Dai vaccini alle piattaforme online: le imprese orientate al profitto hanno risposto “presente”
Le case farmaceutiche che hanno prodotto a tempo di record i vaccini, i fornitori di servizi digitali che ci hanno aiutato a lavorare da casa, le catene industriali che ci hanno permesso di continuare ad avere quello che ci serviva: tutti hanno agito secondo logiche di mercato e profitto. Quelle che molti dibattiti post pandemia vorrebbero «correggere» in nome del bene comune. Non è del tutto saggio.
Un osservatore ingenuo penserebbe che, da quando la Food and Drug Administration americana ha autorizzato i vaccini di Pfizer/BioNTech e Moderna, il corso della pandemia sia cambiato. Ora abbiamo un’arma, che può aiutarci a ridurre in modo importante diffusione e letalità. Se l’arma, finalmente, esiste, tutti gli sforzi dovrebbero essere concentrati su come portarla su quanti più campi di battaglia possibile.
Israele a parte, i Paesi occidentali sembrano avere tutti problemi con l’organizzazione di una grande campagna di vaccinazioni. C’è però anche un problema di obiettivi e di sensibilità. Che coi vaccini si debba fare presto è il corollario di una visione per la quale l’obiettivo è tornare quanto prima alla «normalità». Cioè a una situazione in cui le persone possono esprimere quelle domande che da mesi vengono, purtroppo, compresse. Il bisogno di socialità. I viaggi: non verso mete esotiche, ma semplicemente verso una città in un’altra regione. Uscire la sera. Andare a teatro o al cinema.
Lo stato delle cose
Purtroppo, negli scorsi mesi molti governi non sono riusciti a investire su iniziative volte, appunto, a garantire quanto più possibile la vita consueta delle persone (per esempio, tamponi rapidi e test di massa). E c’è anche chi pensa che alla normalità non si debba proprio tornare. Il World Economic Forum ha per esempio inaugurato una discussione su quello che il suo fondatore, Klaus Schwab, chiama «the great reset». Reset è parola con la quale tutti abbiamo familiarità informatica e allude a un azzeramento. Mettere un punto e andare a capo, tirare una riga. La sede e il promotore del dibattito sono bastati a molti per imbastire una polemica di sapore complottista.
Il punto di partenza di Schwab e i suoi rasenta l’ovvietà: la pandemia ha esposto problemi e punti deboli dei diversi Paesi, bisognerebbe cercare di imparare la lezione del 2020. A Davos però ci si concentra su lezioni che hanno ben poco a che fare con la gestione del contagio. Si parla semmai di cambiamenti che, adeguatamente assistiti dalle politiche pubbliche, realizzino un «capitalismo sostenibile». Non è solo questione di sensibilità ambientale, ma proprio di quello che Franco Debenedetti («Fare profitti», Marsilio, 2021) chiama il «mattonino di Lego del capitalismo»: l’impresa. L’idea che essa debba fare profitti a vantaggio dei suoi azionisti è considerata una sorta di minaccia: il profitto di alcuni può mettere a repentaglio il benessere di tutti. Per questa ragione vanno imposte alle aziende metriche diverse, che le allontanino dall’ossessione del breve termine e le si rendano pienamente «compatibili» col benessere sociale. Queste metriche coincidono con un aumento della libertà d’azione del management, a spese degli azionisti (i cui interessi vanno subordinati a una qualche idea di utilità sociale) e dei consumatori (le cui esigenze possono non essere esaudite, se considerate non «sostenibili»).
La pandemia è la grande occasione per fare questo passo, non perché il motivo del profitto abbia mostrato i suoi limiti: se ne potremo uscire, è in buona misura grazie ad imprese orientate al profitto (Big Pharma). Se milioni di ragazzi hanno potuto, in qualche modo, seguire delle lezioni, è grazie a imprese orientate al profitto (Microsoft, Zoom, Cisco). Se durante il confinamento abbiamo potuto continuare ad avere certi consumi, è stato grazie a chi, facendo il proprio interesse, ci ha portato a casa ciò che desideravamo. La pandemia è la grande occasione perché sempre le crisi concentrano potere nelle mani delle autorità pubbliche, e questa concentrazione di potere non deve andare sprecata. L’impressione, fastidiosa, è che le vaccinazioni lente e che non cambiano la convivenza con il virus finiscono per fare il gioco di chi propugna azzardati esperimenti di ingegneria sociale.
L’esperimento
Questi esperimenti coincidono con una riduzione dei consumi possibili per ciascuno di noi. Come scrive Andrea Miconi («Epidemie e controllo sociale», Manifestolibri, 2020), la rappresentazione dell’emergenza ha fatto perno sulla «colpevolizzazione del cittadino». Scelte e abitudini fra le più semplici sono diventate, nel discorso pubblico, «peccati» da evitare per allontanare il male. Moralizzazione dell’epidemia e ambizioni di riforma del sistema capitalistico scommettono che il Covid ci segnerà in profondità. La pandemia ci impoverisce, e quindi potremo permetterci meno viaggi, meno cene fuori, e di cambiare l’automobile più tardi di quanto desiderassimo. Probabilmente saremo orientati a risparmiare di più che in passato, come capita quasi sempre a coloro che hanno subito uno choc molto forte.
Le conseguenze
Ma una cosa è questa ragionevole previsione, altra pensare che la forza della legge e la retorica dell’emergenza possano «raddrizzare» il presunto legno storto dei bisogni umani. E’ vero che non c’erano i social ma, con l’eccezione della peste, i grandi eventi pandemici del passato non hanno segnato la memoria collettiva proprio perché la voglia di vivere è più forte. In Cina, durante la «settimana dorata» (che coincide con la celebrazione della fondazione del regime) di ottobre, si sono spostati circa 630 milioni di persone. Non l’hanno fatto perché glielo ha imposto il partito ma perché hanno approfittato, appena è stato loro possibile, della libertà dalle misure di contenimento. Spostarsi, viaggiare, vivere la propria socialità. I bisogni dei cinesi non sono cambiati, e nemmeno i nostri.
Il capitalismo è oggi sotto attacco, tra voci critiche che vorrebbero «resettarlo» e nuove forme di responsabilità sociale attribuite alle aziende. Che fare, allora?
«Ci sono altri sistemi per aumentare i salari minimi, per ridurre le emissioni, per modificare il finanziamento della politica: la certezza della legge e le iniziative delle democrazie». Franco Debenedetti, con il suo “Fare profitti: Etica dell’impresa” (Marsilio 2021), propone un viaggio al cuore dell’impresa per definirne la natura, i soggetti, i diritti e gli interessi al tempo delle aziende Big Tech e della pandemia. Per leggere e affrontare i cambiamenti in atto, analizza la crisi della produttività, la tendenza al monopolio dei giganti del Web e le ricadute sulla politica, e riflette sul tema della diseguaglianza, tra classi sociali come tra vertici e dipendenti.
Sono intervenuti:
Michele Boldrin (professore di economia alla Washington University in St Louis)
Franco Debenedetti (presidente dell’Istituto Bruno Leoni)
Fiorella Kostoris (senior fellow della School of European Political Economy LUISS)
Coordina:
Serena Sileoni (vicedirettore generale dell’Istituto Bruno Leoni)
Durante il webinar è stato presentato il libro di Franco Debenedetti, “Fare profitti. Etica dell’impresa” (Marsilio, 2021).
Un pamphlet pubblicato da Marsilio prende di mira Joe Biden, Papa Francesco e il «Financial Times». Franco Debenedetti: l’impresa genera benefici sociali solo se ripaga gli azionisti.
Se ne salvano pochi. Sotto le acuminate frecce di Franco Debenedetti e del suo Fare profitti, in uscita oggi dall’editore Marsilio, cadono uno dopo l’altro assoluti protagonisti del nostro tempo come Joe Biden e papa Francesco, prestigiose organizzazioni internazionali come la Business Roundtable e il forum di Davos, studiosi à la page come Branko Milanovic, un giornale bibbia del mercato come il «Financial Times» e non vengono risparmiati nemmeno mostri sacri del pensiero riformista come Anthony Atkinson e John Rawls. La loro colpa, il minimo comune denominatore che li porta alla condanna, è quella di fare rilevanti concessioni al populismo e allo statalismo, i due mali che affliggono l’economia contemporanea e che, se preesistevano largamente al virus, ora però si stanno servendo della pandemia per fare il pieno di potere e di consensi.
Dai vaccini alle piattaforme online: le imprese orientate al profitto hanno risposto “presente”
Le case farmaceutiche che hanno prodotto a tempo di record i vaccini, i fornitori di servizi digitali che ci hanno aiutato a lavorare da casa, le catene industriali che ci hanno permesso di continuare ad avere quello che ci serviva: tutti hanno agito secondo logiche di mercato e profitto. Quelle che molti dibattiti post pandemia vorrebbero «correggere» in nome del bene comune. Non è del tutto saggio.
Profitti ed etica. I doveri dell’impresa secondo Debenedetti
di Giuseppe Pennisi, 18 gennaio 2021
“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio, è il nuovo libro dell’ingegnere Franco Debenedetti che dà spunti per una nuova linfa industriale che sembra persa nel nostro Paese. Un volume che il prof. Pennisi suggerisce di leggere insieme ad altri due scritti dagli economisti Ciocca e Zecchini, per completare un messaggio forte rivolto all’imprenditorialità italiana
Il nuovo saggio di Franco Debenedetti (“Fare profitti – Etica dell’impresa”, Marsilio Editori, 2021, € 18) esce al momento giusto. In Italia si sta tentando di riprendere la via dello sviluppo che pare smarrita da vent’anni. Il documento che dovrebbe tracciarne la rotta (il Piano Nazionale di Rilancio e di Ripresa, Pnrr) è in ritardo; secondo economisti di varie “scuole” è lacunoso e carente.
Le aziende e il mercato funzionano, giù le mani dal capitalismo
Estratto da “Fare profitti. Etica dell’impresa”, di Franco Debenedetti, Marsilio, 2021
È tornato di moda attribuire tutti i mali del mondo alla struttura delle imprese, tanto che si invoca un cambio di paradigma e uno stravolgimento della missione aziendale. Il nuovo saggio di Franco Debenedetti, edito da Marsilio, spiega perché queste critiche sono sbagliate
Il viaggiatore che, sceso dall’aereo a Londra di prima mattina mercoledì 18 settembre 2019, avesse preso la sua copia del «Financial Times», avrebbe strabuzzato gli occhi: a racchiuderla, una copertina giallo canarino recante un solo titolo, a caratteri cubitali, come l’ormai famoso Fate presto del «Sole 24 Ore», quando lo spread era a 575: Capitalism. Time for a reset.
Le aziende e il mercato funzionano, giù le mani dal capitalismo
di Massimiliano Panarari, 22 gennaio 2021
Gli attacchi radicali al capitalismo – dice Franco Debenedetti – sono ciclici come le sue crisi. E oggi circolano in stile “contenuti virali”. L’imprenditore e saggista, che dell’elogio dell’economia del mercato ha fatto una ragione di vita, dedica quindi questo libro alla difesa delle imprese finanziarie. E lo fa prendendo ile mosse da uno dei “manifesti” intellettuali di quello che sarebbe diventato neoliberismo. Ovvero il famoso articolo di Milton Friedman, uscito nel 1970 sul New York Times Magazine, nel quale asseriva “l’unica vera responsabilità delle imprese è fare profitti”.
Un capitalismo migliore esiste ed è quello che tutela l’ambiente ed investe nella sostenibilità
di Antonio Calabrò, 31 gennaio 2021
[...] Proprio grazie a riforme e cambiamenti, si può rilegittimare la cultura del mercat e fare vivere, appunto, un capitalismo migliore. Un dibattito aperto, quanto mai stimolante. Cui contribuisce, con scienza ed esperienza, Franco Debenedetti con il
nuovo libro per Marsilio, “Fare profitti – Etica dell’impresa” (pagg. 320, euro 18), per fare intendere che “perseguire gli utili, in un mondo sconvolto da crisi ambientali e pandemia” non sia affatto “immorale” ma invece “l’unica vera responsabilità delle imprese”. Debenedetti, uomo d’azienda, con esperienza politica, sostiene che la tendenza a voler “resettare il capitalismo” sia “la più grande battaglia ideologica dei nostri tempi”. Ricorda la lezione di Milton Friedman. E,
[...] Consapevole dell’importanza dei temi ambientali e sociali, insiste che proprio per affrontarli siano necessarie imprese che diano battaglia per mercati aperti ed efficienti, limitando l’invadenza dei monopoli e abbiano come primato la creatività, l’innovazione, gli investimenti. I profitti, dunque.
Il capitalismo non è un nemico (anche se c’è la pandemia)
di Giuseppe Colombo, 01 febbraio 2021
Nel saggio “Fare profitti” di Franco Debenedetti un’analisi sugli utili come ascensore sociale. E sui danni dello statalismo Covid
Se pensate che i buoni per eccellenza (leggere Papa Francesco) e i buoni del momento (il riferimento è al neo presidente degli Stati Uniti Joe Biden) possano salvarsi dalla penna arguta di Franco Debenedetti, allora siete costretti a premere il tasto “reset” prima di leggere il suo ultimo lavoro. Perché il saggio “Fare profitti. Etica dell’impresa” (Marsilio, pp.320) ha un’idea precisa e questa idea – il capitalismo è il capitalismo e le aziende devono fare profitti, sempre e comunque – viene portata avanti dall’inizio alla fine. E per arrivare al capolinea, per renderla credibile e soprattutto attuale oggi che la pandemia ha innalzato lo Stato imprenditore e guida a totem, compie una doppia operazione.
Sono sicuro che molti leggeranno in queste pagine un’arringa pro liberismo o neoliberismo [...] io ci leggo una requisitoria contro l’ipocrisia.
C’è chi lo leggerà come un libro che si occupa di economia; io l’ho letto come un libro che si occupa di politica: Franco Debenedetti “Fare profitti. Etica dell’impresa” pubblicato da Marsilio nel 2021.
Risposte liberali di sinistra agli ultimi difensori del neoliberismo
di Emauele Felice, 05 febbraio 2021
Il liberalismo è un’ideologia che nasce sui diritti dell’uomo. Diritti che nel tempo sono stati considerati in modo sempre più ampio e inclusivo: non più solo la vita, la sicurezza e la proprietà privata, come era nell’Ottocento, ma i diritti sociali, quelli civili di prima e poi di secondo generazione (la libertà di amare), quindi i diritti ambientali (che sono anche i diritti umani delle persone che vengono dopo di noi), fino ai cosiddetti diritti “allargati”, che coinvolgono le altre specie sensibili otre a quella umana. Su questa basi, il liberalismo si è contaminato pria con il pensiero democratico quindi, dopo la Seconda guerra mondiale, con il pensiero socialista riformista, più di recente anche con ambientalismo e movimenti per i diritti civili. L’intervento pubblico, attuato nell’ambito della democrazia liberale, è indispensabile per bilanciare fra loro i diversi diritti, che ovviamente possono confliggere.
Il populismo sparirà davvero solo quando la politica tornerà a difendere il profitto
di Stefano Cingolani, 25 febbraio 2021
Perché la società per azioni resta l’elemento costitutivo della struttura granulare del capitalismo e della democrazia. Un libro di Franco Debenedetti
Con il tramonto del nazional-populismo anche il profitto ritrova il suo posto in società. Messa così, la soluzione è fin troppo facile. In realtà, si fa strada da anni, ben prima della pandemia, un nuovo paradigma basato su alcuni capisaldi: l’impresa non deve pensare ad arricchire solo gli azionisti, bensì la più ampia comunità, non gli shareholders, ma gli stakeholders; deve essere socialmente responsabile; deve avere una scopo più ampio, deve puntare sul lungo termine enon sul breve. Sono i pilastri di una nuova saggezza che si sta affermando non dall’esterno del sistema, ma dall’interno, non da chi rifiuta il capitalismo, ma da chi lo pratica, dalla grande finanza, dagli uomini che muovono colossali fortune, dai fondi di investimento, dalle gigantesche multinazionali. Quanto è solido questo modello? Quando è coerente e fino a che punto è praticabile? Franco Debenedetti si è messo a separare il grano dal loglio e nel suo libro “Fare profitti. Etica dell’impresa” appena pubblicato da Marsilio, rimette in discussione quello che rischia di diventare “il pensiero unico” dell’era post Covid.
Il populismo sparirà davvero solo quando la politica tornerà a difendere il profitto
di Ernesto Auci, 26 febbraio 2021
Nel suo recente libro “Fare profitti – Etica dell’impresa”, edito da Marsilio, l’ex senatore della sinistra ed ex manager Franco Debenedetti sostiene che il compito di un’impresa non è quello di distribuire dividendi sociali ma di fare correttamente il mestiere di generatore di profitti
La crisi dei subprime nel 2008 e più ancora l’esplosione della pandemia del Covid hanno provocato un diffuso senso di sfiducia nei confronti del mercato, del capitalismo, del modo di operare delle grandi imprese. È diventato quasi un luogo comune criticare il mercato quale responsabile di eccessi speculativi ed incapace di autoregolarsi, contrariamente a quello che sostengono i liberisti. Si moltiplicano gli studi che invocano un cambiamento radicale del capitalismo, che secondo alcuni deve essere salvato dall’avidità degli stessi capitalisti e secondo altri imbrigliato da una più penetrante presenza dello Stato anche nella gestione diretta delle imprese. È stato in particolare messo sotto accusa quello che viene definito il “mito” basato sul famoso articolo di Milton Friedman del 1970, secondo il quale il fine esclusivo della società per azioni deve essere quello di creare profitti per i soci.
Nella seconda lettera ai Tessalonicesi, San Paolo è al tempo stesso tacitiano e chiarissimo: Quando eravamo presso di voi, vi abbiamo sempre dato questa regola: chi non vuole lavorare, neppure mangi. Il messaggio è eloquente: occorre lavorare, intraprendere, fare quindi utili da impiegare anche tramite carità a favore di coloro che non possono lavorare, creare intraprese, generare quanto è necessario per sé e per la famiglia ed avere anche un sovrappiù da poter destinare ad altri meno privilegiati.
È bene ricordarlo a margine della pubblicazione del saggio di Franco Debenedetti Fare profitti – Etica dell’impresa (Marsilio, Venezia 2021), perché per decenni in Italia ha dominato una lettura dei Vangeli in chiave pauperista ed ultra-socialista che sembra voglia dare “un etica sociale” all’impresa, a prescindere dalla sua missione principale di “fare utili”.
Viaggio alla scoperta della vera natura del business
di Alessandro De Nicola, 11 marzo 2021
«The business of business is business » , con questa frase icastica il Nobel Milton Friedman riassunse la missione delle imprese: fare affari, punto e basta. Il libro Fare profitti. Etica dell’impresa di Franco Debenedetti, imprenditore, parlamentare per tre legislature e oggi presidente dell’Istituto Bruno Leoni, prende le mosse proprio dal famoso saggio di Friedman, pubblicato circa 50 anni fa il cui titolo era Le responsabilità sociale delle aziende consiste nel far crescere i profitti.
Profitto, Dio del mercato, e l’eresia della responsabilità sociale (dimenticando Olivetti)
di Furio Colombo, 29 marzo 2021
Franco Debenedetti, imprenditore, investitore, colto e cauto conservatore e – per un periodo – senatore Pds-Ds, pubblica un libro (Fare profitti, etica dell’impresa, Marsilio Editore) che è come un manuale di navigazione.
Non offre norme, ma ambienta il lettore nei grandi e continui pericoli del mare e – come nei viaggi di Ulisse – delle sue seduzioni: l’imprenditore si deve far legare all’albero maestro della sua unica vocazione e missione, fare profitto, stando alla larga dalla contagiosa illusione secondo cui la ricchezza può tutto, anche invadere spazi vuoti e abbandonati dallo Stato, provvedendo a tutti i bisogni (salute, cultura)..
Azionisti e stakeholder: la torta può crescere per tutti
di Fracesco Vella, 07 aprile 2021
[...] ci sono invece i critici di questa posizione, che difendono a spada tratta il paradigma del profitto e ritengono che quello che viene definito stakeholderism “sarebbe dannoso per shareholder, stakeholder e per la società tutta”, secondo le parole di Franco De Benedetti, che ha di recente pubblicato un volume, decisamente controcorrente e significativamente intitolato “Fare profitti. Etica dell’impresa”.
L’etica del profitto. Confronto fra Marcello Messori e Franco Debenedetti
di Marcello Messoni e Franco Debenedetti, 10 maggio 2021
Parafrasando Milton Friedman, Franco Debenedetti sostiene che l’impresa capitalistica adempie al suo compito sociale e soddisfa i propri principi etici solo se persegue la massimizzazione del profitto. Di conseguenza il suo originale e articolato volume, Fare profitti. Etica dell’impresa (Marsilio: Venezia 2021), mira a provare la dominanza analitica e fattuale della cosiddetta shareholder value rispetto alla stakeholder value, ossia la dominanza del principio della massimizzazione del valore attuale per gli azionisti di ogni data impresa rispetto al principio della composizione fra i contrastanti interessi propri dell’eterogeneo insieme di quanti partecipano alla vita di quella stessa impresa. [...] (Messori)
[...] “Le clausole contrattuali – scrive Messori – lasciano un reddito residuo e quindi occorre definire una regola per l’attribuzione di tale residuo.” Ognuno dei contratti di cui consta l’impresa, anche se basato su una norma di legge, lascia un largo margine di interpretazione oltre che di integrazione, e non solo da parte del management. Pensiamo ai contratti nazionali del lavoro dipendente: sono le organizzazioni sindacali dei lavoratori ad opporsi ai contratti aziendali, anche se questi prevedono, oltre al salario fisso, una parte variabile legata alla produttività, che solo a livello aziendale può essere misurato con precisione e attribuito con giustizia. [...] (Debenedetti)
Franco Debenedetti: capitalisti, non vergognatevi del profitto
di Stefano Lepri, 30 maggio 2021
Una stranezza italiana è che si discuta aspramente di neoliberismo in un Paese che i suoi Reagan e Thatcher non li ha avuti mai (Silvio Berlusconi per un po’ fece finta). La sinistra tende a dare del neoliberista a tutti gli avversari, compreso Matteo Salvini che proprio non c’entra. I neoliberisti veri, sapendo di essere pochi, reagiscono con vivacità all’assedio. Franco Debenedetti, colto capitalista e manager, in passato aveva tentato di predicare alla sinistra le virtù del mercato, come senatore nelle liste del Pds dal 1994 al 2006; poi ha perso le speranze. Nel suo ultimo libro (Fare profitti. Etica dell’impresa, Marsilio, pp. 320, € 18) se la prende soprattutto con i capitalisti, esortandoli a non vergognarsi del profitto.
Sono intervenuti: Maria Pierdicchi, Alessandro De Nicola, Franco Debenedetti, Eric Ezechieli, Ugo Loeser, Stefano Micossi e Marco Ventoruzzo.
Apertura lavori: Alessandro De nicola
Stato e mercato. Intervista a Franco Debenedetti
di Lorenzo Benassi Roversi, 29 settembre 2021
Lorenzo Benassi Roversi intervista Franco Debenedetti su alcuni aspetti del dibattito politico ed economico attuale. In una situazione nella quale da più parti il liberismo è oggetto di critiche sotto molteplici punti di vista la posizione di un economista come Franco Debenedetti si pone invece a difesa di questo approccio. Per contribuire al dibattito e fornire elementi di valutazione al lettore, presentiamo, oltre a diverse voci critiche, anche il punto di vista di chi argomenta a favore di questo approccio economico e culturale. Questo dibattito assume particolare rilevanza in un momento in cui le necessità sanitarie dettate dalla pandemia e l’attesa dei fondi del PNRR riportano lo Stato e il suo ruolo economico al centro della scena. La visione di Debenedetti si concentra sul mercato, il cui dinamismo intrinseco sarebbe animato dalla ricerca del profitto. Quanto al rischio di un ruolo troppo invasivo dei poteri pubblici, emerge una visione meno negativa rispetto a precedenti occasioni.
Un pamphlet pubblicato da Marsilio prende di mira Joe Biden, Papa Francesco e il «Financial Times». Franco Debenedetti: l’impresa genera benefici sociali solo se ripaga gli azionisti.
Se ne salvano pochi. Sotto le acuminate frecce di Franco Debenedetti e del suo Fare profitti, in uscita oggi dall’editore Marsilio, cadono uno dopo l’altro assoluti protagonisti del nostro tempo come Joe Biden e papa Francesco, prestigiose organizzazioni internazionali come la Business Roundtable e il forum di Davos, studiosi à la page come Branko Milanovic, un giornale bibbia del mercato come il «Financial Times» e non vengono risparmiati nemmeno mostri sacri del pensiero riformista come Anthony Atkinson e John Rawls. La loro colpa, il minimo comune denominatore che li porta alla condanna, è quella di fare rilevanti concessioni al populismo e allo statalismo, i due mali che affliggono l’economia contemporanea e che, se preesistevano largamente al virus, ora però si stanno servendo della pandemia per fare il pieno di potere e di consensi.
di Franco Debenedetti, Fabrizio Davide, Francesco Vatalaro e Alessandro Vizzarri
L’idea della app sul modello Singapore non è male, ma il nostro stato è all’altezza? Dubbi e spunti
Il tracciamento dei contatti e l’analisi dei dati promette di essere uno strumento efficace nel contenimento della pandemia di coronavirus: il modello sviluppato a Singapore ha attirato l’attenzione per le sue proprietà che bilanciano efficacia e rispetto della privacy. Esso tuttavia, in Europa, richiede non solo adesione convinta dei cittadini ma anche coordinamento internazionale ed efficienza delle pubbliche amministrazioni nazionali.
La Commissione europea si è attivata per tempo e il 15 aprile ha pubblicato un documento di policy redatto da “e-Health network”, la rete che collega le autorità nazionali responsabili dell’assistenza sanitaria online, istituita ai sensi della direttiva 2011/24/UE. Nelle indicazioni che questa ha fornito sulle applicazioni mobili in supporto al contact tracing, al primo posto c’è l’interoperabilità delle soluzioni adottate. Anche in Italia dunque, sarebbe opportuno, senza pretesa di innovare, esaminare le tecnologie già in campo o in avanzato sviluppo e adottare quella con la maggiore probabilità di successo.
Il documento di Bruxelles ricorda che il 10 aprile Google e Apple hanno annunciato un’iniziativa congiunta di contact tracing che porterà nel mese di maggio al lancio di un applicativo che mira all’interoperabilità tra telefoni mobili Android e iOS, e nei prossimi mesi l’inserimento della funzionalità negli stessi sistemi operativi.
Ad ogni evidenza, si tratta di una soluzione che assicura universalità, evoluzione e manutenzione certa nel tempo. Entrambi i sistemi operativi già consentono, previo consenso, la localizzazione degli spostamenti tramite GPS, funzionalità indispensabile in questo caso e che il Garante della privacy nell’audizione alla Camera dei Deputati dell’8 aprile non ha escluso, purché impiegata nel rispetto dell’anonimato. Il suo impiego distribuito nei dispositivi d’utente, comunicando i dati volontariamente, consentirebbe la tracciatura immediatamente utilizzabile per la rivelazione dell’insorgenza di nuovi focolai di infezione.
Il Garante della privacy ha anche ricordato che, per l’efficacia, si stima occorra un’adesione minima del 60%, una percentuale altissima: anche per questo è necessario affidarsi ad una soluzione in sviluppo e di prevedibile alto grado di adozione. Avendo optato per la volontarietà dell’adesione, ciò potrebbe non bastare; si potrebbe pensare ad incentivi a carico dello Stato e a beneficio dei cittadini che la adottano, dai Giga di traffico dati, alle ricariche telefoniche, a partnership con i gestori telefonici e con imprese over-the-top.
Entro la fine aprile, se risulteranno positivi i chiarimenti che la Commissione ha richiesto a Google e Apple, si dovrebbe abbracciare questa soluzione, mettendo da parte quelle nazionali o regionali.
Sarebbe però un errore pensare che sia l’applicativo il “cuore” della soluzione. Per raggiungere lo scopo, individuare con tempestività da un lato le persone infette da inviare in quarantena, e dall’altro i potenziali contagiati per verificarne lo stato di salute, bisogna che esista e sia funzionante un sistema messo in campo in tempi brevi dal Servizio Sanitario Nazionale. Esso tra l’altro dipende dalla gestione dei tamponi, che sinora si è dimostrata problematica.
Serve una macchina organizzativa molto complessa, provvista di grande impegno umano unito a solida professionalità. La procedura di tracciamento dei contatti, come raccomanda l’agenzia di prevenzione europea ECDC, richiede che la lista dei contatti di una persona trovata positiva sia elaborata attentamente, senza che, ad esempio, vi siano invii automatici di messaggi. E’ richiesto un lavoro simile a quello investigativo, che riconcili il numero del telefono cellulare individuato automaticamente con la reale identità del contatto, verifichi l’attendibilità del dato e dia seguito con chiare istruzioni impartite a voce. Il tutto dovrà essere svolto da personale che ne ha l’autorità. Non sappiamo in che misura siano già state preparate le strutture del SSN atte a svolgere questo lavoro, che si aggiunge all’erogazione dei tamponi ed alla gestione degli isolamenti.
È un problema di processi, che non possono essere lasciati all’improvvisazione. Pensiamo solo al flusso che riguarda l’evento di un nuovo tampone positivo per un utente della app. La comunicazione di ogni nuovo caso positivo va inviata in tempo reale al gestore di servizio della app, il quale dovrà estrarre dal sistema la lista dei contatti del nuovo caso di infezione, il tutto nel rispetto di tutte le regole di protezione dei dati e dell’identità personale. Giacché i contatti della lista saranno persone che possono risiedere in tutto il territorio nazionale (o addirittura in altri paesi europei) il gestore deve indirizzare la comunicazione alla sola regione di competenza o meglio alla specifica ASL di competenza territoriale, per rendere più rapide le azioni successive.
Anche per l’alta complessità e la grande dimensione dei processi è necessario che la componente tecnologica sia acquisita da chi dà una assoluta garanzia del risultato, consentendo di concentrare tutti gli sforzi su ciò che si dovrà organizzare a livello nazionale e regionale.
Lettera di Paolo Cirino Pomicino a Claudio Cerasa.
Al direttore.
Nella nostra vita non siamo mai stati adusi a sparare su persone o partiti in difficoltà ma questa regola aurea cessa quando è in gioco l’interesse nazionale. E’ infatti un interesse della Repubblica avere un sistema politico fatto di partiti che abbiano una vita democratica al proprio interno e un’autonomia di giudizio e decisioni svincolati da imposizioni esterne. Insomma un partito di donne ed uomini liberi in un Parlamento in cui deputati e senatori siano altrettanto liberi da vincoli di ogni genere. Questa è la democrazia liberale disegnata dalla nostra Carta costituzionale e vissuta da settant’anni di lotte iniziate con la resistenza e continuata contro il terrorismo brigatista e lo stragismo di destra oltre che naturalmente contro tutte le mafie. E’ questo il motivo per cui oggi parliamo del Movimento 5 stelle il cui livello autoritario lo abbiamo intravisto e descritto sin dalla sua nascita. Le vicende degli ultimi giorni gettano però un’ulteriore ombra lunga su di un partito che il voto popolare lo ha indicato come il partito di maggioranza relativa. Tralasciamo gli aspetti giudiziari che non ci competono e anche perché chiunque è innocente sino a sentenza passata in giudicato (lo ricordi il nuovo ministro della giustizia che sembra avere un occhio di riguardo verso una piccola minoranza di magistrati fondamentalisti e fuori dallo spirito e dalla lettera della nostra Costituzione). Quel che ci riguarda, invece, è la natura politica del partito di maggioranza relativa alla luce di quel che leggiamo dalle intercettazioni e dalle notizie di cronache. Un partito in cui il leader vero, quello che ha il consenso nel paese e cioè Beppe Grillo, è fuori dal Parlamento e privo di ruoli formali nella vita interna del partito salvo la funzione generica di garante che si trasforma però in vincoli di linea politica e di comportamenti cui devono attenersi i singoli parlamentari e tutti i rappresentanti nelle assemblee elettive. Insomma un ruolo autoritario senza se e senza ma come si usa dire. Da questo garante fuori da ogni controllo democratico il potere si trasferisce a una società a responsabilità limitata, la Casaleggio Associati, che ha messo al servizio del partito una piattaforma informatica e il cui amministratore delegato è l’esecutore della volontà del sommo garante. Entrambi decidono i ruoli dei singoli parlamentari e dei membri del governo trasferendo gli ordini al cosiddetto capo politico che nella sua dizione di capo evoca un autoritarismo antico sinora sconosciuto nel linguaggio repubblicano. Ma non è finita. Scopriamo ora, e ne siamo sconcertati, che un avvocato genovese, Luca Lanzalone, amico del sommo garante, non solo ha avuto il compito di scrivere lo statuto del partito di stampo leninista approvato senza che un fil di voce si levasse contro, ma è stata inviato a Roma da un lato per commissariare una sindaca eletta che si è lasciato dolcemente commissariare e poi per sovrintendere a un mare di nomine pubbliche fuori da ogni visibilità democratica e da ogni controllo politico. E non è un caso che mai come ora i parlamentari del Movimento cinque stelle sono portati a ubbidir tacendo e tacendo votare. Per dirla in breve il maggior partito del paese ha “esternalizzato” la gestione del potere democratico a personaggi fuori dal partito e fuori dal Parlamento. E se vale, e come vale, la proprietà transitiva, parte rilevante della gestione del potere della Repubblica è stato messo in mani non titolate, prive di ruoli formali e fuori da ogni controllo democratico sostanziale. A tutto ciò si sta, sottovoce, ribellando anche un piccolissimo gruppo di parlamentari grillini. E’ questo, dunque, il vero cambiamento che rischia di mutare nel profondo il profilo della nostra Repubblica avvelenando i pozzi della democrazia cianciando di utopie stellari di un governo della piazza virtuale con un clic personalizzato. Purtroppo si dimentica che in ogni tempo ed in ogni piazza la individualità di ciascuno si diluisce e si massifica in un unico impasto di voci alimentando così l’autoritarismo di tribuni della plebe che a loro volta mettono lentamente in soffitta le pratiche fondamentali della democrazia liberale lasciando spazi sempre maggiori a interessi oscuri e spesso intollerabili. E’ tempo che il paese nelle sue energie migliori si svegli, che i corpi intermedi ritrovino voce e coraggio, che gli intellettuali di ogni estrazione culturale e politica diano il loro indispensabile contributo ad un pensiero moderno che affondi le proprie radici in quello antico spazzando via il prima possibile ogni forma di autoritarismo strisciante e ogni aspetto di pressappochismo sciatto e deleterio e che l’informazione rilanci, nella propria diversità, il culto della democrazia rappresentativa che ci è stata consegnata dal sangue dei nostri padri. E’ tempo che tutto questo accada prima che sia troppo tardi.
La risposta di Claudio Cerasa
Il Movimento 5 stelle ha svuotato la politica. E quando la politica si svuota, dato che in politica il vuoto non esiste, la politica si riempie nel migliore dei casi di mandarini, nel peggiore dei casi di poteri loschi. E quando parliamo di poteri loschi non parliamo solo dei checcolanzalone. Parliamo anche di tutti coloro che vogliono sfruttare la democrazia indebolita, svuotata, per trasformare i partiti in comodi taxi per nuove forme di dittature. E’ la democrazia diretta. E’ non è una bellezza, è una miserabile oscenità-tà-tà.