Inflazione: anche per Fazio la colpa è delle aziende?

giugno 4, 1995


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


La ripresa della domanda, scrive il governatore Fazio nelle sue considerazioni finali, conduceva alla riapertura dei margini fra prezzi di vendita all’interno e costi di produzione delle imprese industriali italiane», sicché i profitti industriali tornavano ai livelli del 1988-’89, e nel settore terziario toccava un massimo storico. Che si tratti di una constatazione e non di un richiamo pare ovvio: poco prima il governatore aveva ricordato che in passato le imprese assorbivano nei margini gli incrementi di prezzo a causa di «caduta della domanda interna, deterioramento del clima di fiducia delle famiglie, sottoutilizzazione degli impianti»: uno stato dell’economia non certo da rimpiangere.

Pochi giorni fa il governo ha rivisto la sua previsione di inflazione annua, portandolo dal 4,2 al 4,7 per cento. In conseguenza, bisognerebbe intendere che le osservazioni sulle responsabilità della fiammata inflazionistica aggiuntiva, del cui sopraggiungere Fazio ammonì fin dalla scorsa estate, si riferiscano a questo 0,5 per cento aggiuntivo. Ma il differenziale di inflazione tra Italia da un lato, principali paesi europei dall’altro, era già del 2,5 per cento: è a questo differenziale, e alle aspettative da esso indotte, cui bisognerebbe per prima cosa porre attenzione e rimedio.
E i rimedi, come si sa, sono duplici e convergenti: un rafforzamento della lira che riduca l’inflazione importata e che ci faccia uscire dalla ricorrente storia di riprese esclusivamente export-led, puntando invece a un irrobustimento dei consumi interni. E una potente iniezione di concorrenza in tutti quei settori che ne sono protetti (da restrizioni alle im-portazioni, da monopoli legali, da politiche tariffarie) o non esposti (la P.A. in primo luogo, ma anche il credito e la distribuzione). Cioè politica di bilancio e politiche per il mercato.
Siamo in molti a pensare che alla Banca debba essere ascritto il compito istituzionale della stabilità della moneta, e ci si attende che essa dia a tutti indicazioni atte al suo raggiungimento. È in queste indicazioni che gli operatori potrebbero trovare motivi per capire se si vuole porre mano al differenziale di inflazione.
E qui ci si sarebbe atteso che le giuste osservazioni diventassero più incisive indicazioni al governo, non solo su interventi restrittivi della domanda, ma di attacco ai settori non esposti. Ad esempio: la relazione evidenzia il disastroso andamento del settore bancario, ma nulla dice sulla scarsa trasparenza di quanto sta avvenendo in termini di incroci di partecipazioni bancarie, cui non corrisponde nessun pia riorganizzazione interna, e il cui scopo primario sembra essere quello di proteggersi da scalate ostili nel chiuso di compiacenti fondazioni bancarie.
E ancora: nella relazione troviamo una durissima e opportuna critica al progetto di riforma delle pensioni; ma ge-neriche sono le critiche alla dispersione di risorse nella P.A.. Si parla di project financing, ma non dei vincoli per cui questa forma di investimento da noi non può decollare. Soprattutto spicca la mancanza di un qualsiasi accenno alle privatizzazioni e alle liberalizzazioni che le devono precedere. Il dramma di questo paese è l’insufficienza di concorrenza e la mancanza di fiducia negli strumenti di mercato, il circolo perverso per cui l’amministrazione impone controlli e pro-cedure e le aziende cercano protezioni e favori. Il mercato è inevitabilmente ‘selvaggio’, le imprese private sospette, solo ciò che è pubblico è capace di perseguire il bene collettivo: come se la storia non insegnasse nulla.
L’ambiente economico, che la relazione ampiamente analizza, è poi pervaso da una cultura, di cui la cronaca pro-pone quotidiani esempi. Le piccole industrie chiedono di essere protette? Si regala loro un nuovo marchingegno ministeriale. I subfomitori più deboli non riescono a tenere il passo con il processo di selezione dell’ outsourcing? Anziché dar loro i mezzi per crescere, ci si inventa la rigidità di un’assurda gabbia contrattuale, messa sotto la protezione nientemeno che dell’Antitrust. Si devono istituire le Autorità sui servizi pubblici? Siano occhiuti sorveglianti su ciò che le aziende non possono fare, anziché promotori di ciò che devono fare. Si è costretti a vendere le aziende di pubblica utilità? Purché il loro monopolio rimanga inalterato, o esteso, come nel caso Stet.
È colpa di questo clima se le osservazioni del governatore, pur così ampie e documentate, rischiano o di restare inascoltate o di venire strumentalizzate: già qualcuno parla di porre sotto osservazione i prezzi, per poi magari chiedere di controllarli; in attesa che si chieda alle imprese di assumersi i compiti, politici, dei dicasteri economici, salvo poi correre ai ripari se si mettono a fare politica. È su questa cultura, e sui guasti che essa provoca, che si sarebbe voluto cogliere, nel ricco quadro tracciato dal governatore, qualche più puntuale indicazione.

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