Perchè Ichino non è stato candidato da Berlusconi?

febbraio 26, 2008


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di Giuliano Cazzola

Quando si è saputo che Pietro Ichino era disposto a candidarsi nelle liste del Pd (si veda lo scambio di lettere sul Corriere della Sera tra il giurista milanese e Franco Debenedetti che lo sconsigliava di accettare) è successa l’iraddiddio (pardon: della dea Ragione, visto che essere laici è più politacally correct). Gli esponenti della Cosa Rossa hanno fatto a gara nel coprire di insulti il povero professore, avvalendosi – sono parole di Lanfranco Turci – di argomentazioni simili a quelle che sono costate la vita a Massimo D’Antona e a Marco Biagi e che costringono Pietro a vivere “blindato” da anni. Più cauti e civili i sindacalisti della Cgil (Paolo Nerozzi e Nicoletta Rocchi andranno a riequilibrare in Parlamento i picchi di riformismo in cui si esibisce Veltroni). Ma la musica è sempre la stessa: giù le mani dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. A tarda serata, dopo il lancio di un chilo di dispacci di agenzia carichi di contumelie nei confronti del giurista, è giunta la presa di posizione ufficiosa del Pd, all’insegna del veltroniano “ma anche” (che ha fatto la fortuna del comico Crozza). “Ichino è bravo – si diceva – e darà sicuramente un grande contributo, ma il programma del Pd contiene delle cose diverse dalle sue”. E Massimo D’Alema – su Il Sole-24Ore – ha chiuso il caso: Ichino “è intelligente – ha dichiarato – coraggioso e creativo. Fare il commentatore, però, è diverso che fare il politico”. In pratica, ragazzino lasciaci lavorare!

E adesso? Che cosa farà il professore? Rinuncerà all’arma potente dell’editoriale del Corriere della Sera per diventare un “profeta inascoltato”? Questa esperienza Ichino l’ha già archiviata più venti anni or sono (come deputato del Pci): era senz’altro più giovane e meno noto di adesso, ma si accorse ben presto che al suo pensiero innovativo nessuno dei suoi compagni prestava attenzione. Tanto che – e fu la sua fortuna – non venne rieletto. Sinceramente avremmo gradito che il Cavaliere – in un guizzo comunicativo – si fosse rivolto a Pietro Ichino – proprio nel giorno in cui subiva in solitudine la gogna delle Erinni e dei trinariciuti – offrendogli di capeggiare la lista del PdL in Lombardia e promettendogli di poter svolgere, a vittoria avvenuta, un ruolo di primo piano nel prossimo governo. “Caro professore – avrebbe dovuto affermare Berlusconi – perché si ostina ad essere trattato come un cane in chiesa? Le sue idee sono le nostre. Venga a prendere il posto che fu di Marco Biagi. In materia di lavoro avrà carta bianca”. Sicuramente – e purtroppo – Ichino avrebbe declinato l’invito, ma la mossa del leader del PdL avrebbe fatto discutere e preteso una risposta seria da parte dell’interessato. Ma se il Cavaliere non ha colto l’occasione una ragione ci deve essere. Basta scorrere le prime anticipazioni del programma del PdL che girano al largo delle tematiche “dure” del lavoro. Per non parlare – solo per carità di patria – della polemica di Giulio Tremonti contro la globalizzazione. L’handicap del centro destra continua ad essere il solito: con scarse propensioni riformiste il PdL non riesce a penetrare nell’intellighenzia del Paese. Così finisce per diffidare degli intellettuali e dei tecnici, in nome di un primato della politica tutto da dimostrare. Ed è un atteggiamento sbagliato, perché niente è più credibile sul piano internazionale di un civil servant di indiscusso prestigio, la cui influenza non dipenda dai voti del suo partito ma dalle competenze che gli sono riconosciute. Nessun ministro dell’Economia sarebbe meglio di Mario Monti. Se Prodi non avesse potuto contare sulla credibilità di Tommaso Padoa Schioppa, i circoli internazionali avrebbero sbattuto la porta in faccia alla sua compagine senza attendere nemmeno un minuto. Alla pregevole azione del governo Berlusconi è mancato proprio l’ésprit de finesse della competenza. Si prenda, per tutti i casi, la legge di riforma costituzionale, ottima nell’ispirazione di fondo (tanto da tornare di attualità), ma scritta coi piedi sul piano della tecnica legislativa. Si consideri, al contrario, la legge Biagi, una delle pagine più alte della legislatura, un provvedimento che ha fatto il giro del mondo e che fa testo ovunque si studi il diritto del lavoro. Dietro ad essa c’era la cultura non solo di uno studioso eccellente, ma della sua scuola, tanto che Michele Tiraboschi è stato pronto a prendere il posto del maestro caduto e a portarne a termine l’opera. Ma se Biagi non fosse caduto sul campo dell’onore, la CdL avrebbe avuto il coraggio di andare fino in fondo?

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