La vera morale dell’affare Telecom

giugno 17, 2002



Prima era un’azienda di Stato da 25 miliardi di euro. E’ rimasta italiana e vale il doppio

Anche sulle privatizzazioni si è giocata una doppia partita. Una, sulla vendita vera e propria di aziende pubbliche; l’altra sulle nuove regole sul controllo societario. Quella di Telecom dal 1995 al 2001 è la storia sia dei cambiamenti di proprietà che si sono verificati, sia di come le leggi, in particolare la Draghi, hanno mutato il nostro capitalismo.

Anche per Giuseppe Oddo e Giovanni Pons, L’affare Telecom – così si intitola il loro libro – è una “partita doppia”: in prima di copertina è “il caso-politico finanziario più clamoroso della seconda Repubblica”; in quarta, è “la vicenda che potrebbe far dimenticare il capitalismo dei soliti noti”. Il cuore dei nostri autori batte per il modello public company: saldo controllo dei fondi pensione – di cui ovviamente si lamenta la mancanza-, regole di corporate governance alla Guido Rossi: strong managers, weak owners.
Il bel sogno sarebbe sfumato per le bizzarrie di GianMario Rossignolo, l’idealismo di Franco Bernabè, la spregiudicatezza di Roberto Colaninno: e la perfidia di D’Alema nel disfare il disegno di Prodi. Questo riferimento ideale attraversa tutto il libro. Ma e’ stupefacente che gli autori da una parte difendano la contendibilità, dall’altra rivelino che il “management forte, indipendente dalla politica” dei loro sogni “avrebbe potuto inserire nello statuto Telecom ‘pillole avvelenate’ per rendere remota la possibilità di una scalata” (p.36).

Preminente diventa quindi la cronaca: però non ricostruita mettendo a confronto le diverse versioni, e queste con documenti, ma attingendo a resoconti giornalistici (e alla memoria di “suggeritori”). Così l’asse portante finisce per essere il sospetto. Sospetta la Consob di non dare ascolto a un articolo di giornale p. 150); sospetto il finanziere Binotto perché “noto” a Sergio Cusani, condannato per le tangenti Enimont (p.155); sospetto un fondo, solo perché domiciliato in un paradiso fiscale( p.155); sospetti “gli strani e allusivi discorsi alla buvette di Montecitorio” (p.279); sospetto Ruggero Magnoni perché suo fratello ha sposato la figlia di Sindona (p.140).
Neppure Ciampi è risparmiato, perché titolare della golden share che scatterebbe se mancassero i requisiti di trasparenza dell’acquirente, non interviene contro Bell durante la scalata di Colaninno ( p.169).
Da arbitro di questa “partita”, mi limito a pochi interventi. Il primo riguarda Massimo D’Alema e la “colpa”, che anche gli autori assurdamente gli addebitano, di non avere ostacolato l’apparire di un nuovo attore sulla non affollata scena dei nostri grandi imprenditori; e di aver voluto che la legge sull’OPA venisse applicata regolarmente.

Il secondo è il la vera morale del “caso politico-finanziario”. C’era nel 1997 un’azienda di Stato, valeva intorno ai 25 miliardi di euro; oggi ne vale 53; è restata italiana; indebitata, ma meno delle sue grandi sorelle europee; non contendibile allora, non contendibile adesso.

Il terzo riguarda il capitalismo italiano: anche Telecom (come Edison) è finita nelle braccia di una delle “grandi famiglie”. Ma prima c’è stato un tizio che ha dimostrato che in Italia anche un ragioniere di Mantova, non ricco di famiglia, può osare l’impensabile. Grazie a lui quelli che dicono che non si può privatizzare perché non c’è nessuno che si fa avanti a comprare sono zittiti per sempre.

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