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→  novembre 22, 2009

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Bene essenziale, ma non conviene farne una guerra di religione

di Massimo Mucchetti

La privatizzazione dell’acqua, avviata dal decreto Ronchi, divide l’Italia. La questione scotta: si può vivere senza petrolio, non senza acqua. E non ci si può nascondere dietro un dito dicendo che la proprietà di quanto immesso nel tubo resta pubblica se il servizio non lo sarà più. Ma ha senso spaccarsi sul piano del principio? La risposta è: no.
Che il gerente dei servizi idrici sia pubblico o privato significa fino a un certo punto. La Germania ha i consumi più virtuosi, le minori dispersioni, Berlino ha l’acqua più cara e la gestione è diffusa in mano ai comuni. La Francia, invece, ha tre colossi quotati in Borsa ma influenzati dal governo. Il Regno Unito ha privatizzato. Negli Usa prevalgono le public authority, enti pubblici senza capitale, e ci sono i consumi più alti del mondo.

Meglio, allora, entrare nel merito. In Italia i servizi idrici appartengono agli enti locali con rare eccezioni: i francesi ad Arezzo, gli spagnoli in Sicilia. Nei 36 comuni di Federutility, avverte la fondazione Civicum, l’acqua costa un euro al metro cubo contro i 2 della media mondiale. Diversamente dal trasporto pubblico locale, in genere la gestione ordinaria degli acquedotti non è sussidiata. Perché allora si vuol privatizzare? Perché molto spesso regnano inefficienza e clientele, gli investimenti scarseggiano, gli acquedotti perdono più dell’accettabile.
Ci vuole una scossa. Ma perché imporre la privatizzazione laddove il servizio idrico funziona? Se non si rischiasse la demagogia, verrebbe voglia di referendum locali. I comuni azionisti di ex municipalizzate quotate in Borsa (A2A, Acea, Hera, Iride) dovrebbero mettere a gara le concessioni idriche e le «loro» società potrebbero partecipare. Bene. Ma si prevede una strana alternativa per i comuni renitenti a gare che potrebbero ridurre i margini sull’acqua: scendere al 30% della società quotata e conservare l’attuale, comoda concessione fino alla scadenza. Che senso ha? Il 30% in mano a un soggetto che non può salire è una quota inutile di fronte a un’ Opa.

L’acqua può attirare grandi operatori esteri come Generale des Eaux o Veolia ma anche speculatori che comprano a debito e poi trovano il modo di non investire. Il ministro Ronchi pensa di cavarsela con protezioni statutarie? A parte la debolezza della soluzione, se così fosse, i comuni continuerebbero a comandare e allora che senso avrebbe costringerli a (s)vendere di questi tempi? Poi ci sono le lacune. Saranno ammessi alle gare anche i pretendenti in conflitto d’interessi? Sarà consentito al gerente di affidare i lavori a proprie imprese quando poi i costi vengono addebitati in tariffa? Silenzio anche sui criteri delle tariffe: su quanto verrà remunerato il capitale investito; su come sarà il price cap, che limita la rivalutazione per l’inflazione delle tariffe, e l’azzeramento periodico delle rendite di monopolio attraverso il meccanismo di claw back. Visti gli «errori» dei governi (di ogni colore) sulle autostrade, è lecito dubitare che i comuni abbiano le competenze per fare meglio sull’acqua. Chi li aiuterà: un’Autorità, la Goldman Sachs o l’amico del sindaco?

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→  novembre 22, 2009

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L’approvazione del decreto Ronchi, battezzato come “privatizzazione dell’acqua”, ha suscitato una reazione negativa singolare per compattezza delle voci e per asprezza dei commenti: l’articolo di Paolo Rumiz (La Battaglia dell’acqua, la Repubblica 18 Novembre) ne è esempio emblematico. La reazione potrebbe essere dovuta a un riflusso negativo verso le privatizzazioni dei Governi Amato e Prodi, perché il tempo sbiadisce il ricordo di quanta fosse l’invadenza dello stato nell’economia, mentre la cronaca offre fresche ragioni per lamentarsi di disservizi.

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→  novembre 22, 2009

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di Alberto Mingardi

In nome dell’acqua bene comune, viene sprecato ogni anno un terzo delle risorse idriche captate. Se si parte da questo dato di fatto, è difficile leggere nella vasta mobilitazione contro “l’acqua ai privati” altro che un tic ideologico.

Con il sì del Senato al decreto Ronchi “salva infrazioni comunitarie”, a partire dal 2011 i servizi pubblici locali dovranno in via ordinaria essere affidati tramite gara. Non è prevista alcuna “privatizzazione dell’acqua”: il tentativo del legislatore è semplicemente quello di razionalizzare la fornitura del servizio. E’ noto quali siano, perlomeno sulla carta, le virtù della gara rispetto all’affidamento “in house”: in primis, una maggiore accountability e meno conflitti di interessi per le Amministrazioni. Quello idrico è un ciclo chiuso:quanti si aggiudicheranno il servizio, si impegneranno a raccogliere l’acqua, renderla potabile, portarla ai rubinetti e smaltirla dopo averla depurata. La gara serve per rendere contendibile un monopolio tecnico, rispetto al quale l’ipotesi di replicare l’infrastruttura è poco praticabile. La parte in commedia assegnata ai privati è fare profitto sulla riduzione dello spreco, ponendo in essere investimenti che il pubblico non potrebbe permettersi o non saprebbe selezionare, per rendere più solide le reti e assicurando una gestione più lineare e imprenditoriale.

Che la riforma dei servizi locali sia andata a segno, è un merito non da poco del governo. Rispetto ai tentativi precedenti, però, bisogna anche segnalare che l’articolato di legge è meno netto sul tema dell’in house. Il ddl Lanzillotta (nella sua prima versione) avrebbe costretto gli enti locali a rimuovere gli impedimenti allo svolgimento delle gare. Con il decreto Ronchi, quest’obbligo non è contemplato e l’affidamento diretto è ancora ammesso sia pure in via “straordinaria” (in presenza di esigenze ambientali o sociali variamente declinabili), e previo parere dell’Antitrust.

L’altro nodo da sciogliere attiene il fronte della regolazione, sul quale non si segnala nulla di nuovo. Sorveglianza e valutazioni tecniche restano in capo ad una Commissione presso il Ministero dell’Ambiente, e alle Autorità di ambito territoriale ottimale. L’idea di un regolatore indipendente (o dell’attribuzione di funzioni specifiche all’Agcm, oppure delle competenze su acqua e rifiuti all’Autorità per l’Energia) per ora non è neppure sulla carta, ma è evidente che se la liberalizzazione deve implicare la “de-politicizzazione” un passo in quella direzione è auspicabile. Il rischio è altrimenti quello di creare delle nuove zone d’ombra fra privato e pubblico, che assieme legittimerebbero i peggiori sospetti e vedrebbero le imprese giocare un ruolo residuale, in buona sostanza finendo per assomigliare a una “burocrazia meno onerosa”. Si perderebbe così parte dei benefici dinamici della concorrenza, quelli legati all’applicazione della creatività imprenditoriale ad un certo settore – e quindi alle innovazioni nella fornitura di un servizio.

Per loro natura, le gare sono strumenti molto imperfetti per sostenere lo sviluppo di questo genere di competizione. Tuttavia, sono l’unica arma attualmente a nostra disposizione, ed è comunque incoraggiante che finalmente il Parlamento abbia cominciato un percorso. Ora si aprono altre partite, persino più vischiose, a cominciare da quelle per il controllo delle aziende municipalizzate quotate di cui dal 2015 il pubblico dovrà possedere meno di un terzo. Sempre che non si continui con la prassi dei rinvii, come verranno scelti e chi saranno i nuovi soci è una questione cruciale, e sarà la cartina di tornasole sia della capacità dei territori di adattarsi alle logiche di mercato, sia della volontà della politica di mollare la presa. Purtroppo le polemiche di questi giorni ci dicono che restiamo liberalizzatori riluttanti, e ci sfugge la lezione più importante. Cioè che è proprio perché si tratta di servizi essenziali, come il pane, che è meglio fare assegnamento sul mercato, che sulla benevolenza del fornaio o del politico.

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Dunque oggi alla Camera si va alla fiducia sull’acqua. Che bisogno aveva il governo di questo mezzo estremo per trasformare in legge un decreto, avendo i numeri di una larga maggioranza? Che fretta c’è su un tema di simile portata? È abbastanza intuibile. Se si affronta un iter normale, le cose vanno per le lunghe visto che il Pd è intenzionato a dar battaglia con l’Italia dei valori.

Entrambi i partiti hanno annunciato un fuoco di sbarramento a suon di emendamenti. Ma se accade, la storia comincia a far rumore; e se fa rumore c’è il rischio che gli italiani mangino la foglia. Cadrebbe la cortina di silenzio che negli ultimi anni ha avvolto il business legato alla distribuzione del più universale e strategico dei beni nazionali.

Il nodo è semplice. Lo Stato è in bolletta, da vent’anni non investe più come si deve sulla rete e oggi meno che mai ha soldi per un’azione di ammodernamento che costerebbe come otto ponti sullo stretto di Messina. Meglio dunque lasciare la patata calda ai privati, che con meno remore politiche potrebbero scaricare sulle tariffe il costo di un’operazione indilazionabile, e che per la mano pubblica è una delle ultime ghiotte occasioni di far cassa. Da qui un decreto che, caso unico in Europa, obbliga a mettere in gara tutti i servizi legati all’acqua e accelerarne la trasformazione in Spa, dimenticando che, quasi ovunque le grandi società sono entrate nel gioco, le tariffe sono aumentate in assenza di investimenti sulla rete.

Ovvio che meno se ne parla, meglio è. Se in Parlamento scatta la bagarre, c’è il rischio che i Comuni virtuosi (inclusi quelli con i colori della maggioranza), che hanno tenuto duro nel non cedere i loro servizi alle società di Milano, Genova, Bologna e Roma, creino un’alleanza per proteggere “l’acqua del sindaco”, cioè il loro ultimo territorio di autogoverno e autonomia dopo la perdita dell’Ici.

Se se ne parla, può succedere che gli utenti apprendano che, laddove le grandi società sono entrate in campo, le perdite della rete sono rimaste le stesse, i controlli di qualità sono spesso diminuiti e magari le tariffe sono aumentate . Magari si capisce che vi sono servizi che non possono essere privatizzati oltre un certo limite, perché allora l’acqua passa al mercato finanziario, diventa quotazione in borsa, e il cittadino non ha più un sindaco con cui protestare dei disservizi, ma solo un sordo “call center” piazzato magari a Sydney, Pechino o New York. No, non si deve sapere che siamo di fronte a un passaggio epocale, di quelli che cambiano tutto, come la recinzione dei pascoli liberi nell’Inghilterra del Settecento.

Non è un caso che si sia tentato di buttare una riforma simile nel pentolone di un decreto omnibus riguardante tutti i pubblici servizi, e non è un caso che – durante la discussione – si sia scorporato dal decreto medesimo il discorso il gas, i trasporti e il nodo delle farmacie. Gas, trasporti e farmacie erano la foglia di fico. Se oggi nel decreto su cui si pone la fiducia rimane solo l’acqua con i rifiuti, significa che l’acqua e i rifiuti sono il grande affare indilazionabile, l’accoppiata perfetta su cui si reggono i profitti delle multi-utility, e parallelamente le ingordigie della criminalità organizzata. Non è un caso che si parli tanto di “oro blu”.

La storia dell’umanità lo dice chiaro. Chi governa l’acqua, comanda. Le prime forme di compartecipazione democratica dal basso sono nate in Italia attorno all’uso delle sorgenti, quando i paesi e le frazioni hanno pensato ad affrancarsi grazie all’acqua. Lo scontro non è tra pubblico e privato, ma tra controllo delle risorse dal basso e delega totale dei servizi, con conseguente, lucroso monopolio di alcuni. Oggi potremmo dover rinunciare a un pezzo della nostra sovranità.

Paolo Rumiz

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→  novembre 5, 2009

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L’acqua è un bene pubblico, non ci piove. Dacia Maraini, che se ne preoccupa nella sua rubrica di martedì, può stare tranquilla. Che però a un certo punto diventa privato. Perde la sua natura pubblica quando fa girare le turbine (private) che producono elettricità? Quando irriga campi privati? E quella del rubinetto, lo diventa quando riempie il bicchiere? Come gli altri beni della terra, l’acqua è un bene pubblico, e il suo essere pubblico si realizza quando le usa il pubblico vero, l’“utilizzatore finale”. Quello che conta non è l’“in sé” del bene, ma il modo con cui viene usato. Bisogna distinguere il bene dal servizio.

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→  novembre 3, 2009

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In Senato si discute una legge sullo sfruttamento dell’«oro del futuro»

di Dacia Maraini

Ci sono poche notizie sui giornali e nessuna in Tv sulla privatizzazione dell’acqua. Eppure proprio in questi giorni si decide del nostro futuro. Si sta discutendo infatti in Senato la nuova legge che esclude ogni gestione pubblica delle acque. Non si tratta di un dilemma solo nostro. Tanti Paesi del mondo si stanno chiedendo, su stampa e televisione, fino a che punto sia lecito privatizzare un bene comune, di cui tutti dovrebbero disporre.
Il fatto è che l’acqua è in procinto di diventare l’oro del futuro e c’è chi pensa di guadagnarci sopra. Da qui la fretta di alcune grandi multinazionali per accaparrarsi i diritti di erogazione. Ho già scritto sull’ argomento. E c’è chi mi ha risposto sostenendo che le mie preoccupazioni sono esagerate perché la proprietà delle sorgenti e delle reti resterà comunque pubblica nonostante la cessione alle ditte private. Ma il diritto all’acqua si esplica solo se questa sgorga dal rubinetto e se è potabile. Il cittadino non va con il secchio al pozzo o alla sorgente o si mette in fila all’ acquedotto.
Il diritto all’acqua potabile si esercita solo attraverso la gestione e l’erogazione. In quasi tutta Europa d’altronde la privatizzazione si è bloccata o addirittura, come succede in Francia, è in atto un processo di ripubblicizzazione. La Svizzera ha dichiarato l’acqua e le reti idriche monopolio di Stato, non suscettibile di privatizzazione. Il Belgio ha fatto una legge per cui tutti i rubinetti vengono gestiti da Spa «in house», ovvero il cui pacchetto azionario è tutto in mano ai Comuni. Gli Stati Uniti rifiutano di privatizzare la gestione delle reti idriche locali che restano salde in mano ai Municipi. In tutta l’America latina poi e in atto un grande laboratorio sui beni comuni. In Uruguay, Bolivia, Ecuador e ora in Cile i parlamenti cambiano addirittura le Costituzioni per affermare tali principi. Da ricordare che in Cile la privatizzazione è avvenuta appena Pinochet è andato al potere. Oggi il governo cileno sta tornando alla proprietà pubblica. Ma perché preoccupa tanto la gestione privata delle acque? Il fatto è che quando un bene così importante passa nelle mani dei privati, la prima conseguenza è la diminuzione dei controlli, la seconda è che aumentano i prezzi (è successo a Latina dove la cessione alla multinazionale Veolia ha portato all’aumento delle tariffe del 300%) e spesso vi si infila pure la mano della criminalità organizzata (cosa accaduta in Sicilia e in Calabria).
La Lega che era contraria alla privatizzazione, da ultimo ha cambiato idea. Perché? Oggi firma una legge Fitto-Calderoli che propone addirittura di fare scendere al 30% la partecipazione dei Comuni per le società di gestione già quotate in borsa. Ai senatori e ai parlamentari chiediamo che riflettano prima di approvare una legge che arricchirà le grandi aziende private (quelle piu favorite oggi sono straniere) e impoverirà le nostre amministrazioni pubbliche.

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