Il valore dell’apertura agli altri

agosto 15, 2011


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Il bambino ebreo rifugiato in Svizzero lo scopre nelle parole della madre

Vi era anche una contessa russa tra gli scampati dalla rivoluzione sovietica presi a bordo della nave da guerra mandata dall’Italia in Mar Nero. Di rapinosa bellezza lei, di virile fascino il brillante ufficiale che vi prestava servizio: complici l’emozione per lo scampato pericolo, la riconoscenza del salvato e il trasporto del salvatore, tra i due scoppia un amore folle. Tanto folle che, per sposarla, il brillante ufficiale non esita a dimettersi. La contessa infatti era divorziata, unirsi a lei era interdetto a un ufficiale della Regia Marina. Poi l’amore finisce, e alcuni anni dopo troviamo la contessa a Berlino: partecipa a un ricevimento in cui si parla male di Mussolini, ritorna nella sua stanza e si spara.

Dovevamo essere rifugiati in Svizzera quando mia madre mi raccontò questo pezzo di storia di famiglia – lo sfortunato ufficiale era suo cugino primo. Una storia in cui chi salva la propria vita fuggendo da una dittatura nella sua patria di origine, volontariamente la perde difendendo una dittatura nella sua patria di acquisto, raccontata a un ragazzino che a causa di quella dittatura dalla sua patria ha dovuto fuggire: mi piace pensare che proprio quel tragico aggrovigliarsi sia stato il primo seme della mia diffidenza per un concetto così evidentemente mutevole come la patria, e per un sentimento così evidentemente ingannevole come l’orgoglio.

Certo, nel prosieguo della mia vita, anch’io trovandomi all’estero, ho provato insofferenza per giudizi approssimativi e consumati luoghi comuni espressi sul mio paese: ma orgoglio di essere italiano non credo di averlo mai provato e sono certo di non averlo mai assaporato.

Contento, non orgoglioso: sono contento di essere italiano. Ho desiderato molte volte di vivere altrove, anche per lunghi pezzi della mia vita, lo penso anche adesso che i pezzi di necessità posso solo pensarli corti, ma non ho mai desiderato di essere nato altrove. E poi, altrove da dove? Perché l’Italia in cui sono contento di essere nato non è “Il Bel Paese ch’Appennin parte, il mar circonda e l’Alpe”, ma è uno degli Stati che in Europa hanno dato vita alla civiltà occidentale. Sono “contento” di essere nato e cresciuto nella civiltà occidentale europea.

In che cosa consiste questa “contentezza”? Provo a spiegarlo con un esempio: nel 1788 a Napoli, al teatro dei Fiorentini va in scena la prima de “La Bella Molinara” di Paisiello. Rappresentata a Viennna al Burgtheater nel 1795 ha grande successo: sull’aria “nel cor più non mi sento” scrivono variazioni Beethoven, Paganini, Giuliani. La Bella Molinara diventa “Die schöne Müllerin” e Schubert nel 1822 ne trae il famosissimo ciclo di Lieder. Uno di questi, “Des Baches Wiegenlied” viene trascritto di Franz Listz. Nel 1837 viene in Italia con Marie d’Agoult, qui nascono Cosima e Daniel: l’Italia è meta di “Pélérinages”, fonte di “Consolations”; San Francesco, Dante, Petrarca, Tasso ispirano oratori, sinfonie, lieder, sonate. Ecco, è questa contiguità che collega la cultura del paese in cui sono nato alle altre europee, preservando di tutte l’identità, che mi fa sentire “contento” di essere occidentale.

Di cosa poi si dovrebbe essere orgogliosi? Dell’attrazione che l’Italia ha sempre esercitato , della fascinazione per l’arte italiana, del Drang nach Süden con Goethe sdraiato sullo sfondo del Foro, dei Deutsche Römer, di Villa Medici e Villa Malta, dei Prix de Rome, dei candori dei Nazareni e dei languori dei preraffaelliti, delle passioni per le donne di Avito e di quelle per i ragazzi di Capri? L’orgoglioso inebriarsi, alla stessa stregua del suo opposto, l’umile prostrarsi, procura momentanea soddisfazione a sé, provoca fastidio o imbarazzo negli altri.

L’orgoglio divide, isola. Essere “contento” invece significa sentire non c’è contrapposizione tra sentire propri, a volte perfino con un po’ di complicità, i valori della cultura d’origine e aperto a quelle che si sentono prossime, significa riconoscere che le identità nazionali si sono formate attraverso i contatti con le diversità e che solo così possono sopravvivere al rischio di inaridirsi nella riproduzione di stereotipi magari made in China. L’orgoglio è nazionalista, la “contentezza” è pluralista, riconosce le identità nazionali ma non le contrappone. E neppure pretende di federarle in una nuova entità che le uniformi e tutte le contenga.

Vuole aprire la Russia alla cultura europea, non copiare modelli italiani, Pietro il Grande che chiama Rastrelli, Ricci, Quarenghi per costruire i nuovi palazzi di San Pietroburgo. Apre la propria tavolozza alla cultura inglese Canaletto quando si sposta a Londra dove ci sono i suoi grandi committenti; è di Dresda e di Varsavia, non di Venezia la luce livida delle vedute di Bellotto. Ed è a Parigi che nel 1909 il Futurismo annuncia una rivoluzionaria avventura artistica che fisserà i canoni della modernità.

Non credo si sentisse uno straniero Alessandro Manzoni a Parigi, negli anni in cui frequentando gli idèologues, gli amici di Mme de Stael e della vedova di Condorcet, conobbe Benjamin Constant, François Guizot, l’economista Jean-Baptiste Say. Figlio, in tutti i sensi, dell’illuminismo lombardo – fino al 1820 avrà ogni giorno tra e mani un libro di Voltaire – vive a Parigi l’evoluzione dell’illuminismo in romanticismo. Manzoni non accetterà la convinzione del fraterno Claude Fauriel, che la poesia debba essere espressione ingenua dell’anima, non rinuncerà al dominio intellettuale del sentimento, caratteristica del romanticismo italiano. Resterà invece il ricordo delle lezioni di economia liberale nell’analisi dell’assalto ai forni nel capitolo XII dei Promessi Sposi: se l’autorità abbassa d’imperio i prezzo del pane, i fornai non hanno più interesse a panificare provocando la reazione della folla inferocita.

Dovremmo essere orgogliosi del gesto napoletano (indice e medio a strisciare sotto il mento dal basso in alto) con cui, passeggiando sul fiume Cam, il torinese Sraffa, mette in seria difficoltà la teoria dell’austriaco Wittgenstein, per cui ogni linguaggio si deve ridurre alla logica, al punto di portarlo a rivedere dalle fondamenta il Tractatus? Allo Sraffa di Cambridge si deve il più importante contributo italiano al keynesismo che ha dominato la cultura economica fino agli anni ‘60. L’italiano Vilfredo Pareto, nato a Parigi, vissuto in Toscana, insegnante a Losanna, ha un ruolo centrale nell’evoluzione della teoria marginalista, e quindi si collega alla scuola economica austriaca di Von Mises e von Hayek, e a quella che sarà la scuola di Chicago di Milton Friedman.

“Per l’uomo libero, scrive Friedman, il suo paese è l’insieme degli individui che lo compongono e non un’entità che li trascende.” E’ perché si è creduto il contrario, perché si sono volute, orgogliosamente, creare mostruose entità che trascendevano gli individui che sono successi i fatti, alcuni tragici, altri dolorosi e faticosi, a cui faccio risalire la mia diffidenza verso gli orgogli nazionali.

Eppure di una cosa sono orgoglioso anch’io: della mia ascendenza ebraica. Penso di poterlo dire senza contraddirmi: perché quello degli ebrei è un insieme di individui che largamente trascende il loro Paese. Ma senza di loro, la cultura occidentale europea non sarebbe quella che é. E io non potrei essere contento di appartenervi.

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