismo, Mercato e Democrazia” il lungo saggio introduttivo sintetizza le sue ricerche sul tema della teoria democratica.

Ma il sillogismo con cui proprio questa introduzione si apre è dettato dalla passione politica: le premesse, maggiore e minore, (“Non ci può essere democrazia senza proprietà e mercato; proprietà e mercato sono capitalismo”) portano a una conclusione (“non ci può essere democrazia senza capitalismo”) che fa a pugni con il dato empirico: “il capitalismo contrasta con la democrazia”. Infatti mentre l’essenza della democrazia è l’eguaglianza, l’essenza del capitalismo sono le diseguaglianze, delle opportunità e dei poteri: i capitalisti sono in grado di influenzare le azioni dei governi e le opinioni dei governati. Come la mettiamo? si chiede Salvati. La risposta è il riformismo, di cui in tal modo, per absurdum, dimostra la necessità.

Il sillogismo, come artificio analitico, appare incontrovertibile: ma politico è il criterio con cui si scelgono le premesse. Un liberale, ad esempio, incomincerebbe con lo scrivere “libertà” al posto di “democrazia”; e la contraddizione risulterebbe non tra democrazia e capitalismo, ma tra democrazia e libertà. Anche sui termini “proprietà” e “mercato” sono molte le variazioni sul tema. Salvati sembra considerare la proprietà come un requisito istituzionale del capitalismo, da digerirsi malgrado la sua natura inerentemente anti-egualitaria (il diritto di proprietà si fonda sulla “libertà di escludere”). Ma è altra cosa se lo considera lockianamente come un diritto naturale, non solo ancillare ma complementare alla stessa libertà individuale. Analogamente, fa differenza se il mercato conta solo come meccanismo per produrre ricchezza, o invece hayekianamente come organizzazione della nostra intelligenza collettiva, strumento per attribuire un prezzo alle cose.

Lo spazio di democrazia, capitalismo, eguaglianza come idee e non realtà politiche è affascinante. Però, riconosce Salvati, ci sono “questioni a cui non si può rispondere andando fuori dalla storia”. E stare nella storia vuol dire dare giudizi e questi possono divergere. Ad esempio, per Salvati le economie occidentali sono capitalistiche tout court ; invece, per una robusta corrente di pensiero (quella che richiamava su queste colonne Alberto Mingardi nel suo articolo sulla scuola di Chicago), quelle tra il 1930 e l’avvento di Thatcher e Reagan erano economie dirigiste e stataliste, e anche la crisi finanziaria del 2008 per alcuni è figlia di quel tanto o quel poco di keynesismo che era rimasto dalle parti del Tesoro e della Banca centrale americana. E ancora: storia vuole dire cambiamento, e fattore di cambiamento per eccellenza è la tecnologia: insidia le posizioni dominanti, introduce pluralismo, fa confliggere gli interessi, fa apparire astratta la descrizione dei “capitalisti” come una falange tebana che marcia compatta verso l’occupazione delle risorse. Salvati invece non la menziona, come non parla del consumatore, che pure sta al mercato come l’elettore alla democrazia.

Insomma, Michele Salvati resta nel solco dell’ortodossia socialdemocratica. Ma se interpreto bene alcuni incisi, qualche riferimento all’evoluzione del suo pensiero nel tempo, mi viene da avanzare un’ipotesi: Salvati ha scelto questa posizione perché è quella che i suoi interlocutori di elezione accettano senza riserve. È per loro che ha scritto il libro, è a loro che indica la prospettiva di un nuovo protagonismo, che con le riforme riesca a conciliare democrazia e capitalismo. Ma i propositi politici si espongono a un giudizio politico. E se penso alle riforme che concretamente oggi il Paese attende – un servizio sanitario senza sprechi, lo sviluppo (capitalistico) del Mezzogiorno, un ordine giudiziario che garantisca giustizia ai cittadini e via elencando – e alle risposte balbettanti e incerte che provengono della sinistra (per amore di verità, non solo dalla sinistra), mi domando se questo non dipenda proprio dal non voler andare oltre la piattaforma, azionista di nascita e socialdemocratica per necessità, tradizionale per la sinistra italiana. Se le risposte ai temi della libertà e dell’eguaglianza non siano invece da ricercare in una visione libera da pregiudizi del capitalismo nell’era della globalizzazione.

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