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Venezia, 10 maggio 2016







Milano, 12 maggio 2016

Il rebus (irrisolto) della politica industriale




Guarda il podcast della presentazione di Milano: Di Vico, Giavazzi, Prodi, Garavoglia – ma anche Romiti e Tronchetti Provera – e naturalmente l’autore col suo libro!





Torino, 16 maggio 2016







Roma, 24 maggio 2016



Guarda le foto della presentazione del libro di Franco Debenedetti a Roma, 24 maggio 2016






Vicenza, 09 giugno 2016

I Libri di Città Impresa







Torino, 13 giugno 2016







Bari, 30 giugno 2016





Rassegna Stampa


Franco Debenedetti questa sera a Bari


dalla redazione, 30 giugno 2016

Si presenta oggi a Bari, alle 19.30 al Circolo della Vela, (sede Margherita, ingresso libero), il libro «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» (Marsilio ed.), un saggio sullo Stato imprenditore in un’analisi critica di Franco Debenedetti.

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Politica industriale impresa a perdere


di Leonardo Petrocelli, 2 luglio 2016

«Qualcuno dovrebbe spiegarmi in virtù di cosa lo Stato potrebbe organizzare una buona politica industriale. Ditemelo, perché io non l’ho mai capito». S’inizia da qui, da un durissimo affondo che non concede spazio a deroghe e mediazioni, il ragionamento di Franco Debenedetti, già senatore in quota Pds e Ulivo, attuale presidente dell’Istituto «Bruno Leoni», nonché autore del volume Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio).

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Roma, 5 luglio 2016





Rassegna Stampa


Aiuto, all’Antitrust c’è Debenedetti


dalla redazione, 06 luglio 2016

Nella prestigiosa sede romana dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per tutti Antitrust, in genere si presentano pubblicazioni istituzionali. Stavolta invece l’Authority guidata da Giuseppe Pitruzzella ha deciso di ospitare la presentazione dell’ultimo volume di Franco Debenedetti, ex parlamentare e soprattutto fratello di Carlo De Benedetti (staccato, perché gli piace così), numero uno del gruppo Espresso-Repubblica: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti è il titolo del volume edito da Marsilio.

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Napoli, 6 luglio 2016





Rassegna Stampa


Debenedetti, un liberista nella città statalista


di Marco Demarco, 06 luglio 2016

Ha scritto un libro contro l’«insana idea» della politica industriale, intesa sia come prassi sia come ideologia («Scegliere i vincitori, salvare i perdenti», Marsilio editore). E oggi Franco Debenedetti ha anche l’ardire di venire a presentarlo a Napoli. L’appuntamento è alle 18 a Palazzo Partanna con Ambrogio Prezioso, Antonio Bassolino, Paolo Cirino Pomicino e Antonio D’Amato. Perché l’ardire? Perché pure essendo Napoli la città di Croce e del pensiero liberale, qui di liberismo economico se n’è sempre masticato molto poco. E quasi mai in pubblico: sarebbe un po’ come professarsi juventini in curva B al San Paolo.

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Stato o mercato? Contano le regole


di Simona Brandolini, 07 luglio 2016

Metti un liberista dichiarato, un comunista, un democristiano e due industriali intorno allo stesso tavolo. Tre su quattro diranno, in modi diversi e punzecchiandosi, che serve alla fine “più Stato e più mercato”. E due su quattro non lesineranno critiche al Presidente del Consiglio. A Palazzo Partanna, sede dell’Unione Industriali, accolto dal Presidente Ambrogio Prezioso, Franco Debenedetti presenta il suo “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, con Antonio Bassolino, Paolo Cirino Pomicino e Antonio D’Amato, moderati da Marco Demarco.

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Debenedetti: la politica industriale non serve lo dimostrano i fallimenti dei gruppi pubblici


di Sergio Governale, 7 luglio 2016

Mps è il tipico esempio dei mali italiani, in cui il legame tra politica e imprese in questo caso una banca ha finito per produrre danni al sistema economico, come scarsa competitività e maggiori oneri a carico dei contribuenti. Così Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, che ieri a Napoli ha presentato all’Unione industriali il libro «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti».

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Il Capitalismo nella Prima Repubblica nel libro di Debenedetti


dalle redazione, 07 luglio 2016

La politica industriale? Un’idea insana”. A dirlo, e a scriverlo in un libro appena uscito intitolato “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” è Franco Debenedetti, imprenditore dall’azienda di famiglia, alla Fiat, dall’Olivetti, alla Sasib; poi senatore per il Pds e l’Ulivo dal 1994 e il 2006, autore di numerose pubblicazioni su temi economici e politici.
Nel suo libro, presentato all’Unione industriale di Napoli, parla dei partiti della Prima Repubblica e della loro idea di “capitalismo delle partecipazioni statali, delle privatizzazioni degli anni ’90, e delle aziende che non erano private, anche se privatizzate, come Telecom, e del governo Renzi”.

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Cortina, 29 luglio 2016







Lodi, 05 settembre 2016





Rassegna Stampa


Gli errori della politica industriale, a Lodi il nuovo volto di Forza Italia


di Federico Gaudenzi, 06 settembre 2016

Un’idea trasversale agli schieramenti politici e ai ceti sociali, l’idea che l’economia di uno Stato necessiti di una politica industriale. Questo il concetto che Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, cerca di sradicare con il suo “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, presentato ieri sera all’appuntamento di Lodi Liberale insieme a Stefano Parisi, manager, ex-direttore di Confindustria e volto nuovo del centreodestra nazionale.

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Parisi inaugura gli incontri di Lodi Liberale


di Carla Parisi, 06 settembre 2016

È iniziato ieri sera in Sala Granata, davanti a un folto pubblico e con due relatori d’eccezione, il nuovo ciclo di incontri dell’associazione Lodi Liberlae. Il tema affrontato è stato quello della politica industriale, sulla quale sia Franco Debenedetti, autore di “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, sia Stefano Parisi, manager e candidato sindaco alle passate elezioni di Milano, hanno espresso un’opinione molto chiara: l’intervento dello Stato nelle decisioni prese dalle industrie è da considerarsi un atteggiamento dannoso per la crescita economica ed è necessario superare tutte le resistenze del caso per superare questa mentalità.

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L’iniziativa privata corre più velocemente dei governi


di Associazione Lodi Liberale, 12 settembre 2016

Caro Direttore, lunedì 5 settembre sono riprese le nostre serate con la presentazione del libro di Franco Debenedetti “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” insieme all’autore e Stefano Parisi. Non più tardi di qualche giorno prima, la mezzobusto di un importante TG nazionale annunciava, con fiducioso compiacimento, l’intenzione del governo di stimolare la ripresa del sistema Italia destinando fondi pubblici ad investimenti “di qualità”.

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Brescia, 05 ottobre 2016





Rassegna Stampa


Debenedetti: “Così la politica industriale è divenuta insana”


di Camilla Facchini, 10 ottobre 2016

Le partecipazioni statali: una buona idea che si è incancrenita, in un Stato sostituendosi al mercato

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Alessandria, 11 ottobre 2016







Università degli Studi di Bergamo, 26 ottobre 2016







Padova, 28 ottobre 2016





Rassegna Stampa


“Lo Stato faccia il suo dovere non il mercato”


di Nicolò Menniti-Ippolito, 26 ottobre 2016

Franco Debenedetti è stato molte cose nella sua vita. Ha lavorato nell’azienda di famiglia, un’aziendina di meno di 100 dipendenti diventata la Gilardini, una piccola conglomerata quotata in Borsa; successivamente alla Fiat, direttore del settore Componenti; alla Olivetti, amministratore delegato per 14 anni; e poi ha fondato aziende innovative, per tre legislature ha fatto il senatore, Progressisti, Ulivo, DS. Ha assistito, insomma, da una posizione privilegiata a 60 anni di politica italiana. Ma accanto all’esperienza diretta c’è la passione per lo studio, la voglia di dire in pubblico le sue idee, e oggi lo fa come Presidente dell’Istituto Bruno Leoni, oltre che i suoi interventi sui giornali e coi suoi libri.
L’ultimo di intitola “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” (Marsilio, pp.336, 18 euro) e come recita il sottotitolo, si occupa di “L’insana idea della politica industriale”.

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Fare industria con i soldi di tutti


di Antonio Polito, 31 marzo 2016

«Anche nelle maggiori ristrettezze, i denari del pubblico si trovano sempre, per impiegarli a sproposito». Alessandro Manzoni conosceva così bene il nostro carattere nazionale (tendiamo facilmente a dimenticare che il denaro pubblico è nostro), da meritarsi la citazione d’apertura nel nuovo libro di Franco Debenedetti, vera e propria biografia di un’idea (anzi, di «un’insana idea», come è definita nel sottotitolo). L’idea è quella della «politica industriale», e cioè di una «politica in cui l’attività industriale è svolta più o meno direttamente dal potere pubblico», che ha percorso la storia d’Italia da Giolitti a Renzi, e che ancora oggi resta popolare sia nel senso comune di molti italiani sia nella prassi di tanti politici. La convinzione insomma che tocchi allo Stato “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” della competizione economica (come nel titolo del volume in libreria da oggi per Marsilio).

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Il ministero dello sviluppo è da chiudere


di Alberto Mingardi, 4 aprile 2016

Dimesso un Papa se ne fa un altro: figurarsi un ministro. Uscita di scena Federica Guidi, l’interim a Renzi sarà breve, guai a restare senza un «ministro dello Sviluppo Economico».Ma davvero?
Se guardiamo ai tassi di crescita degli ultimi vent’anni, il «ministro dello Sviluppo» parrebbe la più comica delle figure. Lasciamo al lettore di passare in rassegna nome e cognome degli ultimi, per dire, cinque affittuari del dicastero. Tutti specialisti ferratissimi nella convocazione di tavoli di lavoro. Lo «sviluppo economico», però, è «non pervenuto» o poco ci manca.
Più che sostituire il ministro, allora, servirebbe un po’ di realismo: chiudiamo il ministero.

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Sviluppo economico: serve un ministero che distribuisce soltanto sussidi inutili?


di Francesco Giavazzi, 4 aprile 2016

Davvero serve un ministro per lo sviluppo economico? Una volta si chiamava ministro dell’industria. Il ruolo fu occupato da personaggi di grande autorevolezza, da Romano Prodi a Giuseppe Guarino. Era il fulcro della «politica industriale» del governo, il luogo dove si dirigeva, meglio ci si illudeva di dirigere, la strategia industriale del Paese. Una «idea insana» come l’ha ben definita Franco Debenedetti nel suo libro recente (Scegliere in vincitori, salvare i perdenti, Marsilio). Poi cambiò nome, ma le illusioni non vennero meno. «Diciamo chiaro e tondo che chi rifiuta il termine politica industriale è un disfattista», disse il primo ministro per lo sviluppo economico, Pier Luigi Bersani.

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Franco De Benedetti ci ricorda il giustizialismo, quando «il controllo di legalità diventa controllo di virtù e il pm un eroe e un educatore»


di Diego Gabutti, 7 aprile 2016

Non è per abbattere il capitalismo, né per correggerlo, ma nell’illusione d’essere il capitalismo vero, il solo equo e giusto, che la «politica industriale» italiana ha messo il mercato alla gogna per quasi un secolo, da Mussolini fino a tempi recenti (anzi fino a oggi, con tentacoli che già frugano nel prossimo futuro). Fenomeno globale, l’«idea insana» che la politica, meglio del mercato, meglio cioè delle persone che interagiscono tra loro esplorando tutte le possibili strade della produzione, della creatività e della convivenza, possa organizzare l’economia della nazione attraverso un sistema «arzigogolato» di premi e punizioni è un’idea che ha avuto successo soprattutto in Italia, dove a dispetto delle disgrazie che ci ha tirato addosso, dal debito pubblico alle culture del cartellino da timbrare in mutande, è diventata senso comune.

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Franco Debenedetti: la politica industriale è la rovina dell’Italia


di Francesco Cancellato, 8 aprile 2016

«La politica industriale? Un’idea insana». A dirlo, e a scriverlo in un libro appena uscito intitolato “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» (Marsilio) è Franco Debenedetti, uno che ne sa qualcosa. Dall’azienda di famiglia, alla Gilardini, alla Fiat, all’Olivetti, alla Sasib; poi senatore per il Pds e l’Ulivo dal 1994 e il 2006, autore di numerose pubblicazioni su temi economici e politici, Debenedetti è uno che ne ha viste parecchie. E nel suo libro, ne ha per tutti. Per i partiti della prima repubblica e per la loro idea di «capitalismo delle partecipazioni statali». Per la stagione delle privatizzazioni degli anni ’90, e per quelle aziende «che non erano private, anche se privatizzate», come Telecom. Soprattutto, per quel che accade oggi e per il governo Renzi «che in realtà non vuole privatizzare un bel nulla». In sintesi, per la caratteristica tutta italiana di pensare all’economia come un affare di Stato, quella che causa guai come quello che ha coinvolto il ministro Guidi: «Se il governo ha dei poteri d’intervento molto pesanti sul modo di condurre business, ogni cosa può diventare scivolosa», dice a Linkiesta.

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Esiste una politica industriale?


di Giuseppe Pennisi, 10 aprile 2016

Per pura coincidenza temporale, il saggio di Franco Debenedetti (Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea di una politica industriale, Marsilio, pp. 335 €18) esce proprio mentre, da un lato, le cronache politiche e giudiziarie trattano di episodi (veri e presunti) di intervento pubblico particolaristico nella politica industriale e, da un altro, del Documento di Economia e Finanza (DEF) e del Programma Nazionale di Riforma (PNR) impongono a Governo e Parlamento di porsi la domanda profonda e inquietante nella copertina del volume: è “insana” l’idea stessa di politica industriale?

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Stato padrone e politica industriale


di Marco Panara, 11 aprile 2016

Lo Stato padrone non è più la soluzione, e secondo alcuni forse non avrebbe mai dovuto esserlo. Anche se viene da chiedersi se lasciando fare solo ai privati avremmo avuto le autostrade e le linee ad alta velocità, l’Eni, una produzione siderurgica in grado di sostenere l’industria metalmeccanica, una non marginale presenza nell’aeronautica, nella difesa e nello spazio.

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Debenedetti o i miti rudimentali dell’inesistente uomo economico


di Giorgio Meletti, 20 aprile 2016

Franco Debenedetti è nato nel 1933, come l’Iri. Dopo 83 anni poliedrici – figlio di un industriale, ingegnere nucleare, manager nelle aziende di famiglia e non solo, senatore dell’Ulivo – scrive un’appassionata invettiva contro il gemello putativo, l’Iri appunto, che incarna “l’insana idea della politica industriale”.

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L’appassionata e documentata cavalcata di una vita, di Franco Debenedetti, contro il suo mortale nemico: la politica industriale


di Riccardo Ruggieri, 22 aprile 2016

«Scegliere i vincitori, salvare i perdenti» è un libro di Franco Debenedetti (complimenti a Marsilio per averlo pubblicato). Essendo Franco amico da sempre mi è vietato recensirlo (l’ha già fatto su questo giornale, da par suo, Diego Gabutti) ma parlarvi di lui e del suo libro posso, visto che mi cita pure. Immagino che questo, fra i molti, sia il libro della vita, il taglio e la struttura del racconto sono tipicamente anglosassoni, ma i fondamentali dell’autore sono svizzeri tedeschi (ha studiato a Lucerna), di più, Franco appartiene alla prima covata di ingegneri del Politecnico di Torino a specializzazione elettronica, ingegneristico è il suo rigore.

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Politica industriale, l’insana idea dello Stato padrone


di Nicola Porro, 24 aprile 2016

Una delle idee ricorrenti di chi ci governa e caratterizza il pensiero diffuso di chi viene governato, è che in Italia manchi una politica industriale.
In quanti salotti, trasmissioni televisive o sedute da bar avete sentito questo binomio magico? Politica industriale. Ecco, se in un aspetto si può dire che Gramsci abbia vinto è quello di aver sostituito un’egemonia culturale borghese (tutta da dimostrare) con quella collettivistica.

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Stato imprenditore o mercato, una questione da Unione Europea


di Antonio Galdo, 26 aprile 2016

La politica industriale ha quasi un secolo di vita, in Italia risale al 1930, e da allora non si è mai spento il fuoco della dicotomia Stato-mercato, mano pubblica e mano privata, a proposito dell’economia da sviluppare nel Paese. Sicuramente fu il fascismo, come ricorda nel suo libro “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” (edizioni Marsilio) Franco Debenedetti, a introdurre l’idea dello Stato imprenditore.

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Quella pia illusione chiamata politica industriale.


di Gemma Mantovani, 29 aprile 2016

Nostra Signora la Politica Industriale: ce la immaginiamo un po’ come una di quelle madonne barocche portate in processione sulle spalle dai nostri politici sudati ed ansimanti, una “Madonna del petrolio” che porta addosso un gran numero di monili e gioielli che i fedeli ringraziano con ex voto, a testimonianza di una grazia esaudita.
È questa l’immagine della politica industriale che ci ha evocato il bellissimo libro di Franco Debenedetti Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio, pp. 336, euro 18).

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Gli indecisi della mano (in)visibile


di Giorgio Barba Navaretti, 8 maggio 2016

«La capacità del mercato di autoregolarsi sembra ancora meritevole di fiducia», anche nei misteriosi e nuovi scenari del mondo digitale, perché la tecnologia, «dacché c’è storia» ha sempre «rimescolato le carte per nuove mani in giochi nuovi». La domanda ultima e ovvia del liberista, che si chiede «da noi quanto ha pesato la prevalenza/presenza dello Stato in economia nel limitare orizzonti, frenare entusiasmi, cercare convenienze, ergere difese?» ha però una risposta inattesa, tutt’altro che banale: «A mancare paradossalmente è proprio la fiducia nello Stato, nella sua capacità di garantire che il mercato funzioni correttamente, che a tutti sia assicurato accedervi e a nessuno precluso dal permanere di posizioni di rendita».
In questi estratti dal nuovo libro di Franco Debenedetti c’è forse la sintesi migliore della complessità del suo pensiero.

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Di cosa parliamo quando parliamo di politica industriale. Gutgeld su banda larga, CdP, liberalizzazioni e “un’insana idea”


di Marco Valerio Lo Prete, 11 maggio

“Nella storia d’Italia, la politica industriale non è stata sempre e comunque ‘un’insana idea’, ma certo oggi deve diventare innanzitutto ‘una politica per l’industria, che favorisca l’insieme delle imprese e l’insieme delle produzioni, cioè le condizioni del fare impresa’”. Con queste due diverse citazioni del libro “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, Yoram Gutgeld, in una conversazione con il Foglio, segna prima la distanza maggiore e subito dopo la principale affinità di vedute con Franco Debenedetti, l’autore del saggio appena pubblicato da Marsilio.

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Il virus dirigista delle classi dirigenti italiane, capitalisti inclusi


di Stefano Cingolani, 11 maggio

Il guaio dell’economia italiana è che i privati non si sono dimostrati molto migliori dello stato. Il libro lo racconta in modo
chiaro e sono contento che Franco Debenedetti lo abbia messo in rilievo”. Francesco Giavazzi, economista ed editorialista del Corriere della Sera, risponde da Chicago dove insegna per tutto quest’anno accademico alla richiesta di commentare l’“insana idea della politica industriale”, uno strumento che il professore, autore insieme al collega di Harvard Alberto Alesina di un pamphlet molto efficace e di successo come “Il liberismo è di sinistra”, ha sempre criticato a fondo. A suo avviso la vera anomalia italiana rispetto ad altri paesi europei nei quali pure lo stato interviene direttamente o indirettamente, per lo più con esiti contraddittori se non negativi (la Francia colbertista, la Germania consociativa, la Gran Bretagna laburista prima della svolta thatcheriana), è proprio la debolezza del capitalismo privato.

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Ci furono privilegi e distorsioni, vero. Ma prima del 1969 anche sviluppo


di Guido Pescosolido, 11 maggio 2016

C’è nello sviluppo economico italiano dall’Unità a oggi, e in particolare nella sua industrializzazione e deindustrializzazione, qualcosa di stupefacente e di grandioso, nel bene e nel male, nell’alternanza di successi e insuccessi, nella crescita e nella decrescita.

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Debenedetti: “Politiche industriali il peccato originale dell’Italia”


di Martina Zambin, 11 maggio 2016

Acuminato, a tratti quasi teso ma sempre cavalleresco. E soprattutto avvincente. Questa l’istantanea del duello intellettuale andato in scena martedì sera all’Ateneo Veneto fra Franco Debenedetti, politico ed economista, autore nel recente saggio Scegliere i vincitori, salvare i perdenti. L’insana idea della politica industriale (Marsilio), e Paolo Baratta, presidente della Biennale, già Ministro delle partecipazioni statali, ministro dell’Industria, dei Lavori pubblici e dell’Ambiente. A moderare l’incontro il direttore del Corriere del Veneto Alessandro Russello, che ha pungolato sia Debenedetti chiedendogli il perché di un titolo tanto particolare, sia Baratta che ha difeso appassionatamente il proprio rifiuto nell’utilizzare proprio la definizione scelta dall’amico Debenedetti «politiche industriali».

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Vincitori e perdenti. La politica industriale secondo Debenedetti


di E.T., 11 maggio 2016

“Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”. È il titolo provocatorio del libro dell’ingegner Franco Debenedetti (Marsilio edizioni) presentato ieri all’Ateneo. Con esso, l’ingegner Debenedetti, dal 1978 al ’92 amministratore delegato dell’Olivetti e poi senatore per tre legislature mette sotto accusa il sistema della politica industriale del nostro Paese, in particolare dal dopoguerra ad oggi, a forte impronta statalista.

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Lo Stato leggero di Franco Debenedetti


di Alessandro Barbera, 23 maggio 2016

Se fossi un Millennial e mi trovassi in libreria a sfogliare Scegliere i vincitori, salvare i perdenti (Marsilio, euro 18 pp. 336), sarei probabilmente tentato da altro. Alzi la mano chi conosce, fra i nati dopo i Novanta, qualcuno in grado di raccontare cosa fossero l’Iri e la politica industriale. Oggi Facebook, Linkedln e Twitter hanno trent’anni in tre e capitalizzano 850 miliardi di dollari. L’Ilva di anni ne ha più di cinquanta, è ancora una delle più grandi acciaierie d’Europa eppure non vale più del prezzo pagato da Zuckerberg per comprarsi Instagram. Invece gli ottantatré anni di Franco Debenedetti sono senza prezzo: ingegnere, dipendente delle aziende di famiglia, manager Fiat, amministratore delegato di Olivetti e Sasib, Senatore della Repubblica, presidente dell’Istituto Bruno Leoni.

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Tra luci e ombre c’era una volta la politica industriale


di Marco Panara, 24 maggio 2016

In qualche modo l’Italia è ancora una potenza industriale e, se ci si guarda indietro, c’è da esserne un po’ stupiti scorrendo la lista interminabile degli errori e dei difetti, degli opportunismi e degli ideologismi. La storia dell’industria italiana nell’ultimo secolo è una matassa ingarbugliata che si può in qualche modo dipanare scegliendo uno dei tanti fili. Franco Debenedetti, ingegnere per formazione, manager per professione, liberale e uomo di sinistra, ha scelto la politica industriale. Una chiave potente. La sua posizione dichiarata nel saggio “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti” ( Marsilio ) è che la politica industriale è una “insana idea”, non deve essere lo Stato a scegliere i vincitori e i perdenti, quello è un compito del mercato, e tanto meno lo Stato deve farsi imprenditore. Ma Debenedetti, che definisce l’industria pubblica «una metà del cielo» non risparmia neanche l’altra metà, quella privata: «Nostra peculiarità è l’inclinazione per incroci e intrecci tra i diversi potentati economici, la riluttanza ad adottare le forme di governance prevalenti altrove», scrive.

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I veri nemici della politica industriale


di Gianfranco Fabi, 6 giugno 2016

“Anche nelle maggiori strettezze i denari del pubblico si trovan sempre, per impiegarli a sproposito”. È una
citazione del XXVIII capitolo dei Promessi sposi che occupa la prima pagina del libro che Franco Debenedetti,
imprenditore, senatore, ora presidente dell’Istituto Bruno Leoni, ha dedicato alla politica industriale. Una
citazione che sintetizza nella maniera più efficace la parabola dell’intervento dello Stato nell’economia negli
ultimi ottant’anni. “Siamo quasi coetanei”, afferma subito Debenedetti: “Lei, la politica industriale, del 1930, io
del 1933″, e l’autore fa subito capire di essere molto più in forma, nonostante gli ottant’anni e passa, di quella
vecchietta che conduce una vita di stenti, spesso evocata, ma sempre meno efficace, anzi molto spesso dannosa.
In questo libro si ripercorrono quindi le vicende che hanno accompagnato l’economia italiana soprattutto
nell’ottica dell’intervento dello Stato e della sua pretesa di indirizzare, sostenere, premiare settori particolari
dell’economia ritenuti strategici per le più varie ragioni, con in primo piano comunque quella di difendere
l’occupazione ed evitare i licenziamenti.

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Più industria meno politica


di Dario Pregnolato, 8 giugno 2016

Industria e politica. Sono i due percorsi di Franco Debenedetti, imprenditore e manager, politico ed editorialista. «Un vasto curriculum semovente», l’ha definito Giuliano Ferrara. Debenedetti, 83 anni, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, è stato per 35 anni figura di spicco del mondo industriale. Laureato nel 1956 in Ingegneria elettrotecnica al Politecnico di Torino, Debenedetti esordisce nell’azienda di famiglia fondata dal padre Rodolfo, la Compagnia Italiana tubi Metallici Flessibili, che diventerà la Gilardini. Poi la cavalcata nelle grandi multinazionali: la Fiat, dopo l’uscita di suo fratello Carlo, e la Olivetti di Adriano.

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Stato moderno, statalismo, economia di mercato


di Agostino Carrino, luglio 2016

Non c’è bisogno di condividere tutto l’impianto morale di questo libro o la filosofia economica liberista che lo sostiene – Debenedetti è non a caso Presidente dell’Istituto Bruno Leoni – per apprezzarne la bontà e, soprattutto, l’utilità ai fini di una riflessione più approfondita sulle vicende italiane, politiche ed economiche, specialmente a partire dal dopoguerra fino ad oggi.
Per troppo tempo le posizioni ideali cui Debenedetti si richiama sono state non solo e non tanto minoritarie, ma, di fatto, semplicemente considerate quelle perdenti rispetto al progressivo e fulgido andamento della storia, dominata dalle certezze di un pensiero che, legato con le masse, avrebbe aperto i cancelli di un progresso senza fine.

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Debenedetti, un liberista nella città statalista


di Marco Demarco, 06 luglio 2016

Ha scritto un libro contro l’«insana idea» della politica industriale, intesa sia come prassi sia come ideologia («Scegliere i vincitori, salvare i perdenti», Marsilio editore). E oggi Franco Debenedetti ha anche l’ardire di venire a presentarlo a Napoli. L’appuntamento è alle 18 a Palazzo Partanna con Ambrogio Prezioso, Antonio Bassolino, Paolo Cirino Pomicino e Antonio D’Amato. Perché l’ardire? Perché pure essendo Napoli la città di Croce e del pensiero liberale, qui di liberismo economico se n’è sempre masticato molto poco. E quasi mai in pubblico: sarebbe un po’ come professarsi juventini in curva B al San Paolo.

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Aiuto, all’Antitrust c’è Debenedetti


dalla redazione, 06 luglio 2016

Nella prestigiosa sede romana dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per tutti Antitrust, in genere si presentano pubblicazioni istituzionali. Stavolta invece l’Authority guidata da Giuseppe Pitruzzella ha deciso di ospitare la presentazione dell’ultimo volume di Franco Debenedetti, ex parlamentare e soprattutto fratello di Carlo De Benedetti (staccato, perché gli piace così), numero uno del gruppo Espresso-Repubblica: Scegliere i vincitori, salvare i perdenti è il titolo del volume edito da Marsilio.

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Stato o mercato? Contano le regole


di Simona Brandolini, 07 luglio 2016

Metti un liberista dichiarato, un comunista, un democristiano e due industriali intorno allo stesso tavolo. Tre su quattro diranno, in modi diversi e punzecchiandosi, che serve alla fine “più Stato e più mercato”. E due su quattro non lesineranno critiche al Presidente del Consiglio. A Palazzo Partanna, sede dell’Unione Industriali, accolto dal Presidente Ambrogio Prezioso, Franco Debenedetti presenta il suo “Scegliere i vincitori, salvare i perdenti”, con Antonio Bassolino, Paolo Cirino Pomicino e Antonio D’Amato, moderati da Marco Demarco.

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Debenedetti: la politica industriale non serve lo dimostrano i fallimenti dei gruppi pubblici


di Sergio Governale, 7 luglio 2016

Mps è il tipico esempio dei mali italiani, in cui il legame tra politica e imprese in questo caso una banca ha finito per produrre danni al sistema economico, come scarsa competitività e maggiori oneri a carico dei contribuenti. Così Franco Debenedetti, presidente dell’Istituto Bruno Leoni, che ieri a Napoli ha presentato all’Unione industriali il libro «Scegliere i vincitori, salvare i perdenti».

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→  maggio 14, 2016


articolo collegato di Sabino Cassese

Qualche giorno fa, l’amministratore delegato di un’impresa ha dichiarato trionfante di aver avuto le autorizzazioni per una importante opera di interesse collettivo solo in un anno e mezzo. Una recente ricerca Aspen ha dimostrato che su cittadini e imprese gravano vincoli molto maggiori di quelli strettamente necessari per proteggere la salute, l’ambiente, il territorio e gli altri beni collettivi. Sindaci di diversi partiti hanno dichiarato nei giorni scorsi che è impossibile amministrare, stretti come sono tra leggi invadenti e Procure aggressive. Perché è tanto difficile governare l’Italia? Perché è così basso il rendimento delle istituzioni?
La prima responsabilità è del Parlamento. Esso sconfina nell’area dell’amministrazione: troppe leggi, norme troppo lunghe e minuziose, che sono spesso atti amministrativi travestiti da leggi. A questo si aggiunge il sogno della norma autoap-plicativa, in cui si cullano governi colpiti dalla sindrome del sabotaggio burocratico, nell’illusione che, fatta la legge, ne sia assicurata l’attuazione. Di qui il circolo vizioso: si governa legiferando; si crede di aver deciso, ma, nella maggior parte dei casi, ci si è soltanto legati le mani, e si è costretti per ciò a ricorrere a un numero sempre crescente di leggi. Il corpo legislativo cresce, aumentano le frustrazioni e gli sconfinamenti legislativi nell’amministrazione, il Parlamento-legislatore trascura la sua altra funzione, quella di controllo del governo, il sistema va in blocco.
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Dall’altra parte, c’è il potere giudiziario: non vi è ormai decisione grande o piccola che non passi nelle mani di procuratori, giudici civili, giudici penali, giudici amministrativi. I primi si proclamano «magistratura costituzionale», investita del compito di «vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo». Giudici civili e penali con la lentezza delle loro decisioni rallentano il funzionamento del Paese. I giudici amministrativi — come è stato detto da più parti — «bloccano l’attività produttiva», senza nello stesso tempo fornire una guida a chi voglia districarsi nella selva delle norme e delle loro interpretazioni. Sopra ogni cosa, quello giudiziario è un corpo che corre verso la politica, più impegnato a fare dichiarazioni ai quotidiani che a scrivere sentenze.
Un acuto osservatore dei fenomeni amministrativi, Marco Cammelli, ha osservato che tutto questo provoca la marginalizzazione dell’amministrazione. Quest’ultima è stretta in una tenaglia. Da una parte, ha un legislativo che prende decisioni amministrative in veste di leggi, per saltare la dimensione amministrativa. Dall’altra, è intimorita o frustrata dalle tante voci del potere giudiziario, dinanzi al quale anche chi dovrebbe controllare dall’interno cede le armi. A questo si è aggiunto il sospetto della corruzione, la diffidenza che ciò ha creato nell’opinione pubblica e la formazione di una Procura anticorruzione «in prima linea contro ogni tipo di ingiustizia» (sono parole del nostro presidente del Consiglio dei ministri). Da ultimo, l’amministrazione si è impoverita: pochi investimenti, personale scelto male dai politici di vertice e non per concorso, carriere dominate dai governi, strutture e procedure arcaiche.
Le modificazioni della costituzione materiale che ho descritto, e dell’equilibrio tra i tre poteri dello Stato, stanno producendo guasti gravi nei rapporti tra poteri pubblici e società. I primi si legittimano non solo attraverso elezioni, ma anche per la loro capacità di svolgere il proprio compito al servizio della seconda. Il fossato che divide popolo e Stato non si colma solo con le elezioni. La democrazia del voto non basta. Occorre anche poter dimostrare, con l’efficacia dell’azione pubblica, che lo Stato è al servizio del cittadino.

→  maggio 11, 2016


Intervista di Liana Milella a Roberto Scarpinato

“Se non capisci come funziona il gioco grande… sarai giocato”. Il procuratore generale di Palermo Roberto Scarpinato, toga famosa per le sue indagini sulla mafia, è convinto che i magistrati “debbano” esprimersi sul referendum non solo perché “è un nostro diritto “, ma per la futura valenza che la riforma comporta.

Il vice presidente del Csm Legnini (e altri con lui) dice che i magistrati non devono impegnarsi nella campagna referendaria perché finirebbero nella contesa politica. Che ne pensa?
“Mi permetto di dissentire. Forse a tanti non è sufficientemente chiaro quale sia la reale posta in gioco che travalica di molto la mera contingenza politica. A mio parere siamo dinanzi a uno spartiacque storico tra un prima e un dopo nel modo di essere dello Stato, della società e dello stesso ruolo della magistratura. Nulla è destinato a essere come prima”.

Cosa potrebbe cambiare nel futuro rispetto al passato?
“A proposito del passato mi consenta di partire da una testimonianza personale. Tanti anni fa ho deciso di lasciare il mio lavoro di dirigente della Banca d’Italia e di entrare in magistratura perché ero innamorato della promessa-scommessa contenuta nella Costituzione del 1948 alla quale ho giurato fedeltà “.

E quale sarebbe questa “promessa-scommessa “?
“Quella scritta nell’articolo 3 di “rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del paese”. Era uno straordinario programma di lotta alle ingiustizie e un invito a innamorarsi del destino degli altri. La Repubblica si impegnava a porre fine a una secolare storia nazionale che Sciascia e Salvemini avevano definito “di servi e padroni” perché sino ad allora intessuta di disuguaglianze e sopraffazioni che avevano avuto il loro acme nel fascismo e nella disfatta della seconda guerra mondiale”.

Sì, però l’attuale riforma costituzionale si occupa solo della seconda parte della Costituzione e lascia intatta la prima sui diritti. Cosa la turba lo stesso?
“La seconda parte è strettamente funzionale alla prima. Proprio per evitare che la promessa costituzionale restasse un libro dei sogni e per impedire che il pendolo della storia tornasse indietro a causa delle pulsioni autoritarie della parte più retriva della classe dirigente e del ritardo culturale delle masse, i padri costituenti concepirono nella seconda parte della Costituzione una complessa architettura istituzionale di impianto antioligarchico basata sulla centralità del Parlamento e sul reciproco bilanciamento dei poteri”.

E perché tutto questo coinvolgerebbe le toghe? Realizzare la promessa non era compito della politica?
“All’interno di questo disegno veniva affidato alla magistratura il ruolo strategico di vigilare sulla lealtà costituzionale delle contingenti maggioranze politiche di governo”.

Un’affermazione forte… Ma di quale vigilanza parla?
“I giudici, tra più interpretazioni possibili della legge ordinaria, devono privilegiare quella conforme alla Costituzione e, se ciò non è possibile, devono “processare la legge”, cioè sottoporla al vaglio della Consulta. La magistratura italiana quindi è una “magistratura costituzionale” e, in quanto tale, la sua fedeltà alla legge costituzionale è prioritaria rispetto a legge ordinaria. È una rivoluzione copernicana del rapporto tra politica e legge di tale portata che a tutt’oggi non è stata ancora metabolizzata da buona parte della classe politica che continua a lamentare che la magistratura intralcia la governabilità sovrapponendosi alla volontà del Parlamento”.

Con la riforma Renzi questo equilibrio potrebbe saltare?
“Alcune parti di questa riforma si iscrivono in un trend più complesso. Oggi tutto ciò rischia di restare solo una storia terminale della prima Repubblica, perché quello che Giovanni Falcone chiamava “il gioco grande”, si è riavviato su basi completamente nuove. Alla fine del secolo scorso, a seguito di fenomeni di portata storica e mondiale, sono completamente mutati i rapporti di forza sociali macrosistemici che furono alla base del compromesso liberal-democratico trasfuso nella Costituzione del 1948. Lo scioglimento del coatto matrimonio di interessi tra liberismo e democrazia ha messo in libertà gli “animal spirits” del primo che ha individuato nelle Costituzioni post fasciste del centro Europa una camicia di forza di cui liberarsi”.

Un attimo: cosa si sarebbe rimesso in moto?
“Si è avviato un complesso e sofisticato processo di reingegnerizzazione oligarchica del potere che si declina a livello sovranazionale e nazionale lungo due direttrici. La prima è quella di sovrapporre i principi cardini del liberismo a quelli costituzionali trasfondendo i primi in trattati internazionali e trasferendoli poi nelle costituzioni nazionali. Esempio tipico è l’articolo 81 della Costituzione che imponendo l’obbligo del pareggio di bilancio impedisce il finanziamento in deficit dello Stato sociale e trasforma i diritti assoluti sanciti nella prima parte della Costituzione in diritti relativi, cioè subordinati a discrezionali politiche di bilancio imposte da organi sovranazionali spesso di tipo informale e privi di legittimazione democratica. La seconda direttrice consiste nel trasferimento dei centri decisionali strategici negli esecutivi nazionali incardinati ad esecutivi sovranazionali, declassando i Parlamenti a organi di ratifica delle decisioni governative e sganciandoli dai territori tramite la selezione del personale parlamentare per cooptazione elitaria grazie a leggi elettorali ad hoc. Il gioco dialettico tra maggioranza- minoranza viene disinnescato grazie a premi di maggioranza tali da condannare le forze di opposizione all’impotenza”.

Questo è uno scenario politico. Perché ciò dovrebbe interessare la magistratura?
“Se muta la Costituzione, cioè la Supernorma che condiziona tutte le altre, rischia di cambiare di riflesso anche la giurisdizione. La magistratura già oggi è sempre più spesso chiamata a farsi carico della cosiddetta legalità sostenibile, cioè della subordinazione dei diritti alle esigenze dei mercati, e quindi delle forze che governano i mercati. L’articolo 81 della Costituzione ha costituzionalizzato il principio della legalità sostenibile che si avvia a divenire una norma di sistema baricentrica del processo di ricostituzionalizzazione in corso. La conformazione culturale della magistratura al nuovo corso potrà essere agevolata dalla possibilità di minoranze, trasformate artificialmente in maggioranze grazie al combinato disposto dell’Italicum e di alcune delle nuove norme costituzionali, di selezionare i giudici della Consulta e la componente laica del Csm”.

Cosa direbbe a un giovane magistrato oggi indeciso se impegnarsi nella campagna referendaria?
“Che se non capisci come funziona il gioco grande, sarai giocato. Da amministratore di giustizia rischi di trasformarti inconsapevolmente in amministratore di ingiustizia”.

→  maggio 6, 2016


by Gillian Tett

A few years ago I was at a conference discussing the woes of the single European currency, when a central bank official reached into his pocket and flung a euro note on the table. “That’s what’s wrong with Europe,” he declared, pointing to the crumpled piece of paper. “It’s just windows and bridges!”

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→  aprile 11, 2016

Intervista di Stefano Carli a Tommaso Pompei

“La scommessa di dotare il paese di una infrastruttura di rete a banda ultra larga, in fibra ottica fino alle case degli utenti, e anche, ovviamente, fino ad ogni singola piccola impresa e laboratorio artigiano è partita. Ed Enel Open Fiber ha numeri, asset competenze e risorse per coprire l’intero paese in tempi brevi. Perché questa scommessa si vince solo nel momento in cui il 100% del paese sarà coperto: le 224 città che copriremo entro tre anni valgono il 48% del pil italiano. E le aree a fallimento di mercato, i cluster C e D, per cui parteciperà alle gare, ne rappresentano un altro 24%. Vuol dire che in tre anni doteremo di connessioni in fibra le imprese che producono i tre quarti della nostra ricchezza”.

Tommaso Pompei, ad di Open Fiber, ancora per un po’ di mesi 100% Enel, è appena tornato dalla conferenza stampa in cui il premier Matteo Renzi ha presentato la sponsorizzazione ufficiale del governo del piano Enel con lo slogan “Banda ultralarga ovunque”, ribadendo gli obiettivi del 100% di popolazione italiana connessa a 30 mega e il 50% almeno a 100 mega entro il 2020. Open Fiber svilupperà quindi la sua rete nelle aree di mercato, e nelle aree a fallimento di mercato, le cosiddette aree bianche dei cluster C e D. Nelle prime attiverà negli anni un investimento complessivo stimato in 2,5 miliardi di euro. Nelle seconde parteciperà alle gare che assegneranno la realizzazione
e la gestione, attingendo a fondi pubblici per 4,9 miliardi. Ma per questi bisognerà attendere che le gare stesse siano bandite e Renzi ha promesso che il quadro completo, con le regole e i primi bandi verranno presentati il prossimo 29 aprile. I tempi sembra si stiano accorciando. E sarebbe il momento visti i ritardi accumulati fin qui. Poi si dovrà attendere che le reti siano via via completate.

Ci vorrà molto?
“Abbiamo un progetto pilota a Perugia dove entro maggio allacceremo i primi 50 utenti – spiega Pompei -. I lavori sull’intera città partiranno a settembre, assieme a quelli delle altre 4 città del primo blocco che abbiamo annunciato giovedì scorso: Cagliari, Bari, Catania e Venezia. Poi progressivamente le altre 219 città che ci siamo impegnati a coprire entro tre anni. Nei nostri piani in una città da 200 mila abitanti contiamo di poter passare in 8 mesi dall’apertura del cantiere all’offerta della fibra agli operatori. E voglio sottolineare che noi consideriamo “coperta” una città non già con poche connessioni, come spesso oggi si usa fare, ma quandoavremo effettivamente collegato l’80% degli utenti”.

Tempi ravvicinati: su cosa basate lacertezza di riuscirci?
“Sul fatto che Enel ci fornisce tre pilastri strategici. Il primo è la capillarità della sua infrastruttura elettrica, con un milione di punti di distribuzione all’interno dei quali potremo articolare la nuova rete. Il secondo è rappresentato dalle sinergie attivabili nella gestione e manutenzione delle due infrastrutture. Il terzo è la possibilità di arrivare fino ai contatori elettrici delle utenze. Oggi le linee telefoniche sono circa 20 milioni. Le utenze elettriche il doppio: 33 milioni di contatori Enel più altri 6 milioni delle altre utility dell’energia. Colgo l’occasione per ribadire però che le sinergie sono solo di carattere organizzativo e operativo e derivano unicamente dalla concomitanza delle due attività. La posa della fibra da parte di Enel Open Fiber non sarà in alcun modo finanziata dalla remunerazione stabilita dall’Autorità per la sostituzione dei contatori elettronici, svolta da Enel Distribuzione. Si tratta di due attività totalmente separate, senza alcun rischio di sussidi incrociati, come recentemente chiarito nettamente dall’Autorità per l’Energia”.

Avete già contattato le altre utility per invitarle a partecipare all’iniziativa?
“Non ancora ufficialmente, siamo nella fase di avvio del progetto ed è stato un lavoro duro, ma sanno che la porta è aperta. Tornando ai tempi, abbiamo analizzato il territorio, abbiamo fatto, per così dire, dei carotaggi in 38 città di diversa tipologia, geografica, ambientale, urbanistica, economica e ora abbiamo un quadro completo di quello che ci troveremo ad affrontare”.

Avete quindi un quadro chiaro di tutte le possibili sinergie con la rete elettrica. Quanta parte ne potrete utilizzare?
“In estrema sintesi possiamo dire che non utilizzeremo certo tutto il potenziale dei 450 mila armadi elettrici, pensiamo ce ne serviranno più o meno una metà. Questo anche grazie al fatto che la fibra ha una portata maggiore in termini di distanza rispetto al rame. Se sulla rete in rame il segnale perde di qualità oltre i due chilometri di distanza dell’utente finale dalla centrale, con la fibra arriviamo a 40 chilometri. Questo semplifica molto il lavoro e le opere nella cosiddetta rete secondaria, quella dell’ultimo miglio fino ai palazzi. Poi con la rete “verticale” porteremo la fibra dalla base del palazzo alle case degli utenti. Nella rete primaria collegheremo in fibra tutti gli armadi che utilizzeremo e collegheremo questi alla rete primaria di Telecom Italia, quella dove sono le loro centrali e quelle dove sono attestati i concorrenti, da Vodafone a Wind, a Fastweb”.

Poserete molta fibra. Quanti scavi ex novo dovrete fare?
“Diciamo che dove abbiamo i pali della rete aerea l’utilizzabilità dell’infrastruttura elettrica è al 100%. Nel caso delle linee interrate, siamo invece al 20%, come media generale. Dato tutto questo, l’impatto della rete elettrica sulla realizzazione della rete in fibra, in termini di minori costi delle opere civili, si concretizza in uno “sconto” del 30% circa rispetto ai costi medi. E le opere civili sono gran parte dei 2,5 miliardi di investimento programmato per le 224 città. Più o meno tutto quello che resta dopo aver speso circa 350 milioni in hardware, e altri 200 in software, gli impianti di rete. Sulla velocità di realizzazione pesa poi, in positivo, anche il fatto che completata la rete questa sarà subito in grado di produrre ricavi grazie all’accordo con Wind e Vodafone. Che è pronto: le firme ufficiali arriveranno in pochi giorni ma abbiamo già messo a punto tutti i dettagli che contano: tempi di consegna, standard di servizio, modalità di gestione e anche i prezzi. Che però ora non posso rivelare”.

Seguiranno accordi anche con Telecom, Fastweb e altri?
“Sì. O meglio, noi siamo aperti. E abbiamo contatti con tutti gli operatori tlc, inclusa Telecom, almeno fino al recente cambio di management. Con Fastweb stiamo parlando non solo di accordi commerciali ma anche di integrazione con la loro rete: si potrebbe arrivare ad utilizzarne segmenti più o meno estesi. E poi sappiamo che ci sono altri operatori interessati, da Tiscali agli operatori che oggi offrono accessi a banda larga fissa ma con connessione radio, come nel caso del wi-max o delle hyperlan: tutti assieme i “piccoli” valgono l’11% degli utenti” .

Con Telecom sarete concorrenti, ma cosa succederà di fatto? Oggi le regole impongono di non scavare due volte nella stessa strada. Quindi dovrebbe accadere che voi possiate chiedere di passare nei cavidotti di Telecom e viceversa, Telecom nei vostri. Un po’ come avviene nell’accordo tra la stessa Telecom e Fastweb.
“Chiariamo bene: non siamo in concorrenza né con Telecom, né con alcun altro operatore, anzi proponiamo loro una infrastruttura che tutti possono utilizzare. Comunque le modalità sul mutuo utilizzo dei cavidotti sono regolate, anche se non credo sia una questione che si porrà subito nei primi mesi” .

Si riprende a parlare di scorporo delle rete Telecom. Come potrebbe inserirsi in questo scenario?
“E’ un vecchio tema, sul quale non abbiamo alcuna voce in capitolo, ma che ha visto sinora contrario il management ed il board di Telecom stessa. Piuttosto va posto ora un tema che dovrà prima o poi trovare una nuova sistemazione: tutto l’impianto regolamentare del settore è tagliato su misura su un modello di operatore telefonico integrato verticalmente, possiede le reti e vende servizi agli utenti. Noi non venderemo mai connessione agli utenti finali”.

Capitolo soci: l’ad di Enel Starace ha parlato dell’ingresso di nuovi partner in Open Fiber già dopo l’estate.
“Presto per fare oggi dei nomi, posso solo dire che c’è una nutrita lista di candidati che si stanno facendo avanti”.

Compresi F2i e il Fondo Strategico della Cdp, ossia gli attuali proprietari di Metroweb?
“Si vedrà”.

Ma si può dire che in fondo Open Fiber è una Metroweb in grande?
“In gran parte si: ma puntiamo ad andare anche oltre. Noi non ci limiteremo a vendere solo fibra spenta, ma vorremmo aggiungere dei servizi, dell’intelligenza di rete. Andare dunque oltre la vendita del puro ‘tubo’. Intanto offriremo alle telco che compreranno la nostra fibra anche i servizi di hosting, ospiteremo i loro apparati di rete nelle nostre centrali. E poi stiamo pensando anche alla vendita di ‘fibra accesa’: porzioni virtuali di fibra. Anche con possibilità di ampiezza di banda differente e quindi diversificata per prezzo”.

Una banda ultralarga on demand, come il cloud?
“In sostanza sì: è un modo per abbattere ancora di più le barriere di ingresso a nuovi operatori e a nuovi servizi. E con il boom annunciato dell’internet delle cose e della sensoristica ci sarà bisogno proprio di questo”.