I veri numeri del Piano Juncker

dicembre 23, 2014


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Era di 300 miliardi il piano per finanziare investimenti nei paesi dell’Europa quando l’allora candidato presidente della Commissione europea, Jean Claude Juncker, l’aveva presentato al Parlamento di Strasburgo, guadagnandosi la perentoria indicazione al Consiglio d’Europa di nominarlo. È diventato di 315 un mese fa quando la Commissione l’ha presentato. Potrebbe crescere ancora se i singoli Stati investissero anche loro nello strumento. «The sky’s the limit»: ma quanto solide sono le fondamenta di questo grattacielo finanziario?

I 315 miliardi di euro sono il risultato della moltiplicazione di 21 per 15,21 essendo i miliardi di dotazione del fondo, 15 il numero di miliardi di risparmio privato che la Bei si propone di raccogliere per ogni miliardo che essa investe. La credibilità del piano sta tutta nella credibilità di questi due numeri.

Incominciamo dai 21: 5 miliardi vengono dalle riserve della Bei, i restanti 16 dall’European Fund for Strategic Investment (EFSI), creato apposta dall’Unione europea. Che ci ha conferito 8 miliardi di soldi freschi e 8 presi a prestito sul mercato con garanzia dell’Ue. Ma di questi 8 a essere veramente freschi sono soltanto 2, presi direttamente dal bilancio dell’Ue; gli altri 6 sono spostati da altri programmi europei (3,3 dalla Connecting Europe Facility, 2,7 dalla 2007 Horizon Facility). La leva quindi è doppia, di 1:2 sui soldi della Ue, di 1:15 sul totale che la Bei è chiamata a gestire.

Ma sono soldi nuovi? No per i 6 presi da altri programmi europei, che erano stati stanziati per fare investimenti collimanti con quelli del Piano Juncker, e che potrebbero essere finanziati con lo stesso meccanismo: essi vanno moltiplicati per 2 (leva della Commissione ) e ancora per 15 (leva della Bei). Totale 180: da levare al “valore aggiunto” del piano Juncker, che quindi è di 135, non di 315 miliardi.

Inoltre a essere precisi bisognerebbe sottrarre anche i 5 miliardi che provengono dalle riserve della Bei. Se potevano essere utilizzate senza mettere a repentaglio la tripla AAA, perché non è stato fatto prima?

La Bei, il più grande prestatore multilaterale del mondo, ha un rating AAA. Perché non lo perda, i fondi dell’EFSI sono junior rispetto agli altri. Cioè chi compera i bond di uno degli investimenti che la Bei proporrà in Public Private Partnership sanno che, se ci saranno perdite, le prime saranno assorbite da EFSI.

E adesso il 15: è realistico aspettarsi di raccogliere danaro fresco con una leva di 15?

Dipende dal cash flow atteso: le autostrade ne generano in misura abbastanza costante e prevedibile (salvo sorprese, come per ora sulla BreBeMi, dove la Bei ha investito 100 milioni, la CDP 760, contro 655 dei privati veri: ben aldisotto di 15 volte!), un po’ meno le ferrovie. Il piano Juncker si rivela dunque in sostanza come un altro finanziamento di infrastrutture di trasporti?

Ci saranno abbastanza progetti finanziabili con questo strumento? Attualmente la Bei ha in corso poco più di 80 progetti in Public Private Partnership in Europa, per un totale di circa 15 miliardi, di cui in Italia poche diecine di milioni (probabilmente la citata BreBeMi). Bisognerà trovare altri progetti che abbiano le caratteristiche adatte: non lo sarà di sicuro la messa in sicurezza delle scuole, un tema giustamente molto caro al presidente del Consiglio, Matteo Renzi, perché le scuole non producono cash, quindi neppure cash flow. In ogni caso non c’è da attendersi che i soldi arrivino rapidamente: la Bei è tradizionalmente molto attenta, e quindi anche non affrettata nell’avviare progetti. Mantenere la AAA ha i suoi costi.

Il presidente Jean Claude Juncker ha invitato i governi a investire direttamente in EFSI, promettendo che la Commissione avrebbe esaminato con occhio benevolo i bilanci dei Paesi che l’avessero fatto. La frase è stata decrittata nel senso che la somma investita in EFSI non sarebbe entrata nel debito ai fini di Maastricht, ed è stata vista come un primo passo verso l’introduzione della golden rule generalizzata alla totalità degli investimenti: alimentando in alcuni la speranza di abbattere il fortino, in altri la determinazione a difenderlo. Certo che la prospettiva di aumentare il debito di 10 miliardi e di averne 150 da spendere in infrastrutture sarebbe estremamente allettante. Ma il problema è quali sarebbero i progetti che presentino un cash flow che li sostenga e un profilo di rischio da giustificare una leva di 15 volte?

Quello che è certo è che quei soldi non potranno essere usati per “risolvere altre potenziali situazioni come quella di Taranto” di cui ha parlato il presidente Renzi: per quello non c’è che la vecchia, cara, buona Cassa depositi e prestiti, se necessario «rendendola adatta». Altro che Bei!

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