Il Governo nella trappola della fiducia

giugno 3, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Che cosa ci possiamo ragionevolmente attendere da questo Governo? La vicenda Visco – Speciale ha dimostrato il potere di condizionamento di un piccolo partito, è un altro precedente che verrà utile alla prossima occasione. Il contratto degli statali è stato chiuso 101 a zero, nulla essendo stato ottenuto sul piano del riconoscimento dei meriti, non parliamo della sanzione dei demeriti.

Il Governo cederà ai sindacati confederali sullo scalone delle pensioni, e sulla non revisione dei coefficienti della riforma Dini. È possibile che ceda ancora qualcosa agli interessi locali sul ddl Lanzillotta. Ha già perso l’occasione di fare della vicenda Alitalia l’analogo di quanto Reagan fece coi controllori di volo, e di far pagare il disastro a chi l’ha prodotto: lo farà invece pagare ai consumatori consentendo che si elimini quel po’ di concorrenza che c’era sulle tratte interne.
Mario Draghi ha messo il dito sul divario territoriale per cui un quindicenne su cinque nel Mezzogiorno versa in condizione di povertà di conoscenze, un problema, ha detto, che non sta solo nelle regole, ma anche nella loro applicazione concreta. Forse che questo Governo è concorde se non altro sulla “constatazione dei circoli viziosi che penalizzano” la scuola italiana, e che non nascono “da una carenza di risorse per studente, che sono invece più elevate in Italia che nella media dei Paesi europei”? È in grado non dico di fare, ma di concordare su che cosa bisognerebbe fare per superare il “confronto internazionale impietoso” sui tempi della giustizia? Conviene almeno sulla necessità di “svincolare l’azione del governo centrale dall’obbligo di assenso degli enti regionali e locali interessati”?

Più aumentano le difficoltà del governare, più questo Governo cerca rifugio negli obbiettivi che si era dato: obbiettivi ambiziosi, a volte indicati come quelli che avrebbero salvato l’Italia. Ma lì va, se possibile, ancora peggio. Il primo obbiettivo era rimettere in sesto la finanza pubblica. In effetti abbiamo sognato col DPEF, ma ci siamo risvegliati con la Finanziaria: una pressione fiscale, sempre per citare il Governatore, a un “livello più alto della media europea, prossimo ai massimi degli ultimi decenni”, una spesa primaria corrente, che “è sui livelli più alti dal dopoguerra”: e che altro ci si deve aspettare se non si riforma la previdenza e non si agisce sul pubblico impiego? Il PIL aumenta grazie alla congiuntura (che pure cogliamo meno degli altri), le spese, in assenza di inflazione, sono anelastiche: altro che risanare!
C’era l’obbiettivo di razionalizzare l’offerta politica: ma il Partito Democratico, anche a voler considerare come malattie infantili i dissidi che lo attraversano, al massimo riuscirà a sistemare i rapporti interni tra DS, DL e prodiani. C’era l’impegno a cambiare la legge elettorale: ma pensare che i partiti minori votino un testo che riduca il potere di interdizione di cui godono, significa illudersi.

Allora, che senso ha aspettare che si consumino i mesi e gli anni da qui al 2011? Solo perché all’opposizione c’è un vuoto evidente, di idee politiche, di attrazione coalizionale, di programmi? Ma questo, paradossalmente, contribuirà sempre di più a sfilacciare la coalizione di centrosinistra e a rendere l’Unione ancor più un ossimoro. Così si rischia di cadere in una sorta di “trappola della fiducia”, nel senso in cui si parla di “trappola della liquidità”: quando si perde la prospettiva, si vive alla giornata, si cerca solo di proteggersi. Nel caso della liquidità, è quello che è successo, in tempi più recenti, in Giappone: non essendo riusciti ad abbattere i privilegi corporativi e i vincoli relazionali, ci hanno messo 15 anni a uscire (forse) dalla stagnazione. Dalla “grande depressione” della fiducia e delle aspettative si esce solo con un grande progetto: ci vuole una sorta di Tennessee Valley delle istituzioni.

L’impotenza decisionale da una parte, e il vuoto politico dall’altra, non si spiegano usando le categorie dei buoni e dei cattivi, non sono il prezzo che la “virtù” paga al “vizio”. Sono la conseguenza di fatti strutturali che risalgono a tempi lontani: il parlamentarismo esasperato, che riducendo il potere del Governo lascia crescere quello di interdizione dei corpi intermedi (sindacati, corporazioni, magistratura), non si risolve cambiando lo schieramento in campo o acquistando qualche superstar. La sinistra lo imparerà, prima o poi, “the hard way”. La destra forse si illude che una cavalcata elettorale a forza di spot e comizi di successo possa evitarle la resa dei conti. Eppure, passati gli anni, prescritti alcuni trascorsi, anche agli interessi dovrebbero schiudersi orizzonti diversi, radicati nella storia anziché nella cronaca. Dare al Paese assetti istituzionali che ci consentano un futuro migliore può essere più soddisfacente degli applausi a un comizio, e dell’eccitazione per una vittoria elettorale.

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