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→  gennaio 11, 2021


Il capitalismo è oggi sotto attacco, tra voci critiche che vorrebbero «resettarlo» e nuove forme di responsabilità sociale attribuite alle aziende. Che fare, allora?
«Ci sono altri sistemi per aumentare i salari minimi, per ridurre le emissioni, per modificare il finanziamento della politica: la certezza della legge e le iniziative delle democrazie». Franco Debenedetti, con il suo “Fare profitti: Etica dell’impresa” (Marsilio 2021), propone un viaggio al cuore dell’impresa per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia. Per leggere e affrontare i cambiamenti in atto, analizza la crisi della produttività, la tendenza al monopolio dei giganti del Web e le ricadute sulla politica, e riflette sul tema della diseguaglianza, tra classi sociali come tra vertici e dipendenti.

Sono intervenuti:
Michele Boldrin (professore di economia alla Washington University in St Louis)
Franco Debenedetti (presidente dell’Istituto Bruno Leoni)
Fiorella Kostoris (senior fellow della School of European Political Economy LUISS)
Coordina:
Serena Sileoni (vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni)

Durante il webinar è stato presentato il libro di Franco Debenedetti, “Fare profitti. Etica dell’impresa” (Marsilio, 2021).

→  gennaio 7, 2021


L’altruismo del profitto



di Dario Di Vico, 7 gennaio 2021

Un pamphlet pubblicato da Marsilio prende di mira Joe Biden, Papa Francesco e il «Financial Times». Franco Debenedetti: l’impresa genera benefici sociali solo se ripaga gli azionisti.

Se ne salvano pochi. Sotto le acuminate frecce di Franco Debenedetti e del suo Fare profitti, in uscita oggi dall’editore Marsilio, cadono uno dopo l’altro assoluti protagonisti del nostro tempo come Joe Biden e papa Francesco, prestigiose organizzazioni internazionali come la Business Roundtable e il forum di Davos, studiosi à la page come Branko Milanovic, un giornale bibbia del mercato come il «Financial Times» e non vengono risparmiati nemmeno mostri sacri del pensiero riformista come Anthony Atkinson e John Rawls. La loro colpa, il minimo comune denominatore che li porta alla condanna, è quella di fare rilevanti concessioni al populismo e allo statalismo, i due mali che affliggono l’economia contemporanea e che, se preesistevano largamente al virus, ora però si stanno servendo della pandemia per fare il pieno di potere e di consensi.

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Reset del capitalismo? Attenti, ci ha salvato



di Alberto Mingardi, 11 gennaio 2021

Dai vaccini alle piattaforme online: le imprese orientate al profitto hanno risposto “presente”

Le case farmaceutiche che hanno prodotto a tempo di record i vaccini, i fornitori di servizi digitali che ci hanno aiutato a lavorare da casa, le catene industriali che ci hanno permesso di continuare ad avere quello che ci serviva: tutti hanno agito secondo logiche di mercato e profitto. Quelle che molti dibattiti post pandemia vorrebbero «correggere» in nome del bene comune. Non è del tutto saggio.

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Profitti ed etica. I doveri dell’impresa secondo Debenedetti



di Giuseppe Pennisi, 18 gennaio 2021

“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio, è il nuovo libro dell’ingegnere Franco Debenedetti che dà spunti per una nuova linfa industriale che sembra persa nel nostro Paese. Un volume che il prof. Pennisi suggerisce di leggere insieme ad altri due scritti dagli economisti Ciocca e Zecchini, per completare un messaggio forte rivolto all’imprenditorialità italiana

Il nuovo saggio di Franco Debenedetti (“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio Editori, 2021, € 18) esce al momento giusto. In Italia si sta tentando di riprendere la via dello sviluppo che pare smarrita da vent’anni. Il documento che dovrebbe tracciarne la rotta (il Piano Nazionale di Rilancio e di Ripresa, Pnrr) è in ritardo; secondo economisti di varie “scuole” è lacunoso e carente.

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Le aziende e il mercato funzionano, giù le mani dal capitalismo



Estratto da “Fare profitti. Etica dell’impresa”, di Franco Debenedetti, Marsilio, 2021

È tornato di moda attribuire tutti i mali del mondo alla struttura delle imprese, tanto che si invoca un cambio di paradigma e uno stravolgimento della missione aziendale. Il nuovo saggio di Franco Debenedetti, edito da Marsilio, spiega perché queste critiche sono sbagliate

Il viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina mercoledì 18 settembre 2019, avesse preso la sua copia del «Financial Times», avrebbe strabuzzato gli occhi: a racchiuderla, una copertina giallo canarino recante un solo titolo, a caratteri cubitali, come l’ormai famoso Fate presto del «Sole 24 Ore», quando lo spread era a 575: Capitalism. Time for a reset.

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Le aziende e il mercato funzionano, giù le mani dal capitalismo



di Massimiliano Panarari, 22 gennaio 2021

Gli attacchi radicali al capitalismo – dice Franco Debenedetti – sono ciclici come le sue crisi. E oggi circolano in stile “contenuti virali”. L’imprenditore e saggista, che dell’elogio dell’economia del mercato ha fatto una ragione di vita, dedica quindi questo libro alla difesa delle imprese finanziarie. E lo fa prendendo ile mosse da uno dei “manifesti” intellettuali di quello che sarebbe diventato neoliberismo. Ovvero il famoso articolo di Milton Friedman, uscito nel 1970 sul New York Times Magazine, nel quale asseriva “l’unica vera responsabilità delle imprese è fare profitti”.

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Un capitalismo migliore esiste ed è quello che tutela l’ambiente ed investe nella sostenibilità



di Antonio Calabrò, 31 gennaio 2021

[...] Proprio grazie a riforme e cambiamenti, si può rilegittimare la cultura del mercat e fare vivere, appunto, un capitalismo migliore. Un dibattito aperto, quanto mai stimolante. Cui contribuisce, con scienza ed esperienza, Franco Debenedetti con il
nuovo libro per Marsilio, “Fare profitti – Etica dell’impresa” (pagg. 320, euro 18), per fare intendere che “perseguire gli utili, in un mondo sconvolto da crisi ambientali e pandemia” non sia affatto “immorale” ma invece “l’unica vera responsabilità delle imprese”. Debenedetti, uomo d’azienda, con esperienza politica, sostiene che la tendenza a voler “resettare il capitalismo” sia “la più grande battaglia ideologica dei nostri tempi”. Ricorda la lezione di Milton Friedman. E,

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Tutte le strade verso il capitalismo del futuro



di Antonio Calabrò, 31 gennaio 2021

[...] Consapevole dell’importanza dei temi ambientali e sociali, insiste che proprio per affrontarli siano necessarie imprese che diano battaglia per mercati aperti ed efficienti, limitando l’invadenza dei monopoli e abbiano come primato la creatività, l’innovazione, gli investimenti. I profitti, dunque.

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Il capitalismo non è un nemico (anche se c’è la pandemia)



di Giuseppe Colombo, 01 febbraio 2021

Nel saggio “Fare profitti” di Franco Debenedetti un’analisi sugli utili come ascensore sociale. E sui danni dello statalismo Covid

Se pensate che i buoni per eccellenza (leggere Papa Francesco) e i buoni del momento (il riferimento è al neo presidente degli Stati Uniti Joe Biden) possano salvarsi dalla penna arguta di Franco Debenedetti, allora siete costretti a premere il tasto “reset” prima di leggere il suo ultimo lavoro. Perché il saggio “Fare profitti. Etica dell’impresa” (Marsilio, pp.320) ha un’idea precisa e questa idea – il capitalismo è il capitalismo e le aziende devono fare profitti, sempre e comunque – viene portata avanti dall’inizio alla fine. E per arrivare al capolinea, per renderla credibile e soprattutto attuale oggi che la pandemia ha innalzato lo Stato imprenditore e guida a totem, compie una doppia operazione.

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Leggere allarga la vita



di Davide Giacalone, 01 febbraio 2021

Sono sicuro che molti leggeranno in queste pagine un’arringa pro liberismo o neoliberismo [...] io ci leggo una requisitoria contro l’ipocrisia.
C’è chi lo leggerà come un libro che si occupa di economia; io l’ho letto come un libro che si occupa di politica: Franco Debenedetti “Fare profitti. Etica dell’impresa” pubblicato da Marsilio nel 2021.

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Risposte liberali di sinistra agli ultimi difensori del neoliberismo



di Emauele Felice, 05 febbraio 2021

Il liberalismo è un’ideologia che nasce sui diritti dell’uomo. Diritti che nel tempo sono stati considerati in modo sempre più ampio e inclusivo: non più solo la vita, la sicurezza e la proprietà privata, come era nell’Ottocento, ma i diritti sociali, quelli civili di prima e poi di secondo generazione (la libertà di amare), quindi i diritti ambientali (che sono anche i diritti umani delle persone che vengono dopo di noi), fino ai cosiddetti diritti “allargati”, che coinvolgono le altre specie sensibili otre a quella umana. Su questa basi, il liberalismo si è contaminato pria con il pensiero democratico quindi, dopo la Seconda guerra mondiale, con il pensiero socialista riformista, più di recente anche con ambientalismo e movimenti per i diritti civili. L’intervento pubblico, attuato nell’ambito della democrazia liberale, è indispensabile per bilanciare fra loro i diversi diritti, che ovviamente possono confliggere.

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Il populismo sparirà davvero solo quando la politica tornerà a difendere il profitto



di Stefano Cingolani, 25 febbraio 2021

Perché la società per azioni resta l’elemento costitutivo della struttura granulare del capitalismo e della democrazia. Un libro di Franco Debenedetti

Con il tramonto del nazional-populismo anche il profitto ritrova il suo posto in società. Messa così, la soluzione è fin troppo facile. In realtà, si fa strada da anni, ben prima della pandemia, un nuovo paradigma basato su alcuni capisaldi: l’impresa non deve pensare ad arricchire solo gli azionisti, bensì la più ampia comunità, non gli shareholders, ma gli stakeholders; deve essere socialmente responsabile; deve avere una scopo più ampio, deve puntare sul lungo termine enon sul breve. Sono i pilastri di una nuova saggezza che si sta affermando non dall’esterno del sistema, ma dall’interno, non da chi rifiuta il capitalismo, ma da chi lo pratica, dalla grande finanza, dagli uomini che muovono colossali fortune, dai fondi di investimento, dalle gigantesche multinazionali. Quanto è solido questo modello? Quando è coerente e fino a che punto è praticabile? Franco Debenedetti si è messo a separare il grano dal loglio e nel suo libro “Fare profitti. Etica dell’impresa” appena pubblicato da Marsilio, rimette in discussione quello che rischia di diventare “il pensiero unico” dell’era post Covid.

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Il populismo sparirà davvero solo quando la politica tornerà a difendere il profitto



di Ernesto Auci, 26 febbraio 2021

Nel suo recente libro “Fare profitti – Etica dell’impresa”, edito da Marsilio, l’ex senatore della sinistra ed ex manager Franco Debenedetti sostiene che il compito di un’impresa non è quello di distribuire dividendi sociali ma di fare correttamente il mestiere di generatore di profitti

La crisi dei subprime nel 2008 e più ancora l’esplosione della pandemia del Covid hanno provocato un diffuso senso di sfiducia nei confronti del mercato, del capitalismo, del modo di operare delle grandi imprese. È diventato quasi un luogo comune criticare il mercato quale responsabile di eccessi speculativi ed incapace di autoregolarsi, contrariamente a quello che sostengono i liberisti. Si moltiplicano gli studi che invocano un cambiamento radicale del capitalismo, che secondo alcuni deve essere salvato dall’avidità degli stessi capitalisti e secondo altri imbrigliato da una più penetrante presenza dello Stato anche nella gestione diretta delle imprese. È stato in particolare messo sotto accusa quello che viene definito il “mito” basato sul famoso articolo di Milton Friedman del 1970, secondo il quale il fine esclusivo della società per azioni deve essere quello di creare profitti per i soci.

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Il Vangelo capitalista




Il Commento Politico, 27 febbraio 2021

Nella seconda lettera ai Tessalonicesi, San Paolo è al tempo stesso tacitiano e chiarissimo: Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Il messaggio è eloquente: occorre lavorare, intraprendere, fare quindi utili da impiegare anche tramite carità a favore di coloro che non possono lavorare, creare intraprese, generare quanto è necessario per sé e per la famiglia ed avere anche un sovrappiù da poter destinare ad altri meno privilegiati.
È bene ricordarlo a margine della pubblicazione del saggio di Franco Debenedetti Fare profitti – Etica dell’impresa (Marsilio, Venezia 2021), perché per decenni in Italia ha dominato una lettura dei Vangeli in chiave pauperista ed ultra-socialista che sembra voglia dare “un etica sociale” all’impresa, a prescindere dalla sua missione principale di “fare utili”.

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Viaggio alla scoperta della vera natura del business




di Alessandro De Nicola, 11 marzo 2021

«The business of business is business » , con questa frase icastica il Nobel Milton Friedman riassunse la missione delle imprese: fare affari, punto e basta. Il libro Fare profitti. Etica dell’impresa di Franco Debenedetti, imprenditore, parlamentare per tre legislature e oggi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, prende le mosse proprio dal famoso saggio di Friedman, pubblicato circa 50 anni fa il cui titolo era Le responsabilità sociale delle aziende consiste nel far crescere i profitti.

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Profitto, Dio del mercato, e l’eresia della responsabilità sociale (dimenticando Olivetti)




di Furio Colombo, 29 marzo 2021

Franco Debenedetti, imprenditore, investitore, colto e cauto conservatore e – per un periodo – senatore Pds-Ds, pubblica un libro (Fare profitti, etica dell’impresa, Marsilio Editore) che è come un manuale di navigazione.
Non offre norme, ma ambienta il lettore nei grandi e continui pericoli del mare e – come nei viaggi di Ulisse – delle sue seduzioni: l’imprenditore si deve far legare all’albero maestro della sua unica vocazione e missione, fare profitto, stando alla larga dalla contagiosa illusione secondo cui la ricchezza può tutto, anche invadere spazi vuoti e abbandonati dallo Stato, provvedendo a tutti i bisogni (salute, cultura)..

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Azionisti e stakeholder: la torta può crescere per tutti



di Fracesco Vella, 07 aprile 2021

[...] ci sono invece i critici di questa posizione, che difendono a spada tratta il paradigma del profitto e ritengono che quello che viene definito stakeholderism “sarebbe dannoso per shareholder, stakeholder e per la società tutta”, secondo le parole di Franco De Benedetti, che ha di recente pubblicato un volume, decisamente controcorrente e significativamente intitolato “Fare profitti. Etica dell’impresa”.

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L’etica del profitto. Confronto fra Marcello Messori e Franco Debenedetti



di Marcello Messoni e Franco Debenedetti, 10 maggio 2021

Parafrasando Milton Friedman, Franco Debenedetti sostiene che l’impresa capitalistica adempie al suo compito sociale e soddisfa i propri principi etici solo se persegue la massimizzazione del profitto. Di conseguenza il suo originale e articolato volume, Fare profitti. Etica dell’impresa (Marsilio: Venezia 2021), mira a provare la dominanza analitica e fattuale della cosiddetta shareholder value rispetto alla stakeholder value, ossia la dominanza del principio della massimizzazione del valore attuale per gli azionisti di ogni data impresa rispetto al principio della composizione fra i contrastanti interessi propri dell’eterogeneo insieme di quanti partecipano alla vita di quella stessa impresa. [...] (Messori)
[...] “Le clausole contrattuali – scrive Messori – lasciano un reddito residuo e quindi occorre definire una regola per l’attribuzione di tale residuo.” Ognuno dei contratti di cui consta l’impresa, anche se basato su una norma di legge, lascia un largo margine di interpretazione oltre che di integrazione, e non solo da parte del management. Pensiamo ai contratti nazionali del lavoro dipendente: sono le organizzazioni sindacali dei lavoratori ad opporsi ai contratti aziendali, anche se questi prevedono, oltre al salario fisso, una parte variabile legata alla produttività, che solo a livello aziendale può essere misurato con precisione e attribuito con giustizia. [...] (Debenedetti)

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Franco Debenedetti: capitalisti, non vergognatevi del profitto



di Stefano Lepri, 30 maggio 2021

Una stranezza italiana è che si discuta aspramente di neoliberismo in un Paese che i suoi Reagan e Thatcher non li ha avuti mai (Silvio Berlusconi per un po’ fece finta). La sinistra tende a dare del neoliberista a tutti gli avversari, compreso Matteo Salvini che proprio non c’entra. I neoliberisti veri, sapendo di essere pochi, reagiscono con vivacità all’assedio.
Franco Debenedetti, colto capitalista e manager, in passato aveva tentato di predicare alla sinistra le virtù del mercato, come senatore nelle liste del Pds dal 1994 al 2006; poi ha perso le speranze. Nel suo ultimo libro (Fare profitti. Etica dell’impresa, Marsilio, pp. 320, € 18) se la prende soprattutto con i capitalisti, esortandoli a non vergognarsi del profitto.

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“The business of business is business”



Sono intervenuti: Maria Pierdicchi, Alessandro De Nicola, Franco Debenedetti, Eric Ezechieli, Ugo Loeser, Stefano Micossi e Marco Ventoruzzo.
Apertura lavori: Alessandro De nicola


Stato e mercato. Intervista a Franco Debenedetti



di Lorenzo Benassi Roversi, 29 settembre 2021

Lorenzo Benassi Roversi intervista Franco Debenedetti su alcuni aspetti del dibattito politico ed economico attuale. In una situazione nella quale da più parti il liberismo è oggetto di critiche sotto molteplici punti di vista la posizione di un economista come Franco Debenedetti si pone invece a difesa di questo approccio. Per contribuire al dibattito e fornire elementi di valutazione al lettore, presentiamo, oltre a diverse voci critiche, anche il punto di vista di chi argomenta a favore di questo approccio economico e culturale. Questo dibattito assume particolare rilevanza in un momento in cui le necessità sanitarie dettate dalla pandemia e l’attesa dei fondi del PNRR riportano lo Stato e il suo ruolo economico al centro della scena. La visione di Debenedetti si concentra sul mercato, il cui dinamismo intrinseco sarebbe animato dalla ricerca del profitto. Quanto al rischio di un ruolo troppo invasivo dei poteri pubblici, emerge una visione meno negativa rispetto a precedenti occasioni.

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→  gennaio 7, 2021


di Dario Di Vico, 7 gennaio 2020

Un pamphlet pubblicato da Marsilio prende di mira Joe Biden, Papa Francesco e il «Financial Times». Franco Debenedetti: l’impresa genera benefici sociali solo se ripaga gli azionisti.

Se ne salvano pochi. Sotto le acuminate frecce di Franco Debenedetti e del suo Fare profitti, in uscita oggi dall’editore Marsilio, cadono uno dopo l’altro assoluti protagonisti del nostro tempo come Joe Biden e papa Francesco, prestigiose organizzazioni internazionali come la Business Roundtable e il forum di Davos, studiosi à la page come Branko Milanovic, un giornale bibbia del mercato come il «Financial Times» e non vengono risparmiati nemmeno mostri sacri del pensiero riformista come Anthony Atkinson e John Rawls. La loro colpa, il minimo comune denominatore che li porta alla condanna, è quella di fare rilevanti concessioni al populismo e allo statalismo, i due mali che affliggono l’economia contemporanea e che, se preesistevano largamente al virus, ora però si stanno servendo della pandemia per fare il pieno di potere e di consensi.

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→  aprile 22, 2020


di Franco Debenedetti, Fabrizio Davide, Francesco Vatalaro e Alessandro Vizzarri

L’idea della app sul modello Singapore non è male, ma il nostro stato è all’altezza? Dubbi e spunti

Il tracciamento dei contatti e l’analisi dei dati promette di essere uno strumento efficace nel contenimento della pandemia di coronavirus: il modello sviluppato a Singapore ha attirato l’attenzione per le sue proprietà che bilanciano efficacia e rispetto della privacy. Esso tuttavia, in Europa, richiede non solo adesione convinta dei cittadini ma anche coordinamento internazionale ed efficienza delle pubbliche amministrazioni nazionali.

La Commissione europea si è attivata per tempo e il 15 aprile ha pubblicato un documento di policy redatto da “e-Health network”, la rete che collega le autorità nazionali responsabili dell’assistenza sanitaria online, istituita ai sensi della direttiva 2011/24/UE. Nelle indicazioni che questa ha fornito sulle applicazioni mobili in supporto al contact tracing, al primo posto c’è l’interoperabilità delle soluzioni adottate. Anche in Italia dunque, sarebbe opportuno, senza pretesa di innovare, esaminare le tecnologie già in campo o in avanzato sviluppo e adottare quella con la maggiore probabilità di successo.

Il documento di Bruxelles ricorda che il 10 aprile Google e Apple hanno annunciato un’iniziativa congiunta di contact tracing che porterà nel mese di maggio al lancio di un applicativo che mira all’interoperabilità tra telefoni mobili Android e iOS, e nei prossimi mesi l’inserimento della funzionalità negli stessi sistemi operativi.
Ad ogni evidenza, si tratta di una soluzione che assicura universalità, evoluzione e manutenzione certa nel tempo. Entrambi i sistemi operativi già consentono, previo consenso, la localizzazione degli spostamenti tramite GPS, funzionalità indispensabile in questo caso e che il Garante della privacy nell’audizione alla Camera dei Deputati dell’8 aprile non ha escluso, purché impiegata nel rispetto dell’anonimato. Il suo impiego distribuito nei dispositivi d’utente, comunicando i dati volontariamente, consentirebbe la tracciatura immediatamente utilizzabile per la rivelazione dell’insorgenza di nuovi focolai di infezione.
Il Garante della privacy ha anche ricordato che, per l’efficacia, si stima occorra un’adesione minima del 60%, una percentuale altissima: anche per questo è necessario affidarsi ad una soluzione in sviluppo e di prevedibile alto grado di adozione. Avendo optato per la volontarietà dell’adesione, ciò potrebbe non bastare; si potrebbe pensare ad incentivi a carico dello Stato e a beneficio dei cittadini che la adottano, dai Giga di traffico dati, alle ricariche telefoniche, a partnership con i gestori telefonici e con imprese over-the-top.
Entro la fine aprile, se risulteranno positivi i chiarimenti che la Commissione ha richiesto a Google e Apple, si dovrebbe abbracciare questa soluzione, mettendo da parte quelle nazionali o regionali.

Sarebbe però un errore pensare che sia l’applicativo il “cuore” della soluzione. Per raggiungere lo scopo, individuare con tempestività da un lato le persone infette da inviare in quarantena, e dall’altro i potenziali contagiati per verificarne lo stato di salute, bisogna che esista e sia funzionante un sistema messo in campo in tempi brevi dal Servizio Sanitario Nazionale. Esso tra l’altro dipende dalla gestione dei tamponi, che sinora si è dimostrata problematica.

Serve una macchina organizzativa molto complessa, provvista di grande impegno umano unito a solida professionalità. La procedura di tracciamento dei contatti, come raccomanda l’agenzia di prevenzione europea ECDC, richiede che la lista dei contatti di una persona trovata positiva sia elaborata attentamente, senza che, ad esempio, vi siano invii automatici di messaggi. E’ richiesto un lavoro simile a quello investigativo, che riconcili il numero del telefono cellulare individuato automaticamente con la reale identità del contatto, verifichi l’attendibilità del dato e dia seguito con chiare istruzioni impartite a voce. Il tutto dovrà essere svolto da personale che ne ha l’autorità. Non sappiamo in che misura siano già state preparate le strutture del SSN atte a svolgere questo lavoro, che si aggiunge all’erogazione dei tamponi ed alla gestione degli isolamenti.

È un problema di processi, che non possono essere lasciati all’improvvisazione. Pensiamo solo al flusso che riguarda l’evento di un nuovo tampone positivo per un utente della app. La comunicazione di ogni nuovo caso positivo va inviata in tempo reale al gestore di servizio della app, il quale dovrà estrarre dal sistema la lista dei contatti del nuovo caso di infezione, il tutto nel rispetto di tutte le regole di protezione dei dati e dell’identità personale. Giacché i contatti della lista saranno persone che possono risiedere in tutto il territorio nazionale (o addirittura in altri paesi europei) il gestore deve indirizzare la comunicazione alla sola regione di competenza o meglio alla specifica ASL di competenza territoriale, per rendere più rapide le azioni successive.

Anche per l’alta complessità e la grande dimensione dei processi è necessario che la componente tecnologica sia acquisita da chi dà una assoluta garanzia del risultato, consentendo di concentrare tutti gli sforzi su ciò che si dovrà organizzare a livello nazionale e regionale.

→  giugno 22, 2018


Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Claudio Cerasa.

Al direttore.

Nella nostra vita non siamo mai stati adusi a sparare su persone o partiti in difficoltà ma questa regola aurea cessa quando è in gioco l’interesse nazionale. E’ infatti un interesse della Repubblica avere un sistema politico fatto di partiti che abbiano una vita democratica al proprio interno e un’autonomia di giudizio e decisioni svincolati da imposizioni esterne. Insomma un partito di donne ed uomini liberi in un Parlamento in cui deputati e senatori siano altrettanto liberi da vincoli di ogni genere. Questa è la democrazia liberale disegnata dalla nostra Carta costituzionale e vissuta da settant’anni di lotte iniziate con la resistenza e continuata contro il terrorismo brigatista e lo stragismo di destra oltre che naturalmente contro tutte le mafie. E’ questo il motivo per cui oggi parliamo del Movimento 5 stelle il cui livello autoritario lo abbiamo intravisto e descritto sin dalla sua nascita. Le vicende degli ultimi giorni gettano però un’ulteriore ombra lunga su di un partito che il voto popolare lo ha indicato come il partito di maggioranza relativa. Tralasciamo gli aspetti giudiziari che non ci competono e anche perché chiunque è innocente sino a sentenza passata in giudicato (lo ricordi il nuovo ministro della giustizia che sembra avere un occhio di riguardo verso una piccola minoranza di magistrati fondamentalisti e fuori dallo spirito e dalla lettera della nostra Costituzione). Quel che ci riguarda, invece, è la natura politica del partito di maggioranza relativa alla luce di quel che leggiamo dalle intercettazioni e dalle notizie di cronache. Un partito in cui il leader vero, quello che ha il consenso nel paese e cioè Beppe Grillo, è fuori dal Parlamento e privo di ruoli formali nella vita interna del partito salvo la funzione generica di garante che si trasforma però in vincoli di linea politica e di comportamenti cui devono attenersi i singoli parlamentari e tutti i rappresentanti nelle assemblee elettive. Insomma un ruolo autoritario senza se e senza ma come si usa dire. Da questo garante fuori da ogni controllo democratico il potere si trasferisce a una società a responsabilità limitata, la Casaleggio Associati, che ha messo al servizio del partito una piattaforma informatica e il cui amministratore delegato è l’esecutore della volontà del sommo garante. Entrambi decidono i ruoli dei singoli parlamentari e dei membri del governo trasferendo gli ordini al cosiddetto capo politico che nella sua dizione di capo evoca un autoritarismo antico sinora sconosciuto nel linguaggio repubblicano. Ma non è finita. Scopriamo ora, e ne siamo sconcertati, che un avvocato genovese, Luca Lanzalone, amico del sommo garante, non solo ha avuto il compito di scrivere lo statuto del partito di stampo leninista approvato senza che un fil di voce si levasse contro, ma è stata inviato a Roma da un lato per commissariare una sindaca eletta che si è lasciato dolcemente commissariare e poi per sovrintendere a un mare di nomine pubbliche fuori da ogni visibilità democratica e da ogni controllo politico. E non è un caso che mai come ora i parlamentari del Movimento cinque stelle sono portati a ubbidir tacendo e tacendo votare. Per dirla in breve il maggior partito del paese ha “esternalizzato” la gestione del potere democratico a personaggi fuori dal partito e fuori dal Parlamento. E se vale, e come vale, la proprietà transitiva, parte rilevante della gestione del potere della Repubblica è stato messo in mani non titolate, prive di ruoli formali e fuori da ogni controllo democratico sostanziale. A tutto ciò si sta, sottovoce, ribellando anche un piccolissimo gruppo di parlamentari grillini. E’ questo, dunque, il vero cambiamento che rischia di mutare nel profondo il profilo della nostra Repubblica avvelenando i pozzi della democrazia cianciando di utopie stellari di un governo della piazza virtuale con un clic personalizzato. Purtroppo si dimentica che in ogni tempo ed in ogni piazza la individualità di ciascuno si diluisce e si massifica in un unico impasto di voci alimentando così l’autoritarismo di tribuni della plebe che a loro volta mettono lentamente in soffitta le pratiche fondamentali della democrazia liberale lasciando spazi sempre maggiori a interessi oscuri e spesso intollerabili. E’ tempo che il paese nelle sue energie migliori si svegli, che i corpi intermedi ritrovino voce e coraggio, che gli intellettuali di ogni estrazione culturale e politica diano il loro indispensabile contributo ad un pensiero moderno che affondi le proprie radici in quello antico spazzando via il prima possibile ogni forma di autoritarismo strisciante e ogni aspetto di pressappochismo sciatto e deleterio e che l’informazione rilanci, nella propria diversità, il culto della democrazia rappresentativa che ci è stata consegnata dal sangue dei nostri padri. E’ tempo che tutto questo accada prima che sia troppo tardi.

La risposta di Claudio Cerasa
Il Movimento 5 stelle ha svuotato la politica. E quando la politica si svuota, dato che in politica il vuoto non esiste, la politica si riempie nel migliore dei casi di mandarini, nel peggiore dei casi di poteri loschi. E quando parliamo di poteri loschi non parliamo solo dei checcolanzalone. Parliamo anche di tutti coloro che vogliono sfruttare la democrazia indebolita, svuotata, per trasformare i partiti in comodi taxi per nuove forme di dittature. E’ la democrazia diretta. E’ non è una bellezza, è una miserabile oscenità-tà-tà.

→  aprile 21, 2018


Interventi di Veronica De Romanis, Marcello Messori e Mario Seminerio curati da Maria Carla Sicilia

Veronica De Romanis
Docente di European economics alla Luiss Guido Carli

“L’opinione pubblica è stata sedata da due efficaci anestetici”, scrive Guido Tabellini nel suo articolo, riferendosi alle rassicurazioni della politica sullo stato dell’economia italiana e al Qe della Banca centrale europea. La mia impressione è che negli ultimi anni la realtà sia stata completamente capovolta nel racconto collettivo: si è parlato di austerità quando in Italia l’austerità non c’è mai stata dopo il governo Monti, tanto che dal 2014 a oggi il debito pubblico è ancora cresciuto. Oggi rischiamo di pagare nel momento peggiore il prezzo di una politica espansiva, dopo tre anni di crescita, alla vigilia di importanti cambiamenti economici. Il prossimo ottobre, chiunque sarà premier, si troverà a mettere le mani su una legge di Stabilità che, così com’è, costerà circa 35/40 miliardi. Una cifra da spendere solo per sanare i conti del passato: tra clausole di salvaguardia, circa 12,3 miliardi per il 2019 e 19,5 miliardi per il 2020, le correzioni sul Def che chiede l’Europa, pari a circa 3 miliardi, gli impegni dei precedenti governi Renzi e Gentiloni – pareggio di bilancio, rinnovo dei contratti pubblici e missioni internazionali. Poi bisognerà capire cosa fare da oggi in poi: quanto ci costerà investire nel futuro e nelle riforme?

Per guardare al futuro non si può evitare di affrontare il problema numero uno, il debito pubblico, che ci rende un paese estremamente vulnerabile. I mercati al momento sono rimasti fermi, ma ci hanno insegnato che reagiscono quando meno ce lo aspettiamo. Non dobbiamo dimenticarlo e, se non vogliamo essere vulnerabili, dobbiamo intervenire sul debito pubblico. La strada può essere quella tracciata da Tabellini, portando l’avanzo primario verso il 4 per cento, come hanno fatto in altri paesi che l’autore ricorda nel suo articolo. Tuttavia non sembra quella scelta dai partiti chiamati a formare il prossimo governo. Il programma economico della Lega, secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani diretto da Carlo Cottarelli, prevede un avanzo primario che tende allo 0 e un disavanzo che supera il 3 per cento, immaginando nel contempo un debito pubblico in diminuzione. In generale nei programmi elettorali di tutti i partiti, eccetto + Europa, è prevista una crescita del pil molto ottimista, tramite la quale si intende risanare le finanze pubbliche italiane. Ma riforme e crescita non bastano, serve l’aggiustamento del disavanzo.

Nel medio termine rischiamo di dover fare un aggiustamento costoso in uno dei momenti meno ideale: a ottobre forse il sostegno della Bce non ci sarà più e forse, come diceva Tabellini, l’espansione del commercio mondiale sarà molto più moderata. Il risultato di anni di politica fiscale espansiva e di flessibilità è il forte rischio di una politica fiscale prociclica, che renderà ancora più negativa l’eventuale fase negativa del ciclo.

Marcello Messori
Docente di Economia alla Luiss Guido Carli e direttore della Luiss School of European Political Economy

La diagnosi che emerge dall’articolo di Guido Tabellini rispetto alla situazione economica italiana è del tutto appropriata e ne condivido quelli che mi sembrano i tre punti chiave. Manca tuttavia la proposta di possibili soluzioni, che pure l’autore ha avanzato in altre sedi. Tabellini sottolinea un fatto assolutamente corretto e cioè che un’unione monetaria in cui non vi sia unificazione fiscale, dove manchi quindi una Banca centrale garante nei confronti del debito degli stati membri, è soggetta a vulnerabilità nella gestione dei debiti pubblici nazionali. Per usare le parole dell’autore, è come se il debito pubblico fosse espresso in una valuta estera e fosse quindi soggetto a forti rischi di insostenibilità se raggiunge un peso eccessivo rispetto al Pil.

Il secondo punto che condivido è che per mettere in sicurezza il debito pubblico italiano bisognerebbe avere un avanzo primario intorno al 4 per cento. Questo consentirebbe in una decina di anni di fare scendere il rapporto debito/pil intorno al 100 per cento, posto che vi sia una crescita positiva anche se contenuta. Tuttavia, sarei ancora più drastico di Tabellini su quello che mi sembra il terzo punto chiave, cioè che né economicamente né politicamente questo ripetuto avanzo sarebbe sostenibile in Italia.

Come si esce dunque da questo circolo vizioso, mettendo in sicurezza il rapporto debito pubblico/pil anche senza avere un avanzo primario del 4 per cento? Qualche mese fa alla Luiss School of European Political Economy abbiamo avanzato una proposta (cfr. Bastasin, Messori, Toniolo, ”Il debito pubblico italiano: una proposta“) che permetterebbe di raggiungere tale obiettivo anche realizzando un più sostenibile avanzo primario intorno al 2,5 per cento. La condizione da porre è che l’Esm, il meccanismo europeo di stabilità, si impegni ad acquistare quote proprietarie di un fondo patrimoniale nazionale per compensare la differenza tra l’effettivo aggiustamento annuale del bilancio italiano e quello difficilmente praticabile del 4%.

La questione non può essere rimandata, non abbiamo un tempo infinito per porre rimedio. Senza volere essere profeti di sventura, possiamo ragionevolmente aspettarci un rallentamento dell’economia e un aumento dei tassi di interesse negli Stati Uniti. Presto o tardi anche i tassi europei seguiranno il trend, spinti anche dalla fine del quantitative easing. Quale che sia il prossimo governo dovrà affrontare il tema mettendo in sicurezza il debito pubblico prima che la situazione peggiori.

Mario Seminerio
Analista economico, autore del blog phastidio.net

Pur condividendo l’analisi, nutro qualche dubbio sulla via indicata come soluzione da Guido Tabellini nel suo articolo. L’autore non spiega infatti quali impatti depressivi può avere un obiettivo così impegnativo quale è quello di portare l’avanzo primario al 4 per cento del pil: anche ammettendo una riqualificazione della spesa, l’impegno sottrarrebbe comunque risorse al paese. Per sostenere la sua tesi Tabellini riporta l’esempio di paesi come Belgio e Canada. Tuttavia mi pare che si tratti di contesti completamente diversi da quello italiano, a partire dal periodo di riferimento: il pil nominale, tra la metà degli anni Novanta e il 2007, cresceva in maniera piuttosto confortevole aiutando a invertire il rapporto debito/pil. L’Italia invece si misura da parecchi anni con un quadro generale e interno di bassa inflazione e di bassa crescita. I paragoni con altri contesti spazio temporali ci portano fuori strada rispetto alle possibili soluzioni.

Trovare il modo di stimolare la crescita è fondamentale. Se non riusciamo a far crescere il pil nominale più del costo medio del debito, il rapporto di indebitamento non potrà scendere. Un problema da affrontare quando la Bce terminerà il suo piano di quantitative easing. Al di là di tutti i fattori di rischio esterni che pure esistono – dal rallentamento dell’economia mondiale alla minaccia delle politiche protezionistiche – l’Italia presenta un fattore di vulnerabilità propria che si chiama demografia. Tra tutti i paesi più sviluppati, insieme al Giappone è uno dei paesi più anziani al mondo, ma a differenza del Giappone ha un tessuto economico che non sviluppa sufficiente crescita della produttività e del valore aggiunto. Siamo prigionieri di un contesto demograficamente avverso, uno dei fattori più depressivo per il nostro sviluppo economico. Se continuiamo a focalizzarci sull’avanzo primario e su altre misure del genere ci ritroveremo con una nuova crisi del debito. In quel caso non vedo vie d’uscita diverse da un default o da una gigantesca manovra patrimoniale per ripagare il debito pubblico, come già accaduto con il governo Monti nel 2011. Un esito difficile da prevenire, quando la demografia gioca contro non c’è molto da fare. Per stimolare la crescita sarebbe più utile ripensare la pubblica amministrazione, nuovi meccanismi di raccordo tra formazione e mondo delle imprese, politiche di welfare in grado di incidere sulla natalità. Si tratta di interventi di lungo termine, che male si affiancano all’aumento dell’avanzo primario e al taglio della spesa primaria.