di Francesco Pacifico.
«Freedom» scatena polemiche e divide i lettori: scettici ed entusiasti. Ecco le loro ragioni.
Jonathan Franzen torna nelle librerie americane con un nuovo romanzo, Freedom, a un decennio dal successo delle Correzioni, e in America si formano due fronti rumorosi di detrattori e sostenitori, mentre «Time» gli dedica una copertina, come a uno scrittore non capitava dal 2000. Il libro è troppo coinvolgente per rivelarne le trame multiple e intrecciate – si parte comunque dal binomio letterario americano di famiglia disfunzionale e tardo capitalismo già affrontato nelle Correzioni – ma voglio lasciare ai due fronti in lotta il compito di illustrare pregi e difetti.
I sostenitori ritengono che Franzen sia il nuovo Tolstoj e abbia salvato la letteratura americana con un grande romanzo che parla dei Temi Importanti con una passione e una competenza irreperibili in altri scrittori della nuova generazione. Sveliamo alcuni di questi temi in ordine sparso (ossia l’unico ordine consentito, perché Franzen è talmente bravo, fin dal primo paragrafo, a confondere le acque per non essere prevedibile, che svelare anche solo parte della trama sarebbe fargli torto): gli appalti privati per la guerra in Iraq; il basket universitario; il plagio come componente base dell’amicizia e dell’amore; l’impegno civile e i sogni delusi dei progressisti; uccellini in via di estinzione; psicanalisi; punk cocainomani; lobbysti; l’ascesa dei neocon nell’America post 11 settembre (anche in versione giovani universitari repubblicani spietati); una ragazza-madre; gli svantaggi pratici della democrazia; come sfrattare e trasferire operai da una regione a un’altra assicurando loro nuovi posti di lavoro. Di ognuna di queste cose Franzen scrive come fosse il tema della sua vita. Secondo chi ha amato Freedom, il libro parla al cuore tramite le crisi e i sogni dei suoi personaggi e tramite i lunghi archi narrativi per i quali i personaggi scoprono l’esatta estensione della propria libertà; ma parla anche ai cervelli di noi cittadini occidentali paralizzati dalla complessità, rivelandoci gerghi, regole e meccanismi di tanti sottomondi che hanno un impatto indiretto sulla nostra vita.
I detrattori pensano invece che il caso Franzen sia troppo bello per essere vero: in realtà l’autore rappresenterebbe il sogno dei letterati newyorchesi, bianchi, middleclass, di conservare rilevanza culturale in un mondo in cui forse contano e interessano ormai più il funzionamento della criminalità organizzata internazionale e il destino del sottoproletariato cinese che le crisi coniugali dei quartieri residenziali americani. Sul «Guardian» si è scritto che Freedom si sforza di essere un romanzo universale ma non fa che raccontare l’ormai frusta commedia da soggiorno, con i grandi pianti, le separazioni, i figli adolescenti, il generale rimbambimento degli americani e l’involgarimento dei costumi…
Ho letto l’edizione americana (seicento pagine) d’un fiato, rinunciando a diverse ore di sonno nel corso di un’intensa settimana, ma prima di consigliarlo a scatola chiusa devo dire due cose. Primo: la verità del libro sta non tanto a metà strada quanto nella somma tra la reazione entusiasta dei sostenitori e le riserve stizzite dei detrattori: sono due opinioni estreme e il libro per ora le merita entrambe finché i suoi temi non andranno fuori moda e si potrà giudicare la vera tenuta strutturale ed emotiva e linguistica dell’opera. Secondo: il libro è forse prevedibile nei suoi temi ma non nella loro organizzazione, dunque è una lettura avvincente, che darà molte soddisfazioni a molti lettori, tuttavia lo sconsiglio a una certa categoria di lettori: c’è chi da un autore contemporaneo di alto livello si aspetta un rapporto viscerale dell’autore con il linguaggio, i suoi giochi, le sue trappole, le sue potenzialità, le sue magie. La storia del romanzo ci ha portati nel regno dell’iperrealismo e del narratore inaffidabile, della lingua come eccitazione, promessa, pure delirio. A questa componente, giustapposta agli interessi politici e sociali, si deve la fortuna di 2666 di Roberto Bolaño, per esempio. Ma un romanzo di realismo sociale che – pur facendone un uso elegante e complesso – dà la lingua per scontata come se lo strumento con cui comunichiamo non incidesse pesantemente su cosa comunichiamo non può dare soddisfazione a chi ama la piega che ha preso la grande letteratura nel Novecento.
Franzen, per scelta esplicita, e più decisamente qui che nelle Correzioni, che era ancora nettamente influenzato dalle sperimentazioni di Don DeLillo e dell’amico David Foster Wallace, sceglie una lingua quasi invisibile per offrire tutto il contenuto possibile al maggior numero possibile di lettori. Sceglie di tornare indietro nel tempo: a quando le parole coincidevano con gli oggetti che descrivevano e dunque i fatti erano più potenti dei toni di voce dell’autore. È per questo che suona strano dire che Franzen sia il più grande scrittore americano: la grandezza assoluta non è mai venuta dal portare indietro le lancette dell’orologio, ma dal portarle avanti, dove nessuno era ancora stato. Si può dire che Franzen è il nuovo Tolstoj, ma di Nabokov non si poté mai dire che fosse il nuovo Gogol’: sarebbe stato offensivo per Nabokov, che era nuovo. Lo scopo per cui Franzen manda indietro l’orologio del genere romanzo, secondo me, è vincere la battaglia contro la nuova grande forma d’arte del nostro tempo: la serie televisiva di alta qualità, che ha già capolavori assodati in Six Feet Under, Sopranos, Mad Men e The Wire, opere di sorprendente complessità, varietà e generosità narrativa, umana e tematica, di largo consumo. Sembra che Franzen voglia dire: il romanzo può riprendersi quel ruolo di forza narrativa imbattibile. E se anche non lo volesse dire, è ciò che fa il suo complesso, appassionato, irresistibile romanzo.
La grande forza delle serie tv, per come si sta sviluppando oggi, sta nel lavoro di squadra degli autori, che, nei casi migliori, fornisce allo spettatore due grandi gioie: una narrazione complessa quanto a gestione dei fatti, delle informazioni, delle sottotrame; e una autentica eterogeneità e polifonia di personaggi, nati e sviluppati da sensibilità diverse che si fondono nella sceneggiatura. Franzen, un uomo solo chiuso nel suo studio, riesce a competere quanto a conoscenza e precisione e abbondanza; anche se, forse, a forza di cercare dentro di sé una matrice emotiva dei tanti eventi narrati, rende un po’ troppo omogenee le traiettorie di caduta e redenzione dei personaggi sul finale. In ogni caso, letto un romanzo così riuscito e di un’intelligenza che mette paura e invidia, viene da chiedersi che cosa può sperare di ottenere la letteratura nel suo rapporto con i nostri tempi: questo libro ha rinunciato all’eredità di modernismo e postmoderno ma non all’intelligenza e al talento, e questo è il risultato: un’attenzione meritata, una promessa di rilevanza culturale. Cosa accadrà quest’autunno, per dire, a due scrittori come Rick Moody e Gary Shteyngart, fra i più apprezzati sperimentatori di lingua e temi in America, i cui nuovi romanzi, The Four Fingers of Death e Super Sad True Love Story, sono usciti contemporaneamente a Freedom, e quali conclusioni dovranno trarre dal fenomeno Franzen?
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