Il premio di controllo e quel patto con la politica

marzo 16, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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I vincoli creati dal Governo nel ritenere Telecom “strategica” costringono a cercare complesse mediazioni

Non esiste un problema Telecom. Esiste un problema diverso: si chiama “premio di controllo”, ed è nato con il sovrapprezzo che Pirelli ha pagato nel 2001 a Gnutti e soci, “concentrato” su quel 18% per cui il controllo è passato di mano senza passare per il mercato. Pirelli l’ha parzialmente svalutato: ora cerca di recuperare quanto più può di ciò che è rimasto. Che riesca nel suo intento e in che misura é questione essenzialmente politica.

Politica lo era fin dall’inizio. Infatti era difficile giustificare il sovrapprezzo con un potenziale di crescita di Telecom Italia non incorporato nel prezzo di Borsa.
Tutt’altra cosa accadde con Colaninno del 1999. Allora il titolo risentiva ancora della sottovalutazione di quando era stata privatizzata, e di successive incertezze gestionali, e l’OPA al 100% diede a tutti gli azionisti la possibilità di parteciparvi: ma da quando l’imprenditore mantovano ne aveva preso il controllo, il titolo si era mosso sostanzialmente con la media delle aziende telefoniche europee. Anzi dal Novembre 1998 ad 27 Luglio 2001, data della cessione a Pirelli, Telecom Italia aveva fatto meglio di 4,9% rispetto allo Stoxx tlc. Né, a giustificare quel sovrapprezzo, c’erano sinergie con la controllante Pirelli.
Ma quando la politica dice che Telecom Italia è “un’azienda strategica”, ne deriva che il fatto stesso di controllarla ha per la politica un valore. Diventare controparte di questo tacito patto: in questo consiste il . “beneficio privato del controllo”. Certo, conta anche il potere economico di controllare una grande azienda, con un cash flow imponente; conta il potere reputazionale di essere il primo industriale d’Italia ora che il baricentro è sui servizi, come lo era stato Giovanni Agnelli quando il baricentro era l’industria manifatturiera. Ma sono conseguenza e garanzie di quel tacito patto con la politica.
Le cose poi non sono andate granchè bene nell’azienda: almeno a giudicare dall’andamento di Borsa che ha visto il titolo Telecom Italia crescere il 43,80% meno dell’indice dello Stoxx tlc (per la precisione + 47,7% contro + 91,50%, calcolato dal giorno prima del passaggio della quota Bell a Olimpia). La colpa non è del debito in Telecom: è 3,5 volte l’EBITDA, leggermente più alto delle altre telecom europee che viaggiano intorno al 3, ma meno dell’americana Verizon, meno di quello che le accollerebbe un fondo di private equity; basta guardare quello che è successo all’incumbent danese TDC o a TIM Hellas, entrambi acquistati da fondi di private equity.

A contare è stato il debito a monte, in Olimpia, cioè ancora una volta il premio al controllo. In questi anni Telecom Italia ha pagato ai suoi azionisti e quindi a Olimpia circa 15 miliardi di €, tra dividendi e buy back, con un pay out sui “cash earnings” prossimo al 110%. Il premio al controllo ha impedito che il mercato desse la soluzione, un’OPA da parte di chi ritiene di saper estrarre maggior valore dall’azienda: il premio di controllo era lì a segnalare l’esistenza del patto a garanzia della stabilità degli assetti proprietari, e questo scoraggiava qualsiasi investitore. <>Le cose sono cambiate quando il Governo ha bocciato il piano di Marco Tronchetti Provera e gli ha (casualmente, s’intende) contrapposto il piano Rovati. Tronchetti l’ha immediatamente capito, e ha fatto un passo indietro. Ha quindi provato a vendere una quota del suo 18% a Telefonica, premio compreso. Ma vuoi che gli spagnoli chiedessero di poter comprare Tim Brasile pagando un premio ridotto, cosa che avrebbe danneggiato gli azionisti Telecom, vuoi che chiedessero la sicurezza di poter comperare in futuro tutta la quota, la politica non diede il consenso.
E ora Tronchetti ha deciso di vendere l’intera quota di controllo. In assenza di vincoli politici non sarebbe difficile trovare veri compratori stranieri, In queste condizioni sono attori in una recita alla fine della quale si deciderà quanta parte del premio di controllo verrà riconosciuta a Pirelli. Sarebbe zero, se Telecom dovesse diventare una public company, il modello che da sempre ha in mente Guido Rossi, Ma le public company sono scalabili; e azzerare il valore del premio sarebbe un grave colpo per l’intera piramide societaria che sta sopra Telecom, Olimpia, Pirelli e via soprelevando. E le piramidi, anche se non di questa altezza, sono la struttura di base del nostro capitalismo: nessuno né il Governo né le Banche né le Fondazioni ha interesse a dare il via a una generale demolizione. E’ dunque probabile che si giunga a una mediazione, l’unica incognita è dove si fermerà l’ago della “bilancia”.

Nell’attesa, alcune considerazioni.

Sulla strategia industriale. Neppure in una public company il management è sottratto al controllo della proprietà. L’attuale management dovrebbe astenersi anche dal formulare proposte strategiche, né vendita di partecipazioni importanti, men che mai vendita della rete fissa, che danneggerebbe l’azienda senza avvantaggiare il Paese.

Sui rapporti con la politica. Nessuno è legittimato a gridare allo scandalo. Marco Tronchetti Provera non può dirsi vittima del gioco della politica, dato che è stato lui a volere fin dal principio entrare in quel gioco. Specularmene, la politica non può accusare tutti gli imprenditori di incapacità, mancanza di coraggio e di idee: a meno di ipotizzare singolarità antropologiche, questi comportamenti sono la conseguenza dei rapporti che essa ha istituito con le imprese.

Sulle privatizzazioni. Il tacito patto, che “crea” il valore del premio di controllo, altro non è che la nuova forma di “quella sorta di accordo feudale che aveva retto il rapporto tra sistema politico e grandi forze del capitalismo, protezione in cambio di consenso” (Giorgio Rebuffa, Il Mulino 1/2007), venuta meno con lo smantellamento dei grandi enti di gestione del sistema economico pubblico e del suo sistema bancario. Questi nuovi accordi a volte dànno alla politica un potere maggiore sulle imprese privatizzate di quello che avevano i Governi sulle sub-holding dell’IRI: Prodi ha più potere su Tronchetti – e Di Pietro su Autostrade – di quanto ne avevano i Governi degli anni ’80 sulla Stet di Agnes e Pascale. Ma sempre di “accordi feudali” si tratta.

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