Salviamo (almeno) il salvabile

aprile 14, 2013


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di Roberto Napoletano

«Direttore, lo scriva per favore che non ce la facciamo più». «Le nostre aziende sono sane, ripeto sane, ha capito bene, ma possono comunque fallire da un giorno all’altro, un Paese ridotto così non è un Paese serio». Sono a Torino, al Lingotto, il presidente della Confindustria, Giorgio Squinzi, ha chiuso i lavori di una due giorni della piccola impresa segnata da un minuto di silenzio in piedi «per chi ha perso l’impresa e per chi resiste».

Ha iniziato il suo intervento parlando da imprenditore e da «italiano» e ha concluso così: «Se chiudono le imprese, muore il Paese». Guadagno l’uscita e incrocio altri sguardi allarmati, penso al FATE PRESTO del novembre del 2011, al BASTA GIOCHI di un paio di settimane fa, penso al contatore delle imprese che chiudono ogni giorno che abbiamo deciso di mettere in prima pagina e ci riserva sorprese quotidiane sempre amare. Siamo usciti dalla (terribile) crisi finanziaria e di credibilità della fine del 2011 che riguardava l’onore e il buon nome del titolo Italia e rifletteva responsabilità (politiche e di decoro delle istituzioni) chiare e note, ma una ostinata incapacità di ascoltare e di fare della politica di governo da circa un anno in qua ha condotto a una serie di errori capitali, commessi con grande sicurezza e da noi puntualmente segnalati, che hanno messo in ginocchio l’economia reale e, cosa ancora più grave, hanno moltiplicato le paure fino al punto di farle diventare contagiose e determinare un clima generale di sfiducia.
L’Italia sana, quella che combatte ogni giorno per creare reddito e occupazione, che paga il conto di una crisi (mai vista in queste dimensioni) della domanda interna ma lotta centimetro su centimetro per conquistare nuovi lavori nel mondo, non merita la paralisi politica ed esige un esame di coscienza (in profondità) che riguarda tutti noi come cittadini italiani. Il Paese, nel suo insieme, ha diritto di avere le risposte che merita fuori da ogni populismo, spinte ideologiche e calcoli elettorali più o meno effimeri. Queste risposte le deve dare la buona politica (il resto è colore) ma anche la buona amministrazione, la forza tecnica (vera non apparente) degli uomini del fare, lo spirito costruttivo e lungimirante del mondo produttivo e del sindacato, una consapevolezza diffusa nel tessuto sociale del Paese, una o più generazioni di padri e di figli che ritornino a dialogare. Le macerie di oggi sono diverse ma non meno pesanti di quelle del secondo dopoguerra italiano e tutti (ma proprio tutti) abbiamo il dovere di recuperare il valore della memoria che ci consegna l’unico, vero miracolo economico frutto della passione politica di uomini della tempra di un De Gasperi ma anche del pragmatismo di uomini del fare del calibro di un Menichella, di un Carli o di un Pescatore, e dell’azione (mai miope) di sindacalisti coraggiosi come Di Vittorio e di imprenditori attenti alle specificità del capitalismo italiano come Angelo Costa.
A metà settimana sono stato in visita al salone del Mobile, a Milano, e custodisco con me le facce di un’imprenditoria che non si arrende, dietro di loro ci sono aziende sane che soffrono ma non mollano. Lo so che il mondo si è globalizzato ed è (molto) cambiato, ma credo che un Menichella, un Carli, un Pescatore, anche nel vuoto aberrante della politica, non sarebbero rimasti con le mani in mano. Un’idea l’avrebbero avuta. Un esempio? Che cosa impedisce all’intelligenza tecnica di partorire, in tempo reale, un nuovo veicolo finanziario di diritto privato che metta insieme chi ci sta e possa offrire le competenze e la dote necessaria per garantire una serie di strumenti (partecipazioni di minoranza, finanziamenti a lungo termine, fondo di rotazione e così via) che possano mettere in sicurezza almeno le aziende italiane sane, sono tante, quelle che non hanno una crisi industriale, ma soffrono pesantemente il morso di una crisi finanziaria determinata da una persistente politica di restrizione del credito. Si può pensare come azionisti a un pool di banche o alla stessa Cdp, come socio di minoranza, o anche a soggetti economici terzi ma liquidi, o a altro ancora magari già esistente, l’importante è che lo strumento si faccia, sia in grado di approvigionarsi sul mercato estero della raccolta a prezzi vantaggiosi non per alimentare la liquidità e gli investimenti finanziari delle banche ma per sostenere concretamente le imprese sane meritevoli di credito. I tempi esigono fantasia e serietà, alla prova del fare, e lo chiedono alla politica e alla classe dirigente (tutta) del Paese per evitare che il senso condiviso dell’urgenza ceda il passo al senso di colpa del vuoto. A quel punto, non ci sarebbe più nulla da fare.

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