Il pensiero debole del Governo

giugno 17, 2002


Pubblicato In: Varie

liberal-logo
Il Senatore dell’Ulivo critica l’esecutivo per la sua mancanza di determinazione

Ha ricompattato l’unità sindacale e ha diviso la compagine governativa; ha dovuto subire il primo sciopero generale dopo vent’anni; ha propiziato il successo di una oceanica manifestazione indotta dalla CGIL, che ha riscosso consensi e partecipazioni anche fuori dalla propria base; ha irritato e preoccupato i grandi industriali, senza accontentare i piccoli e medi, indebolendo la posizione del Presidente di Confindustria; ha reso più conflittuali le relazioni industriali, in cui sono riecheggiate accuse che non si udivano da anni e si sono rimessi in circolo sospetti di discriminazioni; si vede costretto a mettere a carico del bilancio dello Stato risorse non previste per una parziale ed affrettata riforma degli ammortizzatori sociali.

Oggi il numero di coloro che credono importante abolire l’art.18 sembra essere addirittura diminuito. E quanto al risultato, se mai riuscirà ad ottenere quello che si proponeva, si tratterà in ogni caso di una modifica pochissimo rilevante.

Questo è il fallimentare risultato che il Governo consuntiva nella battaglia per l’art.18. Una battaglia che è stata anche funestata da un orrendo crimine, che è costato la vita a un fedele servitore dello stato, a un infaticabile riformista di rapporti di lavoro e di sistemi di welfare. Accusare il Governo di dilettantismo è inevitabile: ma così ci si concentra sugli aspetti esecutivi, mentre la causa vera di questa débacle va cercata nei presupposti concettuali a cui si è ispirata la sua proposta.

La strategia scelta dal Governo è stata quella di aggirare l’ostacolo, credendo di riuscire a rasentarlo senza toccarlo: ha sostanzialmente creato un nuovo contratto di lavoro a tempo indeterminato senza la tutela dell’art.18, che si può applicare solo a chi oggi non ha tale tutela, o perché il suo contratto di lavoro non lo prevede, o perché non possiede alcun contratto. Inoltre, lo ha introdotto in modo provvisorio, per un tempo limitato, subordinando la sua definitiva conferma alla verifica dei risultati che esso avrà sortito nel periodo di sperimentazione, prevalentemente come crescita dei posti di lavoro. Eppure non era difficile sapere che i licenziamenti sono “l’ultimo tabù”, come recita il titolo di un libro di Aris Accornero, uscito qualche anno fa; non ci andava molto a rileggere le critiche infuocate di cui fui fatto oggetto per il mio progetto di legge per la “modifica delle norme di recesso da parte del datore di lavoro”, presentato nella passata legislatura e ripresentato in questa.
Il valore simbolico è l’essenza stessa dei tabù; i tabù non si aggirano, con loro non è possibile negoziare una sospensione a titolo di prova; se rimossi, possono ritornare, scatenando reazioni anche nevrotiche. I tabù devono essere affrontati guardandoli in faccia, risalendo alle paure che li hanno prodotti, alla situazioni in cui si sono formati. Per abbattere un tabù le considerazioni utilitaristiche sono addirittura controproducenti.
Oltretutto, queste sono, di tutte le ragioni per cui è bene abolire la rigidità derivante dall’art.18, le meno convincenti: la relazione tra flessibilità e aumento dei posti di lavoro è, secondo molti economisti, debole e non così diretta. E poi, come si riuscirà alla fine del periodo di prova a determinare quali posti di lavoro nuovi sono stati creati proprio per effetto di questo provvedimento?

La proposta del Governo scontenta quelli per cui l’art.18 è simbolo di diritti conquistati in altri tempi: a chi vorrebbe giustificarne l’eliminazione con la prospettiva dell’aumento dell’occupazione, essi rispondono, non senza ragioni, che lo scambio “più lavoro meno diritti” non è proponibile.
Ma scontenta anche quelli che sono a favore dell’abolizione delle attuali norme sul licenziamento senza giustificato motivo economico, perché la creazione della categoria dei “senza 18″ creerà situazioni imbarazzanti: operai che lavorano fianco a fianco con le stesse mansioni e contratti identici tranne in quel punto; se cambiano lavoro, continueranno per sempre ad avere un contratto “senza 18″? Che cosa succederà dei “senza 18″ se la legge non dovesse essere definitivamente approvata alla fine del periodo di prova? Per paradosso, verrebbero licenziati, considerando la non approvazione definitiva del provvedimento “giustificato motivo”?

Il governo paga dunque, oltre che evidenti errori tattici, l’errore concettuale di avere affrontato il tabù in un modo parziale e timido, e adducendo ragioni deboli. Se ci vogliono speciali circostanze (l’emersione, la crescita delle aziende che si trovano poco sotto i 15 dipendenti) per eliminarlo, vuol dire che in circostanze normali esso deve essere mantenuto; se la ratio viene fatta consistere solo nell’aumento dell’occupazione, si è esposti all’accusa di proporre lo scambio odioso tra diritti e lavoro. Il provvedimento così rafforza proprio le ragioni di chi lo avversa.

La ragione per cui la disciplina del licenziamento va modificata è che è cambiato il mondo del lavoro: sono cambiate le caratteristiche dei prodotti, il modo di produrli e di venderli, dunque le organizzazioni aziendali. Se oggi solo una minoranza dei lavoratori ha il classico contratto di lavoro a tempo indeterminato, significa che esso non è più lo strumento adatto.
Sono cambiati i rapporti sindacali all’interno delle fabbriche: il Paese è diventato più civile, certi abusi e discriminazioni non sarebbero più tollerati; è nel potenziamento di questi anticorpi che sta la protezione del lavoratore, più che nella rigidità della norma.
E’ cambiato il normale decorso di una carriera: se esso è formato dal succedersi di diversi lavori, il lavoratore più che di essere garantito nel lavoro, ha bisogno di essere aiutato nella transizione da un lavoro a un altro. Se i diversi lavori richiedono diverse competenze, ciò di cui ha bisogno è di essere aiutato ad acquisirle. Non quindi (solo) sussidi di disoccupazione, ma aiuti nei periodi tra le occupazioni.
Sono cambiati i contratti di lavoro: se oggi, nella stessa impresa, accanto ai dipendenti con contratto a tempo indeterminato, ci sono i part time, gli interinali, i formazione e lavoro, i parasubordinati, tutte le forme contrattuali che si sono inventate anche per ricuperare margini di flessibilità, non è giusto che ci sia una così radicale differenza di tutela: che per gli uni è totale e assoluta fino al reintegro, e per gli altri è inesistente, come neppure nei paesi in cui vige il hire and fire.

Equità nella distribuzione delle tutele tra i vari tipi di contratti; creazione di un sistema di ammortizzatori sociali analogo all’inglese welfare to work; consolidamento di un sistema di relazioni industriali in cui i conflitti si svolgano e si compongano senza ricorrere a forme di abusi o di discriminazioni. Se il governo avesse radicato il problema su questi principi “alti”, almeno la discussione si sarebbe svolta su un piano di interesse generale, dei lavoratori e delle imprese. Una discussione in cui, invece dell’irrigidimento nella difesa di antichi diritti, si poteva produrre la volontà di acquisire nuove sicurezze.
Ma c’è una ragione ancora più di fondo, per cui la rigida disciplina del licenziamento prevista dallo Statuto dei Lavoratori deve considerarsi superata, una ragione che ha a che fare con il concetto stesso di impresa e dei suoi compiti.
Negli ultimi decenni del secolo scorso, si è affermato il principio secondo cui il compito dell’impresa è prima di tutto, o esclusivamente, quello di produrre ricchezza. Compito del manager non è più quello di far crescere fatturato e occupazione, di mantenere la pace sociale, di farsi carico di compiti o di problemi diversi da quelli del proprio business, ma quello di creare valore per gli azionisti. Non più la stakeholder company, ma la shareholder company. Non più manager che cercano la propria stabilità alleandosi con i dipendenti, ma manager incentivati dalle stock option ad allineare i propri obbiettivi con quelli degli azionisti. Il grande boom degli anni 90 è anche il risultato di questa rivoluzione nel modo in cui la società concepisce il ruolo delle imprese. Una divisione dei ruoli: le imprese per produrre la ricchezza, lo Stato per distribuirla. Ma in tal caso eliminare le cause di inefficienza per le imprese, non è più assecondare l’egoismo aziendale, ma perseguire un bene sociale. E poiché il massimo di efficienza si ha quando l’impresa può mettere in ogni posto la persona più adatta a ricoprirlo, mobilità e flessibilità del lavoro dipendente sono condizioni per aumentare il benessere collettivo.
La rigidità in uscita è coerente con il modello della stakeholder company. A carico dell’impresa si pone il compito sociale di pagare per l’inefficienza di un lavoratore inadatto o in soprannumero. Come sovente accade, l’inefficienza voluta finisce per indurre atteggiamenti di lassismo verso altre forme di inefficienza, che non corrispondono a nessuno scopo sociale. Nel modello della shareholder company, tocca allo Stato utilizzare una parte della maggior ricchezza prodotta in ragione della maggiore efficienza per compensare i disagi che sono il prezzo pagato dai singoli individui per conseguirla.
Si deve quindi guardare alla medaglia anche dall’altra faccia: predisporre ammortizzatori sociali che compensino i disagi della flessibilità ed eliminino dalla mobilità le ragioni di incertezza, è dovuto non tanto per ragioni di solidarietà, quanto di efficienza. Perché se mobilità diventa sinonimo di ansietà, il sistema si irrigidisce, e i costi dell’inefficienza ricadono di nuovo sulle spalle dell’impresa.

Anche per l’impresa c’è dunque un “piano alto” di discussione sulla disciplina dei licenziamenti. Forse perché impressionate dalla violenza della reazione sindacale, timorose di dover pagare il prezzo di conflittualità in fabbrica in una congiuntura incerta, molte imprese, soprattutto le grandi, oggi hanno derubricato il tema, come se esso non fosse cruciale per il ruolo dell’impresa nella società e per il benessere collettivo. E’ questa un’altra conseguenza negativa, e non la minore, di come il Governo ha affrontato il problema del superamento dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori.

Invia questo articolo:
  • email
  • LinkedIn



Stampa questo articolo: