La morale non salverà l’Europa

dicembre 11, 2011


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Peccatori e virtuosi sono ruoli che la storia può in breve invertire

Nel gran dibattito sull’euro, sono diffuse metafore tratte dalla morale: il peccato originale dell’euro, i Paesi virtuosi, il doppio senso dell’acronimo Pigs. La contrapposizione “virtuosi-peccatori” contrassegna con un unico nome situazioni di finanza pubblica pur diverse tra loro; sovrapposta alla demarcazione geografica tra Paesi del Nord e Paesi Sud dell’Europa, scivola verso giudizi antropologici che sarebbe prudente – per non dire altro – evitare: a maggior ragione se l’obbiettivo politico è quello di una maggiore unione.

La metafora “virtuosi-peccatori” è particolarmente insidiosa per noi italiani. Infatti la parola “peccatore” in senso proprio connota i comportamenti di una persona, in senso metaforico la performance di un Paese. Mantenere la distinzione obbliga Mario Monti a un delicato equilibrio: da un lato deve capitalizzare il suo prestigio e l’apprezzamento riscosso dalla sua compagine governativa, dall’altro deve evitare che il cambio di governo possa essere interpretato come una discontinuità dal “peccato” alla “virtù”: in breve tempo, questo ridurrebbe il suo potere negoziale. Noi non siamo un Paese “peccatore”, non lo siamo adesso che premier è Mario Monti, non lo eravamo quando premier era Silvio Berlusconi. Siamo un importante Paese europeo, per storia e per dimensioni, quello del nostro debito ma anche della nostra economia e del nostro interscambio con gli altri Paesi dell’euro. Il precedente Governo aveva assunto impegni con Bruxelles che il nuovo Governo ha dovuto aggiornare per tener conto del peggioramento della stima di crescita, traducendola in una manovra giudicata credibile dall’Europa. Berlusconi non è caduto perché considerato “peccatore” a Bruxelles, ma perché gli sono mancati i voti a Roma; l’eccezionalità della crisi dell’euro ha fatto sì che il capo dello Stato promuovesse e le forze politiche accettassero una soluzione diversa dalle elezioni subito. Certo, il precedente Governo non aveva saputo controllare la spesa. Ma è dagli anni Ottanta che la spesa cresce, per effetto del costo di un modello di welfare europeo: lì sta il problema dell’euro, di tutti i Paesi dell’euro. Certo, Giulio Tremonti ha mostrato di non capire la gravità della crisi continuando a diffondere giudizi rassicuranti; certo la sua valutazione della globalizzazione era errata: ma i danni che ne sono derivati non sono quantitativamente cospicui, la crisi del debito sovrano la subiamo, non l’abbiamo provocata. In ogni caso ad accusarci di ritardo non può essere chi, come Angela Merkel, ha ritardato a porre mano alla crisi greca, e quando vi si è decisa l’ha fatto enunciando propositi – il coinvolgimento dei privati – che hanno fatto precipitare la crisi. Il “peccato” di Berlusconi è di avere accettato, quando l’Italia aveva la presidenza di turno, che non venissero sanzionati gli sforamenti al deficit di Francia e Germania.
Il rischio delle metafore è che inducano a deformare la realtà perché vi si conformi. Se “peccato” sta per politica di bilancio non rigorosa, la Germania ha ragione nel vedere nei cedimenti della politica le cause della situazione in cui ci troviamo. Ma se la “virtù” viene misurata con riferimento ai due famosi pilastri, deficit inferiore al 3% e debito inferiore al 60%, non si riscontra nessuna correlazione tra la passata osservanza di quei limiti e l’attuale stato delle finanze pubbliche. Lo sostiene Martin Wolf (nell’articolo Merkozy failed to save the eurozone, pubblicato sul Financial Times del 6 dicembre 2011), analizzando le performance dei dodici Paesi più significativi dell’euro nel periodo 1996 -2007, cioè dall’inizio dell’euro allo scoppio della bolla del subprime. Il solo Paese che non ha rispettato i vincoli allora, e che è prossimo al default oggi, è la Grecia. Un anno prima, analizzando la crisi spagnola, Francesco Giavazzi e Luigi Spaventa indicavano come linea di faglia della costruzione dell’euro il non aver tenuto conto dei deficit delle partite correnti (Why the current account may matter in a monetary union. Lessons from the financial crisis in the euro area, dicembre 2010). La grande differenza di produttività e di capacità di crescita tra diversi Paesi dell’area dell’euro non può essere compensata né dalle svalutazioni, non più possibili, né dai trasferimenti, non ancora sufficienti: ma invece di curarla con misure che riducano il gap di competitività, la ricetta dei “virtuosi” è un patto di stabilità “con gli steroidi” che produrrà gravi recessioni, e crisi ricorrenti.
Se passa il precedente che gli aiuti arrivano in ogni caso, sorge il problema dell’azzardo morale. Ma la contrapposizione “virtuosi-peccatori” esaspera il risentimento e ingigantisce i sospetti. La “politica” di educare con le punizioni, non è detto che riesca a rimettere sulla buona strada, in ogni caso è certamente prociclica: i problemi del “peccatore” possono diventare, legittimamente, problemi di chi l’ha punito. Un’unione monetaria non si gestisce con l’autopilota: tanto meno con la morale.

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