Risposta a “La rete di evasione. Dai giganti del web solo 37 milioni di tasse”, di Ettore Livini, Repubblica del 15 Settembre
I “giganti del web” (Ettore Livini, La rete dell’evasione, dai giganti del web solo 37 milioni di tasse, Repubblica 15 Settembre) sono aziende americane: americane sono le loro sedi operative, i brevetti e copyright, ì massimi investimenti, la maggior parte degli azionisti. Impensabile che parte dei loro utili consolidati sia occultata ai loro azionisti. Incredibile che il fisco americano chiuda gli occhi su “evasioni” di aziende che, per dimensione e redditività, sono tra i suoi maggiori contributori. E infatti non è così: la legge americana ha consentito alle multinazionali di parcheggiare gli utili realizzati all’estero in un paradiso fiscale in sospensione di imposta. Saranno tassate quando ritorneranno in USA.
I Big Tech vendono i loro prodotti/servizi nei Paesi utilizzatori tramite filiali locali, il cui margine lordo è dato dalla differenza tra i ricavi commerciali e il prezzo a cui gli vengono trasferiti beni e servizi. Dedotti i costi (di promozione, vendita, assistenza) risulta il margine netto tassabile. E’ Il prezzo di trasferimento a determinare come si divide l’utile tra Paese d’origine e organizzazioni periferiche: in che misura lo si faccia è una questione tra Stati, non tra Stato e azienda. In ogni caso non è evasione.
Ora, per scoraggiare le multinazionali dallo spostare gli utili fatti all’estero in Paesi con tassazioni ridotte, la riforma fiscale di Trump (Tax Cuts and Jobs Act) ha aggiunto una tassa, con aliquota del 10,5%, sul reddito di ognuna delle loro società estere che ecceda il reddito “normale”, forfettariamente definito come 10% del valore della proprietà tangibile ammortabile. E’ il GILTI (Global Intangible Low-Taxed Income).
Non è semplicissimo, ancor meno con le deduzioni per le imposte già pagate all’estero. Ma chiamare tutto questo “la rete dell’evasione”, come nel titolo del pezzo di Ettore Livini, non semplifica: induce in errore.
Testo originale, quello pubblicato è leggermene ridotto.
Airbnb, Uber, Google, Facebook, Amazon, Apple, Twitter: poche briciole all’Erario nel 2018. In Italia il gruppo di Bezos paga meno di De Longhi. L’Italia rimane un paradiso fiscale per i giganti del web. Il pressing delle Procure e dell’Agenzia dell’Entrate per convincere i big hi-tech a pagare le tasse sui profitti generati nel nostro Paese ha funzionato per ora a scartamento ridotto: Google, Amazon, Facebook e Apple hanno patteggiato 824 milioni di versamenti all’erario come risarcimento per le somme non versate nel passato. Ma ogni volta che si trovano a chiudere i bilanci ufficiali di fine anno, per l’Erario tricolore restano solo le briciole. La prova? I conti 2018 dei diretti interessati. Airbnb, Uber, Google, Facebook, Amazon, Apple e Twitter hanno pagato all’erario italiano in totale 37 milioni di euro. Meno del gettito fiscale garantito allo Stato dalla sola Amplifon con i suoi apparecchi acustici. Il ristorante “Cracco Peck” di Milano paga più tasse di quelle sborsate complessivamente da Deliveroo, TripAdvisor e Just Eat, tre marchi che macinano ogni giorno migliaia di pranzi e cene sfruttando il lavoro di un esercito di rider sottopagati. La De Longhi e i suoi elettrodomestici sono per Roma un contribuente più generoso dell’impero Amazon. La società di Jeff Bezos ha colonizzato il mercato delle vendite online in Italia e ha assunto – versando tutti i contributi dovuti – oltre 6 mila dipendenti nel Belpaese. Ma nel 2018 ha pagato all’Agenzia delle Entrate circa 5 milioni, meno del produttore del Pinguino. Un’imposta low-cost rispetto ai 100 milioni pagati a fine 2017 per l’accertamento con adesione firmato per chiudere tutte le potenziali controversie fiscali fino a fine 2015. Il perverso meccanismo che garantisce ai colossi hi-tech di godere di questa semi-immunità fiscale è lo stesso da anni e funziona in fotocopia in tutto il mondo: una sorta di gioco delle tre tavolette mascherato come “ottimizzazione fiscale” che consente di spostare nei Paesi dove si pagano meno tasse tutti i ricavi del business. Gli incassi pubblicitari di Google in Italia (si parla ormai di un miliardo circa) le entrate del social di Marck Zuckerberg più i soldi pagati dagli italiani per comprare iPhone e Apple Watch non vengono registrati nelle controllate italiane ma sono addebitati alle casseforti in Deleware, Irlanda, Olanda o Lussemburgo (alla faccia dell’unione fiscale europea) dove le aliquote sono molto più generose. I conti italiani registrano alla voce incassi solo le royalties incassate dalle case madri per i servizi di supporto logistico e amministrativo. Google Italy fattura la miseria di 10 milioni, Facebook Italy (che quest’anno a onor del vero ha pagato 11 milioni di tasse contro i 120mila euro del 2017) ha 21 milioni di ricavi. Lo stesso giochetto andato in replica in decine di Paesi ha consentito i giganti del web di mettere da parte masse colossali di liquidità al riparo dagli occhi del fisco: Alphabet, la casa madre di Google, ha in cassa 117 miliardi di dollari cash, Apple 102, meno della metà del tesoretto da 256 miliardi parcheggiato offshore nel 2017, rimpatriato in parte negli Usa grazie al mega-condono varato da Donald Trump. In tanti, dall’Ocse alla Ue, si sono scervellati per capire come costringere questi evasori legali a onorare i loro impegni con il fisco locale. Finora però senza gran successo. Quando si tratta di arrivare al dunque, partono le eccezioni dei Paesi che beneficiano di questa situazione (gli Usa stessi, l’Olanda, la Gran Bretagna) e non si trova la quadra. “Dobbiamo riuscire a sciogliere il nodo della tassazione delle grandi imprese multinazionali”, ha detto nei giorni scorsi lo stesso Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. La Francia, stufa di aspettare, ha deciso di tirar dritto per la sua strada, applicando una tassa del 3% sui ricavi nel Paese a Google & C. e impegnandosi a rimborsare eventuali somme chieste in più se e quando si raggiungerà mai un accordo sovranazionale su aliquote più basse. E Donald Trump, per tutta risposta, ha minacciato dazi sui vini francesi. A qualcosa però forse l’iniziativa di Parigi è servita: Google ha appena accettato di pagare a Parigi un miliardo di tasse che non ha versato nel passato.
La rete di evasione. Dai giganti del web solo 37 milioni di tasse
di Ettore Livini, Repubblica del 15 Settembre
settembre 17, 2019