Il manager Mattei aveva due volti

aprile 27, 2006


Pubblicato In: Corriere Della Sera, Giornali

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Debenedetti: non si può scindere il grande industriale dall’uomo che usava i politici come taxi

Alla fine degli anni ’90, durante la prima stagione dell’Ulivo al potere, la polemica di Franco Debenedetti contro quei manager pubblici che ha battezzato «i nuovi Mattei» ha segnato un momento di snodo per l’industria pubblica italiana: a partire dalla «madre di tutte le privatizzazioni», come Romano Prodi definì l’operazione Telecom Italia, e continuando con le dismissioni parziali di Eni ed Enel, la politica ha incominciato a interrogarsi sul futuro delle residue aziende a controllo pubblico.

Ipotizzando nella teoria, ma anche attraverso esperimenti pratici, vari modelli accomunati dall’idea di dare comunque un futuro all’industria di Stato. Cioè di mettere in discussione il declino di un pezzo dell’economia italiana che è risultato decisivo lungo tutto il 20˚ secolo, dalla nascita dell’Iri già in epoca fascista al fenomeno Eni che ha segnato gli anni della Ricostruzione.

Enrico Mattei viene ricordato come un grande personaggio, e in particolare come l’uomo che più di ogni altro ha dato ruolo e profilo all’industria di Stato. A mezzo secolo di distanza, negli scenari di oggi, c’è qualcosa di quell’esperienza che lei riproporrebbe?

«La mia risposta è un no deciso,ma devo anche dire che trovo la stessa domanda al limite del proponibile. L’esperienza di Mattei si colloca in un periodo storico con il prezzo del barile a un decimo di quello attuale, in un quadro di equilibri internazionali, una situazione politica ed economica dell’Italia e perfino con modelli di business completamente diversi. I giudizi su Mattei appartengono quindi alla riflessione storica, ed è difficile confrontare scenari così lontani».

Pur tenendo conto delle differenze di contesto, ci sono elementi dell’esperienza di Mattei che vengono ancora additati a modello. Non vede singole storie di successo da imitare?

«Non si può giudicare la storia a pezzi, prendere in considerazione separatamente il Mattei capitano d’industria dal Mattei politico. Il Mattei che dà a tutto il gruppo Eni una straordinaria cultura aziendale, che vive ancora nella Pignone anche dopo che si è inserita con successo nel gruppo General Electric, non si può scindere dal Mattei che si vantava di usare i partiti politici come taxi».

Eppure la memoria storica sedimenta idee nella politica. Per esempio, non si intravede il fondatore dell’Eni sullo sfondo della teoria dei «campioni nazionali»?

«Certo. Negli anni ’90, soprattutto quando si profilava la prima parziale privatizzazione dell’Enel, è sembrato che i manager pubblici, quelli alla guida dell’Eni ma soprattutto dell’Enel, provassero a sedurre la politica facendo balenare il miraggio delle imprese di successo a controllo pubblico.E li paragonai a «nuovi Mattei», una definizione che ebbe successo. L’esperienza ha poi dimostrato che è meglio non pensare di poter riprodurre questi esperimenti».

C’è un’altra declinazione possibile della nostalgia di Mattei: l’idea che le aziende a controllo pubblico possano essere strumenti di politica industriale.

«Un altro no secco. C’è una sola politica industriale possibile oggi per l’Italia, ed è liberalizzare: il solo piano possibile è eliminare le barriere erette e difesa di posizioni dominanti».

Nell’ultimo anno un altro tema ha fatto evocare il nome di Mattei, quello della difesa dell’italianità delle aziende, o comunque del ruolo delle nostre imprese.

«Anche qui parliamo di contesti completamente diversi rispetto a cinquant’anni fa. Io capisco molte ragioni di chi si preoccupa dell’italianità delle aziende. Anch’io vorrei che ci fossero tante aziende italiane di successo, capisco anche che ci possono essere momenti particolari in cui è ammissibile che un governo azzardi qualche contromossa, diciamo così, eterodossa. Ma rimane comunque fermo il concetto di fondo: la difesa dei confini nazionali in economia è una manifestazione di debolezza e non di forza. Parliamo di strategie inadatte a raggiungere gli obiettivi, cioè a difendere gli stessi interessi nazionali. Insomma, sono scelte che alla fine impoveriscono il Paese».

Giorgio Meletti

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