Tlc, la lezione americana

febbraio 7, 1996


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


La nuova legge americana, sulle telecomunicazioni, che elimina i vincoli che finora segtmentavano il mercato – tra te­lefonia a lunga distanza e telefonia urbana, tra cavo e telefono, tra produttori e distributori di  programmi – è stata accolta con perplessità, o con esplicita preoc­cupazione, da alcuni nostri auto­revoli commentatori.

«La tecno­logia ha sconfitto la politica», scrive Vittorio Zucconi (La Stam­pa del 3 febbraio). Mentre Furio Colombo (Repubblica del 3 e del 4 febbraio) parla di sconfitta del consumatore e di vittoria del «ca­pitalismo dal volto alieno». Sono giustificati, questi severi giudizi? Per rispondere, conviene esami­nare il problema da tre punti di vista: della regolazione, della concreta situazione americana, di quella che perdura in Italia. Lo si farà accompagnando ciascun punto da una citazione del massi­mo, forse, dei teorici del mercato e della concorrenza.

«La soluzione del problema economico della società – scrive Von. Hayek (Il significato della concorrenza, 1946) – è sempre un viaggio esplorativo verso l’igno­to, perché tutti i problemi economici sorgono a causa di cambia­menti imprevisti che richiedono qualche adattamento. Solo ciò che non è stato previsto richiede nuove decisioni». Il fatto nuovo è la rivoluzione digitale, che ha po­sto il regolatore di fronte al suo classico dilemma: se intervenire con regole limitatrici della libertà di impresa proprio per garantire che tale libertà esista per tutti. La concorrenza perfetta è un con­cetto limite, che implica in effetti l’assenza di ogni attività concor­renziale. Il consumatore si av­vantaggia se la concorrenza è tra imprese forti, capaci di investire, di scoprire le possibilità inutiliz­zate offerte dal mutare di merca­to e tecnologia. Perché interveni­re sul mercato separando, quan­do dall’integrazione possono na­scere imprese più forti? Perché un’autorità dovrebbe sapere ex ante e meglio quello che solo il mercato può scoprire?

Secondo: non si può dimenti­care che gli Usa, in nome della concorrenza, hanno avuto il co­

raggio di smantellare l’At&t, l’a­zienda telefonica forse più effi­ciente del mondo; che ciò è stato possibile per l’azione della magi­stratura nonostante l’autorità di controllo fosse stata «catturata» dal monopolista; che da ciò sono nate sette imprese telefoniche re­gionali e tre nella telefonia a lun­ga distanza. In Usa esistono oltre 1500 giornali; una quarta rete televisiva, la Fox, è riuscita a inse­rirsi in un mercato da decenni di­viso fra le tre reti tradizionali; al­la tv via etere si contrappongono numerose tv via cavo. In Usa, dalla liberalizzazione di una rete militare è nato Internet. Difficile sostenere che quel Paese non ab­bia saputo attivare la concorren­za, ingiustificato supporre che l’abbattere le barriere che artifi­cialmente separavano i diversi campi di attività significhi un cambiamento di politica, preluda ad una resa delle esigenze di plu­ralismo alla voracità del big busi­ness. «Le effettive e inevitabili imperfezioni della concorrenza non costituiscono certamente un argomento contro la concorren­za, così come uno stato di salute imperfetto non costituisce un argomento contro la salute in quanto tale».

Dagli Usa volgiamo ora lo sguardo alla situazione italiana. Assai forte è l’impressione che i commenti negativi alle riforme americane siano dovuti al timo­re, in realtà non infondato, di un possibile effetto imitativo che trasferisca tout court il modello Usa alla realtà italiana. Sarebbe questo un macroscopico errore: semmai dobbiamo porci il problema di adattare alla nostra realtà interventi operati in Usa in una fase precedente. In Italia troviamo infatti ancora: nella televisione, l’invadenza del pub­blico, che neppure la volontà po­polare espressa in un referen­dum riesce a scalfire, accanto ad una presenza privata inquinata dal conflitto di interesse; nella telefonia, un onnipotente mono­polio pubblico cui si consente estendersi anche al cavo, per giunta a spese dell’utente; nel sistema bancario pubblico, una concentrazione di interventi in società televisive ed editoriali, sia direttamente sia tramite la raccolta pubblicitaria. Ma so­prattutto c’è da chiedersi se l’e­stendere alla nostra realtà le preoccupazioni che si manife­stano per la deregolamentazione americana paradossalmente non possa portare vantaggi proprio al monopolista. Per batterne il potere, da noi sarebbe invece op­portuno favorire i nuovi entranti consentendo loro quelle conver­genze, tra televisione, produzio­ne di contenuti, telefonia e cavo che nella realtà americana sono viste con sospetto. «E’ sorpren­dente», ed è l’ultima citazione, «quante volte l’entusiasmo per la concorrenza perfetta si trovi a convivere con il sostegno dei monopoli nella pratica». Né Zuc­coni né Colombo possono certo essere sospettati di sostegno ai monopoli: ma se hanno delle ri­serve sulla situazione in Usa, che parole e che proposte trova­no per quella di casa nostra?

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