Art. 18, Veleni e Rimozioni

aprile 4, 2002


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Sul campo di battaglia dell’art. 18 si contano le perdite

Non interessa più alle grandi imprese; non interessa alla Confcommercio; ne farebbero volentieri a meno ampi settori della maggioranza; sono messi in un angolo coloro che a sinistra avevano avanzato proposte per il suo superamento: sul campo di battaglia dell’art. 18 si contano le perdite.

Il terreno è inquinato dai velenosi argomenti usati: quando il reintegro ordinato dal giudice viene difeso perché, rotto questo argine, nulla più impedirebbe ai padroni di abbandonarsi all’arbitrio e alle discriminazioni, si diffonde l’immagine di una imprenditoria e di un Paese radicalmente diversi dalla realtà. Veleni che producono danni alle relazioni industriali a livello di singole aziende, quindi ai lavoratori stessi e al Paese.

Per amore di verità si deve rilevare che anche da parte industriale non è risuonata, orgogliosa e convincente, l’affermazione non solo che questi timori sono infondati, perché le pratiche discriminatorie restano vietate e condannate come prima; ma soprattutto che queste accuse sono false, perché queste pratiche sono incompatibili con le relazioni industriali in un grande Paese, cosa di cui gli imprenditori stessi hanno interesse a farsi garanti.

Sembrerebbe che le modifiche all’art. 18 siano diventate non solo inopportune e dannose nelle circostanze presenti, ma inutili in sé. Come se si fosse improvvisamente scoperto che tutti si sono sbagliati, i banchieri centrali e i commissari europei, gli economisti e i giuristi, i politici e i sociologi, quanti cioè hanno indicato i danni economici e le iniquità sociali che quella norma porta con sé. Se al Nord c’è piena occupazione, si sente dire, se in tutto il paese la disoccupazione è diminuita, ma di che ci state parlando, che bisogno c’è di perdere tempo per un problema inesistente?

A chi ricorda le ragioni di equità e chiede di rimodulare le tutele in tutto il mercato del lavoro, si risponde che tutele e diritti non sono alternativi ma additivi: si mantengano ( anzi si estendano a tutti!) le protezioni dell’art.18, e in più si spenda per politiche attive del reimpiego. Come se avesse senso da un lato ribadire principi di job property che irrigidiscono il mercato del lavoro e dall’altro dedicare risorse per cercare di reintrodurvi chi ne è stato espulso.

Questa è la ragione, di incompatibilità logica e non economica, per cui, in tutta Europa, i paesi dove c’è maggiore protezione del posto di lavoro sono quelli in cui meno risorse vanno ai disoccupati e viceversa. Rimozione del problema e diffusione al suo posto di una fallace soluzione: entrambi sono da mettere nel novero delle perdite da conteggiare sul campo di questa battaglia.

E ora? Mentre la legge delega inizia il suo percorso in Senato in Commissione Lavoro, il Governo lascia intendere di voler lanciare un “piano Biagi”, ammortizzatori sociali contestuali alle modifiche all’art. 18. Si trovano quasi sempre le parole ( e i soldi) per un compromesso: ma non si è ancora capito che cosa il Governo abbia concretamente in animo di fare quando dice “andiamo avanti”. E comunque questa impostazione non sblocca il contrasto sull’articolo 18, perché la CGIL troppe volte, ultimamente di fronte ai milioni dimostranti a Roma, ha enunciato un principio preciso: diritti e tutele non si scambiano tra di loro. Il Governo spera di convincere CISL e UIL: il riformista osserva che spaccare il sindacato e dare al paese un sistema di ammortizzatori ben disegnato sono obbiettivi molto diversi, anche se non necessariamente incompatibili.

La CGIL, con l’autorità di Sergio Cofferati, ha preso le distanze da propositi del tipo di quelli enunciati da Claudio Sabattini, segretario della FIOM, e ha dichiarato in modo non equivoco che il suo obbiettivo non è quello di dare una spallata al Governo: ma dovrà reagire, e non sembra abbia altra strada che alzare i toni, e fare aumentare la conflittualità nelle aziende. Questo creerà problemi sia al Governo sia all’opposizione.

Al Governo perché una parte del suo elettorato incomincerà a fare i conti con i costi di una condotta politica che ha disperso al vento le buone ragioni della flessibilità e che finisce per raccogliere solo i frutti amari della conflittualità.
Creerà problemi anche all’opposizione: perché non è per nulla automatico che la delusione per un Governo incapace di introdurre riforme senza provocare danni, si traduca in consensi per un’opposizione capace solo di bloccare le riforme producendo danni.

Per raccogliere nell’opinione pubblica i frutti politici degli errori del Governo bisogna che ci sia sul mercato politico un’opposizione credibile che indichi le riforme di cui produttori e consumatori hanno bisogno; e che dia garanzia di saperlo fare contenendo i conflitti sociali in limiti ragionevoli. Occorre un’opposizione riformista, autonoma rispetto al sindacato, alle sue impostazioni teoriche e alle sue battaglie politiche.

E’ disperante vedere come una parte dell’opposizione sprechi le occasioni che così generosamente le offre il governo: le rogatorie, il conflitto di interessi, la Rai, la legge sulle immigrazioni, il divario tra le cose annunciate e le cose fatte; mentre, nonostante una ripresa mondiale sopraggiunta più rapida del previsto, i nostri conti pubblici continuano a viaggiare su un ghiaccio sottile. Se, come fa l’opposizione apocalittica, si demonizza l’avversario, si usa l’indignazione al posto della convinzione, se questo è considerato un regime da abbattere con la piazza o da destabilizzare con i giudici, se non si lavora per sconfiggere Berlusconi con il voto tra 4 anni, ma si mira a rovesciarlo al più presto, allora si spreca un’occasione attualmente molto favorevole. Serve alla sinistra un movimento di “ecologia politica”: no allo spreco, per un’opposizione sostenibile per tutta la legislatura.

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