Il paradossale pasticcio italiano

gennaio 10, 2007


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di Filippo Ceccarelli

È un gran bell’impiccio, l’Italia. E quanto vi accade da una dozzina d’anni fra Montecitorio, Arcore, Palazzo Chigi e Porta a Porta, lo è se possibile ancora di più. Un intrico senza capo né coda, un groviglio di vecchio e di nuovo, un garbuglio di malanni e creatività. Uno «gnommero», o gomitolo sfilacciato, come lo definiva nella sua curiosa lingua il commissario Ingravalle nel Pasticciaccio di Gadda.

Ecco: pure osservata dall’al di là delle Alpi, la vita pubblica italiana volge al nero; ma nel contempo finisce per configurarsi come il più variegato pasticcio, appunto, dell’evoluzione politica continentale. È insieme in crisi e in fase innovativa; ha pesanti handicap, però anche storiche capacità di recupero. Dal Cavaliere ai girotondi, dalla crescita del volontariato ai colpi di coda della partitocrazia mostra l’immagine di un affascinante pastrocchio, una formidabile contraddizione vivente – nel senso almeno che la società continua a vivere amando, disprezzando e sopportando i suoi leader.
Ragion per cui alla fine un po’ si prova vergogna – la consueta auto-vergogna – e un altro po’, inaspettatamente, ci si consola leggendo «Democrazia alla prova. L’Italia dopo Berlusconi» (Laterza, pagg.133, euro 16) di Marc Lazar. Là dove l’ambivalenza del sentimento pare comunque destinata a passare in secondo piano rispetto all’autorevolezza anche scientifica dell’autore, che i lettori di Repubblica ben conoscono, e che da diversi anni dirige quel rinomato tempio della politologia europea che è l’Ecole doctorale de Sciences Politique, in gergo Sciences-Po.
E dunque. Chissà se nella stesura si è reso conto, il professor Lazar, di quante volte ha utilizzato a proposito dell’Italia l’aggettivo «paradossale»; e con quanta efficace intensità, nei riguardi del berlusconismo, è dovuto ricorrere al correlato avverbio «paradossalmente». L’Italia, scrive, «sfugge ai luoghi comuni». È l’unico paese, in effetti, a non aver impresso emblemi ideologici sulle monete. Ed è anche l’unica nazione nella quale, al momento della guerra in Iraq, si siano vendute cinque milioni di bandiere arcobaleno. Ma da un paio d’anni questa stessa Italia, sempre celebrata per la sue produzioni di qualità, soffre esportazione di scarpe made in China che crescono a ritmo di 700 per cento.
Tutto sembra accaduto qui troppo in fretta. Collasso della Prima Repubblica, agonia dei vecchi partiti, irruzione della tecno-politica, vorticosi cambiamenti economici e sociali. Eppure, di nuovo: forse è proprio questa precipitazione, forse è questo scompiglio a rendere la situazione italiana «ricca di insegnamenti», rispecchiando anzitempo come in un gioco di specchi «problemi essenziali che si pongono alla maggior parte degli altri paesi europei». Primo fra tutti, la questione della democrazia e della sua vitalità.
In questo senso il professor Lazar delinea un convincente paradigma secondo cui, dopo l’era parlamentare e quella dei partiti, il sistema va decisamente nella direzione di una «democrazia mediatica» o «del pubblico» (per quanto ancora fragile e incompiuta). Motore ed esito di tale processo, causa e prodotto di una cesura «forse addirittura antropologica», è ciò che l’autore definisce «il momento Berlusconi». Perché il Cavaliere, detto senza alcuna ironia o schifiltosità, «ha marcato di sé l’Italia, come un ferro rovente, lasciandosi dietro una traccia profonda, forse indelebile».
Sull’uomo, o meglio sul personaggio non si fanno sconti. Vedi il suo «sorriso ferino e quasi forzato», il culto e la manipolazione del proprio corpo quale strumento di autoconsacrazione, o il guardaroba «come riscontro di un successo sociale alla portata di chiunque. La stessa più che certificata «megalomania» berlusconiana viene osservata e descritta, dopo tutto, come la naturale conseguenza di un leader che ritiene o comunque pretende di donare la sua preziosa persona a un paese che spesso non lo merita, ma dal quale non riesce a chiamarsi fuori.
E tuttavia l’analisi di Lazar si fa tanto più originale e persuasiva quanto più, dal suo ragguardevole osservatorio a Saint Germain des Pres, riesce a illuminare l’inedita inclinazione grazie a cui Berlusconi è finora riuscito a tenere insieme e perfino a far fruttare, senza mai risolverli, gli estremi apparentemente inconciliabili della crisi italiana. Per cui il Cavaliere si trova ad essere simultaneamente uomo di rottura e di compromesso, regola ed eccezione della democrazia, innovatore e immobilista nella prassi governativa, moderato e demagogo a seconda dei momenti e delle opportunità, «padre di famiglia» e zio trasgressivo nell’immaginario, accreditato sul piano elettorale presso i ceti emergenti e i diseredati. Beneficiario e vittima, in ultima istanza, di quelle stesse tecniche che sempre lui ha introdotto e presentato al popolo, anzi al «pubblico», come delle vere e proprie soluzioni. E che i suoi avversari gli contestano, ma gli copiano anche.
Sullo sfondo resta un’Italia invecchiata e sterile. Per lo più inconsapevole del declino che l’ha colpita. Sempre più povera per quanto immersa nell’opulenza; e anche divisa, animosa, incattivita. A questo proposito, pur avendo scritto un saggio lodevolmente freddo e distaccato, Lazar non può far a meno di concedersi con qualche eleganza un frammento autobiografico: «Mi si perdoni questo inciso ispirato alla mia esperienza – scrive – ma occorre sapere che, da più di dieci anni, per invitare in Francia colleghi italiani a un convegno universitario o a una tavola rotonda sull’attualità, occorre verificare preliminarmente, con tutto il tatto necessario e un po’ d’astuzia, se si sopportano e se accettano l’idea di trovarsi in una stessa sala per discutere»…
Ma poi, di guaio in guaio, crescita fiacca, mediocre competitività, zero in ricerca, debito pubblico elevato, persistente ritardo del Sud, ecco, quasi inavvertitamente ritorna un bagliore di fiducia: «La storia dimostra – si legge nelle ultime pagine – che ogni volta che questo paese si è trovato in ginocchio ha saputo rimettersi in piedi in maniera spettacolare». E un po’ imbarazza, ma conforta anche, questo estremo tributo d’amore per lo Stellone. «Il Sisifo moderno – conclude il direttore di Sciences-Po – è indubbiamente italiano». Vedi la voce «Sisifo» nella Garzantina dei miti: «Il più scaltro dei mortali, e il meno scrupoloso».

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