Oltre la legge elettorale, un governo per le riforme

luglio 12, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Che cosa ci si può attendere da questo Governo che non sia il proprio faticoso e litigioso sopravvivere?
Quando si perde la visione di dove si vuole portare il Paese, ogni argomento dà luogo a una battaglia a sé: che si tratti di stato dei conti pubblici, di relazione coi cittadini in tema fiscale, di rapporto con i vertici delle autorità militari, di selezione per merito e assunzioni indiscriminate. Quando si perde la ragione del governare insieme, ogni discussione si risolve in un ricatto, e ogni soluzione in un cedimento.

La perdita di visione appare in tutta evidenza nel documento programmatico per antonomasia, il DPEF. Il confronto di quello presentato dal Governo lo scorso anno con quello di quest’anno “consente di cogliere appieno la distanza tra quel poco o nulla che il Governo è in condizione di fare senza cadere,[…] e quel che il Paese avrebbe bisogno che si facesse”. (Nicola Rossi, Un DPEF che sa di copia e incolla, Corriere della Sera, 7 Luglio).
Il durare di questo Governo non serve al Paese: a chi serve, allora? Serve a Prodi finire stremato la sua vita politica, proprio lui che ci ha dato le riforme coraggiose e incisive del suo primo Governo, l’invenzione dell’Ulivo e l’accelerazione verso il Partito Democratico? Serve a Walter Veltroni usurarsi in una campagna elettorale lunghissima, mentre il Paese vede aumentare la distanza fra ciò che il centrosinistra concretamente oggi è e quello in cui gli elettori dovrebbero credere domani?

La necessità di cambiare la legge elettorale indica la strada per una soluzione. Una necessità condivisa (a parole) da tutte le forze politiche; impegnativamente ribadita dal Capo dello Stato; confermata dalle firme che si stanno raccogliendo per il referendum. Tutti affermano di volere una soluzione condivisa: solo un Governo istituzionale o almeno non bellicosamente di parte può riuscire nel compito. Ma in tal caso perché fermarsi alla sola legge elettorale? Perché non usare una parte di quanto residua di questa legislatura per fare qualche riforma almeno per avviare la transizione da un sistema che dà tutto il potere a un Parlamento rigidamente bicamerale, a uno che dia al premier un reale potere di governare, riduca i costi della politica, rimedi alle più evidenti disfunzioni e incompletezze della riforma federale votata dal centrosinistra nel 2001?
Un esecutivo meno soggetto alle imboscate del Parlamento e libero dai ricatti interni giova a tutti: Silvio Berlusconi stesso dà colpa ai suoi alleati se non ha ridotto le tasse e liberalizzato, e sa che in futuro potrebbe essere peggio anche per lui. Queste difficoltà sono un dato strutturale per il centrosinistra italiano. A superarle non basta, lo si è visto, il pragmatismo di un Bersani; non basterà, temo, la suggestione di un Veltroni. Eppure non c’è ragione perché l’elettorato italiano, analogamente a quello tedesco o francese o inglese, non sia disposto ad affidarsi a uno schieramento alternativo alla destra per attuare le riforme necessarie a recuperare il deficit di produttività, e riprendere la crescita al ritmo delle economie più dinamiche. In tutti i Paesi ci sono segmenti di elettorato di sinistra che in tema di tasse, merito, eguaglianza, in fondo in tema di libertà, la pensano in modo diverso: ma un conto è che ci siano forze politiche che li rappresentino e diano loro voce, altra cosa è che siano presenti all’interno del Governo e determinanti a formare la maggioranza. In tal caso, come vediamo, riescono a imbrigliare perfino uno dei Paesi più intraprendenti e individualisti del mondo. La legge elettorale, fosse pure il doppio turno alla francese, non basta. Dato che si tratta di valori fondamentali, è alla legge fondamentale che si deve mettere mano. Ma, per far questo, le forze riformiste del centrosinistra hanno bisogno di voti del centrodestra, di quelli di FI, dato che quelli dell’UDC non bastano. Venendosi in tal modo a trovare in condizione di grave debolezza: dovrebbero rompere con una larga parte della coalizione, non solo con PRC, Comunisti e Verdi, e così avrebbero bruciato i vascelli alle proprie spalle senza garanzia che il progetto vada a termine. Temono di far la fine della rana che traghetta lo scorpione.

A chi serve, ci si chiedeva all’inizio, che questo Governo duri? A Berlusconi, è la risposta, apparentemente paradossale. Il meglio per lui è andare alla elezioni con questo Governo, lasciando che affondi nei suoi problemi, e che siano Prodi stesso, e il tempo, a logorare Veltroni. La prospettiva di maramaldeggiare e usare Prodi contro Veltroni deve apparire irresistibile a chi in campagna elettorale sa dare il meglio di sé. Eppure quella effimera eccitazione non dovrebbe contare di più dell’obbiettivo di passare alla storia come chi ha radicato il bipolarismo in Italia: perché se una delle due parti politiche ha un problema strutturale, è tutto il bipolarismo italiano a essere affetto da un problema strutturale. Non essendosi riformate anche le istituzioni, il bipolarismo resta monco e instabile, sempre in pericolo di dar luogo agli esiti centristi, di cui riconosciamo i fasti con cui sono iniziati e ricordiamo i nefasti che li hanno dissolti.

“I vertici dei grandi partiti dei due schieramenti non si fidano gli uni degli altri” riconosce Guido Tabellini (Un Paese ostaggio di troppi estremismi, Sole 24 Ore di domenica). Pesa un passato di errori e di occasioni perdute, di lotte condotte con ogni mezzo; è inevitabile che pesi soprattutto per la sinistra, che ha finito per fare dell’antiberlusconismo il suo (unico?) collante. Bisogna uscire da questo blocco di reciproche diffidenze, e l’iniziativa può partire solo da chi rischia di meno: Silvio Berlusconi. Se vuole contribuire a far fare un passo avanti al Paese, e incassare il riconoscimento di alcune impostazioni della sua riforma costituzionale, troppo radicalmente negate dal centrosinistra, deve andare dal Capo dello Stato. Non per fare propaganda, come ha fatto recentemente, denunciando la perdita di consenso del centrosinistra alla amministrative. Ma per dichiarare in modo solenne il proprio impegno ad appoggiare lealmente il conciso programma di un breve governo istituzionale. In fondo, se è così sicuro di vincere, sarebbe lui il primo a beneficiarne. Se non lo fa, diventa chiaro a tutto il Paese, e ai suoi elettori, che è ascrivibile anche a lui una parte delle responsabilità dell’inanità operativa di questo Governo, e della paralisi istituzionale di questo Paese. Apparirà chiaro che oggi è Berlusconi a tenere in piedi Prodi.

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