Poteri finanziari. Il conflitto di interesse su Telecom e gli errori del Tesoro. Il Patto di Rossignolo

ottobre 29, 1998


Pubblicato In: Varie


Processato in contumacia a Pinocchio la scorsa settimana, quando questo numero di Liberal andrà in edicola, Rossignolo conoscerà la sentenza: o sarà rimosso o gli sarà affiancato un amministratore delegato “ molto capace” e provvisto di deleghe per dimostrarlo?
A cavalcare la crisi prodotta dalla “gaffe” della fuga di notizie e dalla conseguente caduta delle quotazioni si sono messi in tanti, non tutti disinteressati: c’è chi agita i piccoli azionisti e spera di farsi così un posto nel consiglio di amministrazione, chi protegge i privilegi acquisiti negli anni del monopolio, chi ce l’ha coi poteri forti a cui Telecom sarebbe stata “regalata”.

E’ indubbio che il Gotha dell’industria e della finanza italiana chiamato in Telecom non ha finora dimostrato di saper farla obbedire all’imperativo del capitalismo degli anni novanta: creare valore per gli azionisti.
Che cosa produce valore? In sintesi o aumento di efficienza interna o sinergie industriali. Le vie per aumentare l’efficienza sono presto dette: ridurre i costi –quindi tagliare le stratificazioni prodotte in Telecom da decenni di monopolio pubblico– e incrementare i ricavi –quindi imparare a conquistare clienti, anziché accontentare padrini politici. Quelle per le sinergie industriali: o espandersi in nuovi mercati, ma questo esercizio é diventato costosissimo, poiché sui “pezzi” pregiati delle tlc si buttano tutti; o allearsi con altre aziende di telecomunicazioni, per ripartire gli investimenti su un mercato maggiore e ampliare la gamma dei servizi venduti.

Sia detto con grande chiarezza: i soci del nucleo stabile Telecom queste cose le sanno fare. Né più né meno, a ben vedere, di altri operatori industriali e finanziari, o di un buon team di management appoggiato da investitori istituzionali. E’ vero, le loro industrie, le assicurazioni, le banche offrono sinergie con le telecomunicazioni; possono mettere a profitto la loro presenza all’estero, ad esempio della FIAT – tanto per andare al dunque – in Brasile e nell’Est Europa: ma si tratta di piccole cose, e sempre con il rischio di cadere nel conflitto di interesse. Ma tutti hanno qualche problema a casa propria: sarebbe imprudente rischiare la pace sindacale magari in Fiat per l’efficienza di un’azienda di cui si ha l’uno per cento o meno, come ha Ifil in Telecom.
E allora che cosa ha impedito a quanto di meglio offre il capitalismo italiano di dare il meglio di sé in Telecom? E’ questa la domanda centrale da cui ripartire, assai più della ridefinizione dei poteri di Rossignolo al vertice della società. Al momento di entrare nel nucleo stabile i soci sapevano che il governo cedeva il comando di Telecom gravato di molti vincoli. Alcuni espliciti: la proprietà italiana, il servizio universale. Altri impliciti: l’ambizione di vedere Telecom giocare una propria autonoma partita a livello internazionale; continuare a quadrare il cerchio come nei bei tempi andati: licenziamenti nessuno investimenti tanti, possibilmente al Sud. Altri vincoli si sono aggiunti di recente: proteggere la RAI e bloccare Murdoch sul terreno della piattaforma satellitare. I componenti del nucleo stabile sapevano che a montare la guardia al rispetto dei patti stava la presenza del Tesoro nell’azionariato e in consiglio.
Ma così facendo il governo era – e resta – in flagrante conflitto di interessi, perché fa prevalere propri interessi su quelli della società, in contrasto quindi con i doveri di buon azionista. Per questo il governo doveva trovare soci che si lasciassero imporre comportamenti in contrasto con il proprio interesse di investitori. Era necessario cioè stipulare un tacito patto: ai componenti del nucleo stabile il governo – alle prese con difficoltà molto serie nel formare un nucleo stabile, visto l’evidente conflitto d’interesse che gravava sulle condizioni di privatizzazione – chiedeva di legittimare l’operazione con la loro autorevolezza.
In cambio, i soci del nucleo stabile potevano però pensare di compensare i vincoli a una crescita efficiente dell’azienda magari con vantaggi su altri tavoli, nel corso di altre partite con il Governo.
E’ proprio questa asimmetria, quella che ha reso possibile la costruzione del nucleo stabile. Ed è questo ciò che ha influenzato le vicende aziendali di Telecom: mantenere fede ai patti minimizzando i danni. I membri del nucleo stabile non saranno esperti di telefoni, ma non sono ingenui. Sanno bene che la cosa più preziosa é la cassa e che la rotta più rischiosa è quella che punta alle nuove iniziative.
Conoscono le delusioni del cosiddetto day after. Quindi hanno subito bloccato le follie dell’ultimo Pascale, Fido e Socrate. Poi, per rispondere in qualche modo alle attese, hanno comprato (a caro prezzo) qualcosa in Brasile, ci hanno aggiunto oggi per 3.800 miliardi il 25 per cento di Telecom Austria, ma con Cable&Wireless, dopo qualche flirt, al momento di metter mano ai soldi, dal gioco grosso si sono ritirati. Adesso incombe un’altra scommessa costosissima, la piattaforma satellitare: in Stream, altro lascito di Pascale, Telecom ha già perso 1000 miliardi. Chiudere o rilanciare? Investire sulla televisione a pagamento o su Internet?
Farsi carico di “evitare la colonizzazione” o badare ai propri interessi?
I soci del nucleo stabile sono riusciti ad evitare il peggio – i piccoli azionisti che dietro il tonitruante Dottor Di Pietro si lamentano non ci pensano- ma a questo si sono fermati. Dovevano rispettare il “patto”. Hanno trovato la persona perfetta: è stato il “patto di Rossignolo”. Very powerful, decisionista e creativo: pronto a tagliare la testa di qualche boiardo, va bene; ma non troppo impegnato per affrontare il lungo travaglio degli esuberi per decine di migliaia di dipendenti (British Telecom ha ridotto gli organici del 25 per cento), e il cambiamento di sangue per altrettanti.
Rapido nello smontare l’accordo di facciata con AT&T sì, creativo nel rappresentare scenari strategici, ma abbastanza duttile per ritirarsi prima del passo irreversibile. Indicare strategie in un settore così complesso, per di più con dati limitati a disposizione, è imperdonabile presunzione. Ma una fantasia a questo punto sarà lecito farla: quella di una Telecom che integri la propria capillare presenza sul territorio italiano con qualcuno che abbia una rete mondiale; che smetta di inseguire sogni televisivi ma impari a vendere, evitando che il lancio dei servizi Internet sia salutato dalla sollevazione degli utenti come avviene in questi giorni; che impari da British Telecom a ridurre i costi più velocemente di quanto l’Autorità di settore riduca le tariffe; che investa gli utili da monopolio per cercare di non essere il concorrente che tutti vorrebbero avere, e non in costose avventure.
Dalla privatizzazione di Telecom è passato un anno, un altro governo succede a quello che ha avuto il merito indiscusso di realizzarla. La stabilità è stata assicurata per il tempo necessario, il “patto”, invece, non è più necessario. Più che realizzare nuovi movimenti al vertice di Telecom, l’importante è scioglierlo, quel patto: porre fine al “patto di Rossignolo”.

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