Se l’imprenditore fa il politico

febbraio 1, 1994


Pubblicato In: Varie


Sembra diffondersi la richiesta (e l’offerta) agli imprenditori di assu­mere responsabilità politiche diret­te; l’opinione che le loro esperienze e capacità possano contribuire alla soluzione dei nostri problemi, non solo direttamente, nella condotta delle loro imprese, ma anche indirettamente, applicandole alla gestione della cosa pubblica. Berlusconi viene accreditato di capacità politiche in quanto ritenuto imprenditore di successo, e c’è da credere che siano le indagini demoscopiche a suggerirgli di reclutare tra gli imprenditori i candidati del suo partito. La costituzione di un gruppo di imprenditori in Alleanza Democratica non ha solo lo scopo di fornire la garanzia che il polo progressista è impegnato su un programma di politica economica rispettoso delle esigenze delle imprese. E l’invito ad un maggiore im­pegno in politica è stato rivolto recentemente agli imprenditori dallo stesso Presidente Scalfaro.

A spiegare il fenomeno ci sono certo anche attese di tipo emotivo; la spettacolarizzazione che invade la sfera della politica (per cui si sente dire “Berlusconi for President” mentre nessu­no direbbe “Cuccia for President”); la nuova legge elettorale, che favorisce l’emergere di per­sonalità identificabili con storie di successo, “vendibili” sul mercato della pubblica opinione con le stesse tecniche con cui sono promossi i prodotti delle loro aziende. La cosa appare per alcuni versi singolare: le aziende cercano di li­mitare le conseguenze della crisi economica sui propri bilanci ricorrendo a licenziamenti, a To­rino come a Taranto, ad Ivrea come a Crotone. Gli eventi di Tangentopoli, indipendentemente dal ventaglio delle responsabilità, hanno deter­minato una perdita di credibilità dell’impresa in quanto soggetto che persegue interessi econo­mici in autonomia rispetto al potere politico. Se si deve estrapolare dalle telefonate degli ascolta­tori di alcune trasmissioni radiofoniche, la sola parte del craxiano “siamo tutti colpevoli” cui viene attribuita qualche consistenza è proprio quella che riguarda le corresponsabilità di poli­tici e imprenditori. Forse perché l’opinione pubblica distinguerebbe tra grandi e piccole imprese? Eppure le recenti statistiche dimostrano che sono pure le piccole imprese à licenziare (o a sparire), e fin dalla sua origine Tangentopoli ha visto coinvolte anche imprese minime. Neppure i suoi fan negano che Berlusconi sia cresciuto anche grazie, se non a favori, a simpatie politiche.

Il fenomeno induce anche a considerazioni positive: il teorema craxia­no verrebbe confutato non solo perché errato nelle premesse e nei fat­ti, ma perché, non potendo decentemente portare ad un’assoluzione generale, obbliga a fare distinzioni, a guardare più a fondo all’interno delle situazioni, perché si esige, se non altro pragmaticamente, di tro­vare qualcosa di sano e di solido su cui fondare progetti di ricostruzione. Poiché questa è morale oltre che economia, si direbbe che non solo si chieda all’impresa di rimettere in moto il meccanismo dello sviluppo ma che si diffonda il riconoscimento del valore etico dell’intraprende­re, il superamento della storica opposizione tra il perseguimento dei vantaggi individuali e del bene collettivo. Più che nelle grandi soluzio­ni globali si avrebbe fiducia nella somma delle soluzioni di problemi particolari; l’impegno individuale verrebbe additato come virtù civi­ca. Si tratta di una fiducia ben riposta? Si dovrebbe dare per scontato che un imprenditore che scelga di dedicare proprie energie alla politica sappia compiere il salto tra la considerazione degli interessi particolari e la cura dell’interesse generale. Gli imprenditori paiono oggi più av­vertiti delle loro responsabilità sia come attori economici che come soggetti politici, mostrano di comprendere quanto sostiene Giulio Sapelli, essere «l’impresa non solo un’organizzazione guidata dal perse­guimento del profitto, ma un’associazione di uomini uniti sia da rap­porti contrattuali che da rapporti di status, una istituzione, che si co­stituisce come un attore che occupa una posizione intermedia tra lo Stato ed il cittadino nella società politica di qualsivoglia regime». Ma è lecito chiedersi se le difficoltà che selezionano l’imprenditore di suc­cesso siano dello stesso tipo di quelle che deve affrontare il politico; se la dotazione di schemi interpretativi e di modalità operative che si sviluppano all’interno delle imprese sia adegua­ta a risolvere le situazioni della politica. Se, in luogo del “governo dei tecnici”, di cui si parlò più volte in passato, o in luogo dell’attuale “go­verno dei professori”, dovessimo avere un “go­verno degli imprenditori”, sarebbe solo perché si vuole sostituire alla neutralità scientifica del sapere, la credenziale pragmatica del saper fare? Enormi sono le differenze tra l’agire in ambito aziendale ed in ambito politico: che ciò non sia considerato un ostacolo dovrebbe indurre ad al­cune cautele. Il fatto che i problemi aziendali abbiano una scala dimensionale e una comples­sità assai minore, potrebbe indicare il desiderio di rimuovere l’interdipendenza che rende esa­speratamente lenta e complessa la mediazione politica. Che in azienda la leadership si avvalga anche di un notevole grado di autorità, sembra rimandare alla richiesta di un maggiore potere all’esecutivo. Che l’impresa abbia la caratteri­stica di un mondo chiuso, che può scaricare al­l’esterno la soluzione di alcuni dei suoi problemi, sembra indicare il desiderio di liberare lo stato di alcuni dei suoi compiti più onerosi. Se così fosse, l’attuale apertura agli imprenditori nascerebbe sotto un se­gno assolutamente diverso da quello che ha segnato i tentativi di Adriano Olivetti o di Umberto Agnelli, solo per citare due esempi pur così diversi tra loro. Nascerebbe più dal rifiuto che dalla scelta della politica, da un’esigenza di semplificazione più che di approfondimen­to, dal desiderio di saltare le mediazioni anziché di trovarne di nuove. In tal caso, le stesse delusioni attenderebbero le generosità (e le ambi­zioni) che animano anche questo tentativo. Val forse la pena tenerlo presente, perché lo spreco di risorse, di entusiasmi e di aspettative è una cosa che tutti, e gli imprenditori per primi, non possiamo permetterci.

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