I mercati non credono più ai governi e alle loro regole

ottobre 7, 2008


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Dopo un settimana di fuoco, i rimedi messi in atto da governi e banche non hanno tranquillizzato i mercati, e quella nuova è cominciata con un’altra giornata nera in Borsa. Ci vogliono nuove regole, si dice: senza rendersi conto che l’affermazione, che si vorrebbe confortante, è in realtà problematica. Dire che ci vogliono nuove regole equivale a dire che quelle esistenti sono sbagliate. E se sono sbagliate, allora a sbagliare sono stati quelli che le hanno scritte.

E siccome poi alla fine tutto ha conseguenze sulla “taxation”, e quindi implicano la responsabilità della “representation”, a scriverle devono essere i politici. Se i politici precedenti hanno scritto regole sbagliate, perché quelli nuovi dovrebbero scriverle giuste? Né gli uni né gli altri hanno la sfera di cristallo, non dispongono di tutte le informazioni che sono disperse nel sistema economico. Consigliabile ripassarsi un po’ di Hayek, quello di “The Use of Knowledge in Society”, sul calcolo economico, da cui deriva la legge delle conseguenze inintenzionali. Le regole inevitabilmente distorcono il mercato, tanto più quanto meno sono di carattere generale, introducono discontinuità che offrono agli operatori la possibilità di arbitraggi. La crisi attuale è deriva anche da arbitraggi resi possibili proprio da regole di cui hanno approfittato alla grande le banche di investimento. Ma ai politici non si può dire “silete”, anzi da loro si chiede di parlare e di agire. Si possono però indicare gli argomenti che portano fuori strada, e di cui quindi sarebbe conveniente tacere. A titolo di esempio: il “greed” e la “speculazione”.

“Only the paranoids survive” diceva Andy Grove. Dove corre la demarcazione tra il fondatore di Intel e l’ex presidente di Lehman? Tra ricerca di profitto e greed? È questione di modica quantità? Greed, si dice, sono i bonus milionari con cui escono CEO cacciati per i disastri che hanno combinato. Certamente c’è da dubitare della saggezza di piani di ingaggio che non tengono in considerazione la durata nel tempo del risultati raggiunti: ma la responsabilità, più che dei manager, è degli azionisti, e sono questi che (in alcuni casi) stanno pagando per le loro scelte sconsiderate. Una dozzina di CEO milionari saranno dati in pasto alle tricoteuses di turno: ma dopo, che si vuol fare, regolare per legge i bonus in aziende private? L’alternativa al perseguimento della shareholder value l’abbiamo conosciuta, e non si rimpiange il lassismo nelle decisioni di investimento, il gigantismo industriale per ingraziarsi i sindacati, l’uso spudorato dei fringe benefits, la filantropia e il mecenatismo fatti dagli “strong managers” ai danni di “weak owners”, come recita il titolo del ben noto libro di Marc Roe. Il greed è stato reso possibile dalla ridotta la percezione del rischio. Dietro l’uso di leve finanziarie spropositate c’era la presunzione del “too big to fail”, la convinzione che lo Stato sarebbe intervenuto a salvare se le cose fossero andate male, l’azzardo morale indotto dai precedenti interventi dello stato: il salvataggio di LTCM nel 1998, le decisioni di Greenspan per sorreggere Wall Street, il fatto che le prime a fare mutui subprime fossero due società semipubbliche con l’implicita garanzia del Tesoro. E come gli interventi più recenti da Northern Rock e Bear Sterns in avanti hanno confermato.

Quando ci sono crolli e fallimenti, gli “speculatori” a cui si dà la colpa sono quelli che vendono allo scoperto: una persecuzione che dura da 400 anni. In realtà gli shortist attaccando i titoli il cui prezzi si discosta eccessivamente dai fondamentali, operano proprio nella direzione di forare le bolle prima che esse si diffondano su larga scala. Se i ribassisti fossero riusciti a mettere in difficoltà Fanny Mae un anno fa, probabilmente questa crisi non si sarebbe verificata.

La crisi produce reazioni populiste, richiesta di punizioni, di controlli. Che chi sbaglia paghi, è il principio su cui si basa il capitalismo. Ma questo principio ha una prima parte che recita che ciascuno è libero di intraprendere e di cercare di realizzare i propri piani, purché non mentisca e non rubi. Compito dei politici è attuare il principio di responsabilità, ma senza intaccare il principio di libertà: perché questo è il solo su cui possiamo contare per riprendere a crescere. E sarà solo la crescita che porterà fuori da questo disastro. L’America riprenderà a crescere e che nel giro di 4 o 5 anni, uscirà dalla conseguenze di questa crisi di sfiducia nel credito. La cultura liberale è parte dell’identità americana, é improbabile che vi si possa esportare un’IRI alla Beneduce. È da noi, dove è nata, che c’è il pericolo che si riproduca.

Il politico ha più potere di giuristi e di economisti, ma non ha più conoscenze di loro: a volte ha solo le loro. Non è questa l’occasione per rivincite ideologiche. Come non esistono modelli economici che garantiscano la fine del ciclo economico, la crescita continua senza inflazione, allo stesso modo, e per la stessa ragione, non esistono regole che impediscano il verificarsi di eventi imprevisti. Quello della ubris, parola che Giulio Tremonti ricorda essere greca e non inglese, è un pericolo a cui sono esposti non solo gli economisti.

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