Quel che Tremonti non dice

gennaio 20, 2009


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Rigore e Riforme

Ha ragione Tremonti quando dice che se il PIL italiano nel 2009 diminuisse del 2%, ritorneremmo al 2006 e non al Medioevo. Dimentica però di dire che nel 2006 era quasi un decennio che l’economia italiana non cresceva, e che il problema non è il livello di PIL, ma la produttività a cui ritorneremo. Questa, già allora faceva di noi il fanalino di coda dell’Europa. Possiamo solo rassegnarci? È su questo tema che bisognerebbe chiedere risposte a Tremonti. La vera prova che lo attende è sulle parole non dette, piuttosto che su quelle dette.

La crisi economica e gli equilibri della coalizione hanno proiettato Giulio Tremonti al centro della scena politica, facendone la vera novità di questi inizio di legislatura. Dopo il fortunato pamphlet del 2007, nel 2008 incardina la legislatura con una finanziaria insolita, per l’arco di tempo che prende in considerazione, e per l’ambizioso obiettivo politico a cui mira, il pareggio di bilancio. Dopo il fallimento Lehman, è pronto nel suggerire al grande comunicatore, Silvio Berlusconi, le parole che servono per mettere in sicurezza, senza esborsi finanziari, il sistema bancario italiano dal pericolo di un bank run. Oggi alza un muro a tutti quelli che, da destra e da sinistra gli chiedono di predisporre pacchetti di stimolo. Il suo collega Peer Steinbrueck ha dovuto cedere quando Angela Merkel ha fatto voltafaccia sul rigore di bilancio. Tremonti per resistere ricorda la necessità di chiedere ai mercati di rifinanziare il terzo debito pubblico del mondo, cita l’entità dallo spread verso i Bund, e ciò che ormai si scrive sui rischi che corrono i Paesi più deboli dell’eurozona. Con questo zittisce l’opposizione, che ha fatto del rigore la misura della sue glorie e delle sue polemiche, dal Ciampi del 1993 al Padoa Schioppa del 2006. E consolida una maggioranza che, senza che egli piantasse “aguzzi cocci di bottiglia” sopra il suo muro, finirebbe per spaccarsi nella corsa a chiedere interventi. La maggioranza tutta, senza distinzioni, se è vero che avrebbe minacciato di dimettersi se la Lega non avesse ritirato la proposta di lasciare sfondare ai suoi sindaci del Nord i vincoli del patto di stabilità.

Le parole di Tremonti spostano il discorso dall’economia alla meta-economia. Quando usa la Bibbia per parlare di bad banks, la pace di Westafalia per una Bretton Woods due, Keynes contro il keynesismo, Marx e Lincoln, Carl Schmitt e Walter Eucken, non è per sfoggio di cultura o per tecnica retorica: fornisce una visione politica a un governo che ne è largamente sprovvisto. Perfino il suo insistito ricercare occasioni di polemica con il Governatore della Banca d’Italia, oltre che con il proposito di tagliare la strada a un possibile concorrente, o con la preoccupazione di chiamarsi fuori da vicende che si svilupparono mentre egli pur ricopriva incarichi di governo, potrebbe essere interpretato come volto a rassicurare gli elettori sulla sovranità della decisione politica rispetto alla “congettura” economica.

Ritorniamo al 2006 e alle parole non dette. La crisi può spingere a dare il meglio di sé, può servire a eliminare strutture inefficienti. Ma i vincoli, non se li porterà via la crisi. Ci vuole volontà politica per incidervi.

La formazione del capitale umano si chiama concretamente cambiamento dei valori in base a cui funzionano scuola superiore e università. Liberalizzare il mercato del lavoro, si chiama adozione di modelli di flexsecurity, che, grazie al lavoro paziente di Pietro Ichino, la sinistra sembra pronta ad approvare, e su cui la destra tace. Sui livelli di età pensionabile non dovrebbe essere impossibile fare un passo avanti. Concorrenza significa levare le mani dei Comuni dalle migliaia di aziende piccole e grandi. Federalismo significa anche, forse prima di tutto, decidere che cosa fare del Sud: se questo è “il dramma d’Italia” come riconosce Tremonti nell’intervista a Sergio Rizzo, non è (solo) perché gli manca una banca, ma (principalmente) perché i fiumi di danaro spesi, e i fondi europei che ancora si versano, sono serviti (nella migliore delle ipotesi) a creare e mantenere una sorta di “ceto medio” di funzionari, buono a garantire il controllo politico, ma che ora si frappone e soffoca il sempre atteso sorgere di energie fresche. E si potrebbe continuare, l’elenco è noto.

È illusione consolatoria la tesi secondo cui la nostra struttura finanziaria sarebbe meno esposta alla grande crisi, quella produttiva più elastica nel rispondere alla recessione, e quella sociale adeguata a supplire a un welfare squilibrato. Va bene tener la barra ferma su una politica del rigore, evitare di disperdere risorse che non abbiamo e che non sappiamo neppure se servirebbero, quando ci saranno disagi gravi a cui si dovrà venire incontro. Ma “il prolungamento dell’attesa” (Giuseppe De Rita, Corriere della Sera, 19 Gennaio), non può essere motivo per rinviare le riforme. È oggi che si decide come sarà, quando verrà, la nostra ripresa.

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