Riformisti e radicali. La Sinistra che non dice solo no

novembre 24, 2002


Pubblicato In: Varie

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Forum dell’Unità con Tiziano Treu, Nicola Rossi, Franco Debenedetti e Ferdinando Targetti

a cura di Raul Wittenberg

Sulla frontiera del nuovo riformismo con le proposte e con l’intransigenza.

FURIO COLOMBO: Quale riformismo. È di questo che parliamo in questo Forum, con alcuni degli autori del volume «Non basta dire no», per capire se c’è una linea di frontiera tra un tipo di riformismo e l’altro o fra qualcosa che è riformismo e qualcosa che non lo è. E fra gli autori chiediamo a Ferdinando Targetti, che è anche collaboratore dell’Unità, di dirigere la discussione che dividerei in tre parti: la presentazione del libro, le sue proposte, dove portano queste proposte dal punto di vista della discussione politica quotidiana, del contrapporsi alla Destra.

TARGETTI: Il volume nasce da un’idea di Franco Debenedetti, lui ci dirà che cosa lo ha indotto ad invitarci a collaborare per questo libro, ma mi sembra di capire che fosse, sostanzialmente, questa: in materia di lavoro, la più importante, ci sono posizioni variegate anche nell’area riformista nella quale comunque si può dialogare senza trovarsi necessariamente muro contro muro. Specialmente sul mercato del lavoro, c’è un ventaglio di opinioni circa la assoluta necessità di fare le riforme avviate nella precedente legislatura e che per motivi vari, di natura sia interna alla Sinistra, sia per il fatto che adesso ci si trova all’opposizione, si sono fermate. Questo induce a parlare anche del riformismo più in generale, e nel libro ci sono vari saggi che lo affrontano anche nei termini proposti sabato scorso dall’articolo di Padellaro sull’Unità: certe riforme si possono fare quando l’interlocutore è il Governo Berlusconi? La mia impressione è che sicuramente sì, bisogna andare avanti nell’esercizio di trovare delle soluzioni che, qualora fossimo al governo, proporremmo. Si tratta però di soluzioni che richiedono altri interventi e non è detto che il governo di Centrodestra sia disposto a coniugarli insieme ai primi. Per converso non è detto che le stesse proposte che faremmo se stessimo al governo, siamo disposti ad appoggiarle qualora fossero proposte dal Centrodestra. La mia posizione è: continuiamo a proporre delle soluzioni, ma siccome tutto si tiene, sono politicamente fattibili solo se ci sono certe condizioni, non possiamo consentire che il progetto venga usato come un carciofo, che si tolgano alcune parti senza che altre vengano, contemporaneamente, risolte.

DEBENEDETTI: Furio Colombo parlava della linea di frontiera, del terreno della contrapposizione. Certo, questo era sicuramente presente quando ho chiesto ad alcuni amici di scrivere le loro idee su quello che in quel momento era il tema più caldo, ma generalizzando rispetto allo specifico del mercato del lavoro. Quindi un discorso sulla Sinistra di governo, che parte dall’orgogliosa rivendicazione di quello che il Centrosinistra ha saputo fare nella scorsa legislatura. Io voglio che la sinistra vinca, voglio che riportiamo la Sinistra al Governo del Paese: questo è il senso del mio lavoro. Su questo c’è stata una vivace polemica, proprio su questo giornale, lo scorso inverno. C’è chi dice «No, è il caso di dire no, perché questo è un governo indecente e perché, comunque, per vincere non si può rinunciare alla propria identità». Un discorso che io giudico astratto.

ROSSI: Nel libro c’è anche una riflessione sul tipo di avversario. Se sfidato su alcuni terreni, questo governo mostra i suoi limiti e questa maggioranza mostra le sue enormi divisioni interne. Domandiamoci: con questo tipo di avversario come è più opportuno atteggiarsi per sconfiggerlo? La mia sensazione è che questo governo e la sua maggioranza hanno dei limiti enormi proprio per la loro incapacità di pensare qualunque cosa che somigli ad una riforma. Del resto la parola «riformista» è nostra, e facciamo un errore enorme quando concediamo alla Destra di usarla. E allora prendiamoli sul serio sapendo che non possono fare sul serio e sapendo che tutte le volte che ci hanno provato si sono fermati dopo due metri. Se noi, invece, diciamo di no, per usare il titolo del libro, ci facciamo dettare l’agenda politica da loro, cosa, secondo me, molto preoccupante, perché chi si candida a governare deve avere la capacità di cominciare a dettarla, l’agenda politica.

TREU: Il contenuto-idea del libro è proprio questo anche secondo me: quale è l’efficacia, la direzione della nostra opposizione a questi interlocutori, quindi della nostra costruzione di un patrimonio per andare al governo. Tuttavia è chiaro che il no si può pronunciare e si pronuncia. E noi siamo facilitati da questo interlocutore a dire no persino sul versante del lavoro dove potrebbe essere più complicato, perché questo è un interlocutore che fa proposte indecenti. Tuttavia noi dobbiamo fare proposte di tipo riformista e per «noi» intendo il Centrosinistra, senza trattino, non una Sinistra, perché ha anche a che fare con il tipo di alleanze e di insieme di forze che sono più efficaci per opporsi a questo governo. È vero che le nostre proposte riformiste creano difficoltà nella maggioranza. Un esempio è la delega sul mercato del lavoro: la Margherita e in parte anche l’Ulivo le hanno formulate e non c’è stata una capacità di rispondere, neppure sull’affitto di manodopera, o sugli ammortizzatori sociali. Dobbiamo proseguire così anche sulle pensioni. Anzi, soprattutto sulle pensioni perché il welfare è il vero test in questo momento. Dobbiamo indirizzare la nostra azione riformista anche nelle dimensioni regionali decentrate. Abbiamo tutti noi dimenticato il federalismo, ed ecco che al Senato arriva una proposta di devolution forse più grave della Cirami, è la teorizzazione e la pratica dello sfascio dello Stato repubblicano. Noi siamo stati fermi per sedici mesi. Sull’art.18 posso capire che abbiamo rinunciato a proporre per amore di unità dell’Ulivo, perché questa è una materia troppo conflittuale. Ma su altri versanti abbiamo un terreno enorme per creare contraddizioni senza pregiudicare la nostra identità riformista.

PADELLARO: A questo punto ci sentiamo tutti riformisti, ma facciamo un passo indietro per chiarire un equivoco, proprio sull’art.18: come giudicate le grandi manifestazioni e quell’opposizione che si è sviluppata soprattutto da parte della Cgil e dall’allora segretario Cofferati? Punto secondo: quella proposta del governo si poteva discutere?

TREU: La proposta del governo non si poteva accettare come tale. Ed esiste una proposta riformista che può metterli in difficoltà, lo abbiamo scritto nel libro, l’abbiamo elaborata alla fine della scorsa legislatura, manteneva la reintegrazione, ma la rendeva più intelligente e, quindi, questo era un terreno molto serio, assolutamente europeo, niente affatto reazionario o arrendevole. Ci sono state anche ammissioni autorevoli all’interno della nostra coalizione che quella sarebbe stata una materia praticabile, difendibile, ma che, in fondo, non si poteva fare per amore di unità, soprattutto nei rapporti con la Cgil. Per quanto riguarda l’opposizione che, invece, è stata praticata: questa è stata un’occasione, anche se non perfettamente pertinente, di grande emozione, era anche giusto ed utile che si facesse. Ciò però non significa che ogni questione sia una battaglia di civiltà ed ogni virgola che cambia in una normativa centenaria metta in pericolo la dignità umana. In tal modo si fa un pessimo servizio, oltre che alla verità, anche alla politica. Gridare «al lupo al lupo», esagerare sui diritti sempre e dovunque in pericolo finisce col diventare un’operazione di conservazione.

ROSSI: Le manifestazioni sindacali erano legittime, direi dovute. Sarebbe stato impensabile un sindacato che non avesse protestato contro norme che sicuramente ledevano le condizioni di lavoro dei suoi iscritti. Le condizioni di lavoro, piuttosto che i diritti. Quando si usa la parola diritti, la si usa per tutti e si arriva fino in fondo. È una parola da usare con molta prudenza. Passando, però, alla seconda domanda, il punto è che non bisogna farsi dettare l’agenda da questo governo e da una proposta come quella. Il Centrosinistra avrebbe dovuto proporre un percorso riformista sul mercato del lavoro, fatto di cose che nella proposta governativa non ci sono. Parlo del completamento della riforma previdenziale, dello spostamento delle risorse dalla previdenza agli ammortizzatori sociali, insomma di un sistema compiuto, e solo in questo quadro accettare di discutere alcune questioni. In tal modo si sarebbe proposta un’agenda riformista al Paese, che questo governo sarebbe stato del tutto incapace di accettare. Invece non il sindacato, ma il Centrosinistra politico è stato trascinato in una discussione non utile tanto a se stesso quanto al Paese, ma solo al governo.

DEBENEDETTI: Quella del ministro Maroni l’ho chiamata una «riformicchia», un pasticcio. Radicalmente diverso dalle idee di Pietro Ichino, tradotte nel disegno di legge che ho presentato nella passata e ripresentato in questa legislatura. Un progetto, il nostro, che estende, redistribuendole, le tutele, che vuole far funzionare meglio il mercato del lavoro. Perché – noi ne siamo convinti – il problema dell’art.18 è un problema interno alla Sinistra. Riguardo alle manifestazioni di piazza, la parola «diritti» è stata usata a sproposito. Un diritto, non può valere a seconda che uno lavora in un’azienda con meno o con più di 15 dipendenti. E usare a sproposito parole importanti è sbagliato, perché è perdente. Non solo, ma sulla scia dei diritti si sono sparsi dei veleni nei rapporti sociali. Cito nel mio pezzo un articolo di Bruno Trentin sull’Unità, in cui per parlare contro il mio ddl, si accreditava l’immagine di un mondo delle imprese dove i padroni insidiano le loro dipendenti, e si danno a licenziamenti discriminatori. Tutti sanno che questo è falso, e quindi il sostenerlo ci nuoce. Più in generale, è lo stesso discorso per molte delle mobilitazioni, dei girotondi: quando si usano parole d’ordine in modo improprio o generico, per eccitare le masse. Finiscono o per creare delusione o per prendere strade sbagliate.

COLOMBO: L’Unità è stata frequentemente accusata di essere massimalista, estremista, di essere un giornale da cui discende odio e conflittualità. Potete ricordarci un «al lupo, al lupo» de L’Unità in cui, poi, non c’era «il lupo», visto che in tutto ciò che avete detto «il lupo» c’era? Secondo punto: è venuta spesso dall’interno della Sinistra nei confronti di questa Unità la distinzione fra riformismo e massimalismo a carico di due persone di questa curiosa direzione, una che viene dall’America e l’altra da Il Corriere della Sera e dall’Espresso, che, francamente, nella loro vita cosa fosse il massimalismo non lo hanno mai saputo. In America non ho mai sentito definire massimalista Robert Kennedy nel suo accanito sostegno ai raccoglitori d’uva clandestini della California\, e neppure il Senatore democratico Mc Govern per essersi messo alla testa dei movimenti contro la guerra nel Vietnam. Perché non sono stati definiti massimalisti? Perché la parola massimalismo non era disponibile nel vocabolario americano, si trattava di passione, si trattava di andare a fondo sulle cose. Una parte della classe dirigente americana ha visto il pericolo, ha gridato «al lupo», la storia americana ha, poi, scoperto che «il lupo» era proprio lì ed anche se non è stato il gruppo di quei Senatori e quel Partito a riuscire a fare la pace, la pace è venuta ed è stata fatta entro pochi anni a causa della denuncia appassionata che questi avevano fatto senza essere mai stati chiamati massimalisti. E noi, quale lupo abbiamo denunciato che non c’era? Qui all’Unità l’obiezione alla classe imprenditoriale l’abbiamo fatta con passione e con tenacia quando essa si è fatta rappresentare da D’Amato che ha organizzato una grande platea elettorale a favore del candidato Silvio Berlusconi trasmessa dalla Tv di Stato. Rispetto ad essa, era poca cosa la puntata di Biagi con Benigni. Noi abbiamo preso posizione non contro la Confindustria o contro gli imprenditori, ma contro D’Amato il quale si è infuriato per questo. Siamo andati incontro alle rotture di «establishment» tipiche dei sistemi bipolari, come avviene regolarmente negli Stati Uniti. Noi abbiamo rotto, con questo giornale, la consuetudine di fare una politica di piazza di un genere e poi una politica di salotto di un altro genere. Mi è stato detto che il nostro era un massimalismo da salotto, in quei salotti io non ci sono più andato dal momento che avrei dovuto cortesemente ritrovarmi con coloro che sul giornale stavo accusando, con passione, di danneggiare seriamente l’Italia. Gli «establishments» si spezzano su certe cose. Questo è il nostro massimalismo. Noi non abbiamo mai mollato nel denunciare le emergenze sulla legalità, sul razzismo. E sulla memoria, quando ci vogliono far ricordare un’altra Italia e non quella di Marzabotto e della risiera di San Saba. Abbiamo denunciato tutto da soli. Il razzismo della Lega che adesso viene fuori nella «devolution» è citato persino nell’appello degli intellettuali, dei Premi Nobel, e ci dicevano di
essere esagerati! Quando ero deputato mi si diceva che quel tale della Lega era ragionevole, e poi ascoltavo i discorsi di Ce, di Comino e mi ribellavo perché stavano rompendo il tessuto base della Repubblica in cui abbiamo vissuto insieme. Abbiamo usato la parola diritti sostenendo la Cgil, ma nel contesto del rischio di una violazione ampia che stava avvenendo. E non c’è dubbio – come dice Debenedetti – che tipico del diritto è di essere universale. Noi abbiamo usato quella parola in senso giornalistico, politico e non giuridico nel contesto del rischio più ampio di violazioni. Avrete notato, che, con tutto il nostro massimalismo e con tutti i nostri lupi, nel momento in cui D’Amato ha smesso di essere scudo e portavoce diretto di una politica governativa, il giornale ha smesso di occuparsene. Vorrei che Debenedetti ci aiutasse a riconoscere dove e quando abbiamo colpevolizzato tutti gli imprenditori, coscienti di quanti fra loro hanno votato e voteranno per il Centrosinistra.

DEBENEDETTI: La parola «diritti», nel senso che ho detto improprio, io l’ho sentita enunciare per la prima volta da Sergio Cofferati in una riunione al Senato: voi avete correttamente riferito. Quindi nessuna polemica su questo. Diversa è la polemica, che ho sollevato a proposito sulla linea politica de l’Unità, rispetto alla dialettica interna ai Democratici di Sinistra. L’Unità si definisce quotidiano dei Gruppi parlamentari dei Democratici di Sinistra di Camera e Senato: ma, come è opinione larghissimamente condivisa, l’Unità, soprattutto nei mesi passati, ha seguito una linea editoriale marcatamente diversa rispetto agli esiti del Congresso di Pesaro. Detto questo, torniamo agli allarmi esagerati ed al massimalismo. Gridare «al lupo» significa segnalare più che un’emergenza, un pericolo. Sulle vostre colonne la parole «regime» è comparsa con firme autorevoli. Rispetto a questo governo e a questa maggioranza è chiaro che c’è preoccupazione e opposizione, ci mancherebbe. Ma il regime è altra cosa, che comporterebbe un radicale cambiamento della lotta politica. In questo paese non c’è un regime ed è sbagliato farlo credere. Questo non significa alcun cedimento o compromesso sulle proprie idee. Io sono contento di vivere in un Paese in cui non c’è il manicheismo, in cui non si dice: «Tu vai nel salotto dei democratici, io vado nel salotto dei repubblicani». Tra l’altro, caro Furio, avremmo qualche problema quando, come in famiglie che conosciamo, la moglie ha votato per me e il marito, no. Quello del regime è un problema centrale. Se è vero che c’è il regime, allora non c’è spazio per una Sinistra di governo. Io non credo che sia così. Questo è un governo pericoloso per le sue incapacità. Incapace perfino di scriversi le leggi che gli convengono: Cirami docet. Ma qui sta anche per noi la possibilità di emergere come classe di governo. Noi abbiamo una storia di cinque anni in cui abbiamo governato bene, siamo credibili e questo è un patrimonio che non possiamo buttare via. Questa è la linea che vuole collegare l’opposizione di oggi alla vittoria di domani. È sempre nella prospettiva di una sinistra di governo che io polemizzo contro la strategia cosiddetta delle due gambe, la Sinistra che si occupa della sinistra e il Centro del centro. Tra l’altro perché castrante per la Sinistra: in tal modo è sempre di centro il leader della coalizione, e la sinistra si condanna a fare il portatore d’acqua per sempre. Mi sembra strano che sia uno come me, che non è nato politicamente in questo partito, a dirlo e a trovarlo ingiusto nei riguardi delle competenze e delle capacità che ci sono a Sinistra. Se vuole vincere, la sinistra deve far propria la visione riformista, e farlo dall’inizio, non alla vigilia delle elezioni.

TARGETTI: Cerchiamo di collegare le varie parti della discussione. Un problema per il riformismo di opposizione si pone almeno su sei questioni. Primo punto, la tutela dell’occupazione non avvenga a livello di impresa ma a livello di mercato, che significa però spesa in formazione e in ammortizzatori. Secondo le pensioni: i fruitori delle pensioni accettino il pro quota e si ritardi l’età per le pensioni di vecchiaia, ma le imprese facciano uno sforzo in più sul Tfr. Terzo, per aumentare l’occupazione, si riducano i contributi all’Inps e uniformino quelli di autonomi e dipendenti, ma le prestazioni non devono diminuire e una parte del finanziamento delle pensioni passi alla fiscalità generale e quindi no alla riduzione delle tasse. Quinto punto, privatizzazione, ma con liberalizzazioni. Sesto sì alla durata ragionevole dei processi, no alla separazione delle carriere. Questi sei esempi si collocano in un modello riformista, ma in quelle sei ipotesi soltanto la prima proposizione potrebbe essere accettata da Berlusconi, non la seconda. La mia posizione e, penso, anche quella de L’Unità, è contro una politica fatta di una sola di queste due componenti. Come si fa ad essere «bipartisan» sulla prima di tutte queste sei ipotesi con un Governo che non solo non fa le seconde, ma anche sul terreno della legalità, del conflitto di interessi, della «memoria», del razzismo è quello che è? Questo è il problema cruciale. Il discorso invece che si faceva prima sull’articolo 18 e i diritti che sarebbero stati violati in modo insopportabile fa parte di una concezione che non accetta nemmeno che la prima di queste formulazioni sia discussa. Esiste a Sinistra questa posizione, e non è condivisibile.

E’ pericoloso gridare «al lupo al lupo»? Non quando in giro ce ne sono tanti

ROSSI: Proprio su questi punti va chiarito un equivoco. Quando sosteniamo che non basta dire no, non significa che arriva la proposta della Destra e si discute. È sbagliato, lo ripeto, che si lasci fissare l’agenda a questa maggioranza. Il punto è che su una serie di questioni noi dovremmo uscire prima con una nostra proposta. Non è poi vero che il riformista sia un moderato, sempre pronto all’accordo. Carlo Rosselli dimostra come un riformista possa essere radicale nelle sue posizioni ed animato da una straordinaria passione. Si è irriso sulla nozione di Sinistra liberale, ma chi rilegge Carlo Rosselli scopre una assoluta radicalità sui principi della democrazia liberale. Detto questo permettetemi di porre alla vostra attenzione l’intervista di Tremonti su La Stampa e le straordinarie convergenze con alcune posizioni che si sentono a sinistra. Il no alle privatizzazioni, il no alle liberalizzazioni, le forme di neoprotezionismo, un riscoperto malinteso intervento dello Stato, e così via. Trovo un sorprendente punto di contatto tra l’ipotesi, fortunatamente tramontata però perseguita dal governo, di un intervento diretto nel capitale della Fiat e l’emendamento di Rifondazione comunista che perseguiva esattamente lo stesso obiettivo. Stiamo quindi attenti a vedere la tendenza bipartisan dove non c’è e a non vederla, dove invece si concretizza. Qual è il lupo che non c’era? Premesso che anche io tendo ad usare con molta attenzione la parola «regime», questa mi sembra una stagione in cui di lupi ne compare uno al giorno. E la mia sensazione è che L’Unità ne abbia dimenticato qualcuno. Esiste una emergenza,ad esempio: il servizio della giustizia per il cittadino. Una emergenza percepita dalla stragrande maggioranza degli italiani. Non dovremmo noi porci un problema che riguarda soprattutto la povera gente e quindi dovrebbe essere nostro? Un problema che non si può accettare che venga surrettiziamente usato per finalità diverse. Un altro dei «lupi» che non abbiamo visto è lo scivolamento nella classifica internazionale della competitività dell’Italia dal 26° al 39° posto, e qui c’è molto terreno riformista da arare. Scivoliamo perché la Pubblica Amministrazione peggiora, per le politiche sul Mezzogiorno, scivoliamo per le privatizzazioni che non vengono fatte così come le liberalizzazioni. Cose su cui abbiamo fatto molto nei cinque anni passati e su cui non dovremmo aver cambiato idea. Ci sono dunque altri «lupi» che si avvicinano. Ecco: concentrare la nostra attenzione solo su alcuni argomenti credo ci abbia impedito di vedere questioni che per questo governo sono almeno altrettanto rilevanti e su cui questo governo è almeno altrettanto debole e vulnerabile. Ultimo punto. È vero che i salotti sono separati. Ed a me non interessa il parlamentare di destra. Mi interessa invece il suo elettore, perché è lui che voglio convincere del suo errore, e per farlo devo incontrarlo da qualche parte.

TREU: Quando dicevo «al lupo, al lupo» avevo in mente precise difficoltà ed errori non solo comunicativi nel Centrosinistra. Io sono colpito dalla difficoltà di coniugare l’iniziativa riformista su certi temi con la necessaria intransigenza su quelli dell’illegalità, del conflitto di interessi, dell’immigrazione, della devolution, della Rai, tutti temi che attengono – questi sì – ai diritti civili ed alla essenza della democrazia. Poi possiamo discutere se l’emergenza è così grave da parlare di regime o no, però io qui mi sento radicalissimo e appassionato. Però quando si passa da questo terreno a quello della modernità della produzione, del mercato del lavoro, del welfare, scatta un meccanismo di omologazione e di difesa. Io pratico molto l’Europa e gli Stati Uniti, se denunci quelle emergenze istituzionali ti capiscono perfettamente, ma se tu cominci a fare lo stesso discorso sulla liberalizzazione del mercato del lavoro, sulle pensioni, sulla competitività, sulla pubblica Amministrazione questi ti guardano con gli occhi fuori dalla testa, cioè non capiscono il nostro punto di vista. Anche all’interno dell’Ulivo su questi punti non riusciamo neppure ad affrontare le divergenze che pure ci sono. Invece è possibile farlo, formulare una proposta su terreni difficili ma giusti come la Carta dei diritti e gli ammortizzatori sociali. Dobbiamo farlo, altrimenti si dà un vantaggio competitivo a questo governo disgraziato e diventa difficile fare operazioni convincenti nei confronti di quel mondo produttivo che è in parte buono. Gli imprenditori veneti sono gravemente disaffezionati, ma sostengono di non poter accettare il terreno della piazza, per cui occorre trovare un tavolo in cui confrontarci. E non si tratta di fare inciuci, ma proposte politiche che potrebbero essere accettate in un quadro di federalismo regionale. E poi si creano tensioni interne a noi, nelle fabbriche c’è un clima di guerriglia, alcuni di noi vengono accusati di connivenza, sono freni gravi alla costruzione delle nostre piattaforme in vista delle elezioni.

DEBENEDETTI: Il sospetto che chi sostiene posizioni riformiste sia incline a cedimenti è ingiustificato dunque ingiusto: da respingere in toto. Il mio pezzo in questo libro è proprio una riflessione su come condurre la battaglia riformista dall’opposizione. Io credo che una sinistra di governo, anche quando è all’opposizione, deve ragionare come se fosse al governo. Certo che esiste l’emergenza giustizia: ma non è la Cirami, che è una indecente sciocchezza. Modifiche sul reato di falso in bilancio si sono discusse a lungo ben prima che Berlusconi entrasse in scena, certo che noi avremmo fatto una legge diversa, ma il problema è reale e noi sbagliamo a schierarci apoditticamente contro. Così come sbagliamo a opporci perfino alla separazione delle funzioni, perché la fiducia dei cittadini nella giustizia non aumenta se chi lo accusa e chi lo giudica sono colleghi contigui anche nelle stanze in cui lavorano. Ecco, io rivendico a questo genere di opinioni il diritto di cittadinanza nella sinistra. Del resto i problemi importanti sono anche difficili, e non credo che a priori le posizioni giuste siano a sinistra e quelle sbagliate a destra. Non credo alla partigianeria, ma all’opposizione. L’estremismo verbale per raccogliere le «masse» non è nella migliore tradizione della Sinistra.

PADELLARO: Se la Cirami è una «immonda sciocchezza», perché lei ha proposto di astenersi? Allora l’intransigenza quando è che si usa, se anche su una immonda sciocchezza ci si può astenere?

DEBENEDETTI: È indecente, o immondo, il fatto di aver presentato quella legge\, ma è una sciocchezza come ne è uscita. E questo è stato un nostro successo. Siamo riusciti a far capire alla gente la gravità di aver avanzato quella proposta, abbiamo provocato spaccature al loro interno e attriti con il Capo dello Stato, abbiamo ottenuto modifiche decisive. Illustri colleghi ritengono che così com’è non servirà per spostare il processo Previti. Con 100 parlamentari in meno, abbiamo avuto un successo, vogliamo prendercene il merito? Con la proposta di astensione, che in Senato vale no, suggerivo solo un modo eclatante di comunicarlo.

ROSSI: Su questo sono stato in dissenso con Debenedetti.

LUPPINO: A proposito di riformismo, la flessibilità del mercato del lavoro è stata introdotta dal Centrosinistra che però poi ha perso le elezioni e quindi c’è un problema di consenso. Sulla giustizia invece la Cirami è stata imposta dall’agenda del Centrodestra, e qui il metodo riformista non ha funzionato perché non c’era un progetto alternativo sul legittimo sospetto, quindi è stato vincente dire no. Inoltre ad ogni apertura dell’anno giudiziario abbiamo gli appelli dei procuratori sulla giustizia che non funziona. Non potremmo formulare delle proposte prima che il Centrodestra imponga la sua agenda, magari dopo la sentenza su Andreotti?

TREU: La flessibilità non è in questo momento un terreno di grande rilevanza, non so se porti o tolga voti, ma nell’area sociale adesso il tema vero è quello del welfare diffuso. Noi potremmo fare qui operazioni molto intelligenti ed utili, ma invece siamo un po’ debolucci. Sulla giustizia nonostante le divisioni al nostro interno, abbiamo un’area in cui dovremmo elaborare proposte che riguardano l’inefficienza e l’equilibrio tra Pm e giudici.

CASCELLA: Vorrei che Nicola Rossi approfondisse il tema della radicalità del riformismo, perché c’è una radicalità nel dire no, ma credo che ci debba essere una radicalità nella stessa gestione del sì, intesa come forza nel sostenere proposte alternative. Inoltre, siamo stati sconfitti per eccesso o per carenza di riformismo?

ROSSI: Cerchiamo di capire: al governo, ad esempio, forse non avremmo ottenuto lo stesso risultato se avessimo fatto noi la riforma del collocamento ed avessimo così intercettato i tantissimi ragazzi che non sanno dove andare per sapere che cosa c’è dall’altro lato del mercato del lavoro. Abbiamo risposto ad alcune esigenze dell’impresa, ma ci siamo fermati sulla riforma del collocamento, rimasta sulla carta, sulla parte che più ci interessava, cioè sulla risposta da dare ai giovani. Più in generale, a proposito della radicalità, uno dei caratteri del riformismo è la coerenza dei suoi elementi. Una riforma non è fatta solo di una cosa ma da una serie di pezzi che si completano: privatizzazioni e liberalizzazioni sono un buon esempio. E per tornare alla giustizia, ho trovato non pochi elettori, anche miei, sconvolti dal loro incontro con il «pianeta giustizia», per le sue lungaggini, per il suo funzionamento inefficiente, perché si sono sentiti colpiti nei loro diritti. Ecco un problema reale, e non legato solo al caso Andreotti, su cui praticare un riformismo vero con una proposta nostra che non sia legata all’emergenza che ci impone il governo.

GRAVAGNUOLO: Uno dei dati salienti del riformismo della Sinistra era un forte ruolo della mano pubblica, e invece siamo arrivati al punto che la parola Stato per la Sinistra è come l’aglio o il crocefisso per il vampiro. Non c’è un po’ di esagerazione in tutto questo? Perché in Francia lo Stato francese alla Renault ha una golden share, perché in Germania lo Stato della Bassa Sassonia ha un ruolo dominante nella Volkswagen? Perché lo Stato non potrebbe aiutare la Fiat a riprendersi?

COLOMBO: È vero che io ho parlato di regime, non di pericolo di regime. Io sostengo che sia un regime mediatico e che quest’ultimo ha la gravità che avevano in altri tempi i regimi di occupazione fisica degli spazi. Quando un Presidente del Consiglio può dare degli ordini che non hanno niente a che fare con la sua funzione e con il suo ufficio, e quegli ordini vengono eseguiti da persone che non dipendono da lui, vedi il licenziamento di Biagi e Santoro, vuol dire che c’è una trasversalità di gerarchia che non ha niente a che fare con la funzione, i poteri, la legittimità ed i limiti del Presidente del Consiglio. Quando ho posto il problema all’attenzione del Centrosinistra, la prima reazione è stata un gesto di sprezzo. Sul ruolo dello Stato volevo ricordare che il presidente Carter, e poi Reagan, ha dato 2 miliardi di dollari alla Chrysler per rinascere, nella forma del prestito, dimostrando che la fantasia non è mai finita quando ci si trova di fronte al numero di disoccupati che la Chrysler avrebbe creato.

WITTENBERG: Alla luce di quel che si sta dicendo adesso, non merita ulteriori commenti il New Deal di destra annunciato da Tremonti, insieme a un pesante intervento dello Stato sull’economia, contro il mito delle privatizzazioni?

TARGETTI: Dovrei a questo punto tirare le fila, invece intervengo prima su alcune questioni. Flessibilità. Malgrado esista una tesi condivisa anche da molte autorevoli organismi internazionali, io non credo che con maggior flessibilità l’Europa esca dalla crisi, è una condizione necessaria per accompagnare la crescita, ma non è la causa della crescita. Tuttavia è stato giusto battersi per provvedimenti che aumentassero la flessibilità in entrata, il consenso da parte dei giovani non ci fu perché non abbiamo completato l’operazione sul collocamento e sulla liberalizzazione delle professioni. Sul falso in bilancio non sono molto d’accordo con Debenedetti, in America le sanzioni sono diventate più severe e qui c’è un problema di consenso dei risparmiatori, non soltanto degli imprenditori, su questo terreno non si possono fare compromessi sulle scelte del governo. Sulla giustizia il problema reale è la lentezza con la quale si amministra, in particolare quella civile, se uno ha subito un torto, rischia di non vederselo mai ripagato, le imprese straniere non vengono ad investire in Italia anche e soprattutto perché su quel terreno non hanno nessuna garanzia. Questo è il nostro terreno di riforma, non quello della separazione delle carriere. Dico a Rossi, questo è un esempio dove non dobbiamo farci dettare l’agenda dal centrodestra. Lo Stato deve svolgere una funzione di regolazione del mercato non intervenire nella gestione delle imprese. Inoltre va ricordato che lo Stato francese e la regione tedesca stanno nella Renault e nella Volkswagen, ma queste imprese fanno profitti, se lo Stato italiano entrasse nella Fiat, ci troveremo a privatizzare i profitti e pubblicizzare le perdite, che continuerebbero ad esserci. La Chrysler il prestito lo ha restituito, qui non l’ho mai visto fare. Siamo al regime? Se non è un regime in senso proprio il vulnus alla democrazia rappresentato dalla questione dei media rende l’Italia un caso particolare. Concordo, dunque, con Colombo che non può esserci disprezzo per chi solleva la questione delle eccezionalità del caso italiano.

DEBENEDETTI: È proprio perché io voglio che lo Stato faccia bene e autorevolmente i compiti che sono suoi, che io non voglio che si disperda – o si perda – a far cose che altri possono fare e che oltretutto ha dimostrato di non saper compiere. Tremonti sulla Stampa parla di un nuovo colbertismo. Ma per farlo ci vogliono imprese adatte e un’amministrazione capace. Per questo, sempre sulla Stampa, gli chiedevo: ma dove sono da noi l’Airbus, il Tgv, l’Ariane, il nucleare? Dove le Grandes Ecoles, il Politecnique? Così come chiedo, a chi vorrebbe che lo Stato aiutasse finanziariamente la Fiat come si fece in Usa con Chrysler: dov’è il nostro Jacocca? Quello della Fiat non è un problema di soldi, ma di modelli. Riguardo alla giustizia, un mio documento in merito era stato recepito dalla mozione Morando a Pesaro.

TREU: Sulla flessibilità. L’Italia non è accusata di avere rigidità normative adesso sul mercato del lavoro, ma sui contesti amministrativi e burocratici, che lo condizionano. Noi abbiamo un deficit di riformismo, perché ci fermiamo alle indicazioni normative. Inoltre la Pubblica amministrazione va oltre lo Stato centrale, è un complesso con un ruolo fondamentale di regolazioni, di servizio. Vi abbiamo investito intelligenze, però con poca attenzione al funzionamento effettivo delle amministrazioni. I servizi, la loro amministrazione e l’accesso sono quasi più importanti delle tasse. Quanto alla Fiat non sono i soldi che mancano, ma le idee ed il management.

ROSSI: Molto spesso i mercati non sono perfetti, quindi un intervento pubblico è richiesto a fini collettivi. Questo mi pare il punto di fondo. Da questo punto di vista difendo ad oltranza la struttura pubblica della scuola e della sanità, come pure di quelle realtà che il mercato non è in grado di gestire efficientemente. È questo il caso della Fiat? Non credo. Il problema Fiat è gestionale e industriale, non di assetti proprietari. E nasce dai contenuti di eventuali accordi internazionali che sembrerebbero richiedere una riduzione della capacità produttiva Fiat. In casi come questi – più vicini alla politica estera – lo Stato può e deve fare cose diverse da quelle cui siamo stati a lungo abituati. Ciò detto, da Destra, da Tremonti, viene un altro messaggio. E dobbiamo capire perché e come rispondere. Secondo me dobbiamo riaffermare che il mercato è, spesso ma non sempre, un ottimo allocatore delle risorse. In alcuni casi ha dunque bisogno di uno Stato capace di regolare e promuovere. Tremonti sembra invece puntare ad una gestione in prima persona dell’economia, al riaccentramento delle competenze, ad una limitazione delle libertà economiche. Starei molto attento a non fornirgli argomenti.

DEBENEDETTI: Alla base di questo libro c’è una convinzione, o se preferite un pre-giudizio illuminista: vince le elezioni e conquista il diritto di governare il Paese chi riesce a fargli riprendere la via della crescita. Per farlo, bisogna essere capaci di creare uno scenario in cui la gente sappia proiettare le proprie visioni del futuro: perché la crescita deriva solo dalla volontà di tutti gli individui di investire le proprie risorse finanziarie ed umane. E, se posso concludere, vorrei farlo citando una frase di questo libro, che spiega la ragione profonda perché l’abbiamo voluto: con i «no» le ingiustizie restano, non si sanano le disuguaglianze, non si rimedia allo spreco indecente delle intelligenze non utilizzate.

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