→ giugno 15, 2015
Il capitale sociale chi non ce l’ha non se lo può dare. Caro, Renzi, ecco perché un’Unione federale in Europa non curerebbe i vizi greci e nemmeno quelli (minori) italiani
Davvero la lezione dalla vicenda greca, comunque vada a finire, è che bisogna fare un passo avanti verso un’ulteriore cessione di sovranità, un‘unione fiscale e politica, con un proprio bilancio capace di assorbire gli choc, con un politico e non un tecnocrate al governo dell’economia, come dice Sandro Gozi, sottosegretario con delega agli affari europei? (la Repubblica 12 giugno)
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→ giugno 15, 2015
articolo collegato di Angelo Panebianco
D a decenni, con un’accelerazione dopo il varo della moneta unica, tanti invocano l’integrazione politica come panacea dei mali d’Europa. C’è del giusto. Non appare sostenibile la moneta unica in assenza di una «sintesi politica», di un sistema di governo. Semplice buon senso. In questi ragionamenti, però, c’è sempre stato anche qualcosa di poco convincente. Non è chiaro se chi invoca l’integrazione politica si renda pienamente conto delle implicazioni. Si ha l’impressione che molti la immaginino come una specie di assemblea di quartiere «in grande», nella quale si formano disciplinate maggioranze che decidono sulle proposte della giunta di quartiere su come ripartire oneri e vantaggi. Non c’è mai stato niente di più «spoliticizzato» della concezione della politica prevalente in quei commenti. Per ragioni che attengono alla storia dell’integrazione europea, l’idea di politica che vi è stata appiccicata sopra è quella che poteva inventarsi (con l’interessata complicità dei governi) un club di tecnocrati convinti che le decisioni che contano dovessero essere prese all’interno del club medesimo: gente educata e preparata che pacatamente discute del bene comune. Il popolo, poi, null’altro avrebbe dovuto fare che avallare le lungimiranti decisioni. Niente di più lontano da ciò che la politica è: conflitti di potere in cui si consumano ambizioni personali e di gruppo, e scontri frontali, e spesso feroci, fra contrapposte visioni di ciò che è collettivamente bene o male.
La politica, quella vera, si fonda sul principio dell’inclusione e dell’esclusione sulla base di criteri predefiniti (tu sei dentro e tu sei fuori) e ha un rapporto intimo, e inesorabile, con l’uso della forza. C’è una spiegazione del perché la concezione della politica prevalente sia stata quella del suddetto club di tecnocrati. Era l’idea di politica propria di un’Europa che non contava politicamente più nulla. Quando l’integrazione europea mosse i primi passi, negli anni Cinquanta, e ancora nei decenni successivi, l’Europa era divisa fra sfere di influenza, dipendeva dalle superpotenze. È parte della retorica europeista la bugia secondo cui gli europei decisero di mettersi insieme perché non volevano più farsi la guerra come era avvenuto per secoli. Invece, gli europei si misero insieme perché non potevano più farsi la guerra: non erano più il centro del mondo, ora dipendevano dagli americani e dai russi. Poiché la politica (in quel suo aspetto fondamentale che riguarda le decisioni su guerra e pace e sull’uso della coercizione) era competenza delle superpotenze, poiché l’Europa era ormai solo spettatrice delle gare di potenza, ne derivò una concezione irrealistica, distorta, di ciò che avrebbe significato, nei decenni a venire, unificarla politicamente. Ora le illusioni dovrebbero essere cadute. Se era comprensibile fino a qualche anno fa che si pensasse all’integrazione nei termini sopra descritti, adesso che la politica, quella vera, è venuta a cercarci, diventa colpevole insistere. Altro che Grecia. Che fare con la Russia o con le popolazioni in movimento dall’Africa e dal Medio Oriente, o con lo tsunami dell’estremismo islamico? Che fare insomma con i grandi nodi geopolitici? Sulla Russia, ad esempio, gli europei hanno adottato una posizione comune (le sanzioni) ma una parte di loro la subisce, si è dovuta inchinare di malavoglia a ciò che resta della leadership americana. Ma quella parte d’Europa è anche pronta, se potrà, ad accordarsi con lo zar delle Russie. Ma una cosa è dire che della collaborazione dei russi abbiamo bisogno (per esempio, in Medio Oriente), una cosa diversa è aspettare l’occasione per normalizzare i rapporti con loro fingendo che, dall’occupazione della Crimea in poi, nulla sia successo. Che razza d’Europa hanno in mente coloro che, ragionando solo di esportazioni e importazioni, pensano sia possibile una rinnovata partnership con Putin alle condizioni di quest’ultimo? È il solito vuoto, il solito «nulla politico», di cui in Europa esistono fior di cultori e specialisti.Sull’immigrazione si è scatenata una competizione di stampo nazionalista fra i Paesi europei. Renzi, nell’intervista di ieri al Corriere , ha sostenuto con ragione che dobbiamo battere i pugni in Europa e che lo stiamo facendo. Ma è un fatto che i vari governi europei, pronti a lasciare l’Italia nelle peste, non sono «cattivi», sono pressati da opinioni pubbliche che pretendono argini contro i flussi migratori. E in democrazia, ciò che vogliono le opinioni pubbliche è «legge» per i governi. Nulla meglio dell’incapacità di elaborare una politica comune dell’immigrazione illustra quanto ingenue siano sempre state le idee prevalenti sulla «integrazione politica». C’è qualcosa che si può fare? Sì, ma occorre tempo. Si elimini per sempre, quando si parla di Europa, qualunque riferimento alla parola «Stato» o simili: non ci sarà mai nessuno Stato europeo e genera crisi di rigetto il solo accennarvi. Come la Lega anseatica, la confederazione di città mercantili tedesche del tardo Medio Evo, abbiamo bisogno di mettere in comune poche cose e dobbiamo spiegarlo bene agli europei: niente superstato, niente scavalcamento (se non per il poco che è indispensabile) delle democrazie nazionali, solo un ristretto insieme di decisioni comuni per fronteggiare le più insidiose sfide esterne. Abbiamo effettivamente bisogno di politica. Ma anche di sapere di che cosa stiamo parlando .
→ giugno 15, 2015
articolo collegato di Lorenzo Bini Smaghi
Ogni giorno che passa senza che l’Europa riesca a concludere un accordo con la Grecia fa aumentare il rischio di uscita di quel Paese dall’euro. I mercati finanziari, e molti osservatori, non sembrano tuttavia preoccuparsene, convinti che alla fine un accordo si troverà o che, nel peggiore dei casi, la Banca centrale europea (Bce) scenderà in campo per evitare il contagio agli altri Paesi. Eppure la tesi secondo cui la politica monetaria può riuscire, da sola, ad evitare gli effetti collaterali delle crisi sui mercati finanziari e sull’economia reale si è dimostrata errata in passato, non ultimo dopo il fallimento della Lehman brothers nel settembre 2008. Lo sarebbe anche nel caso post-Grexit, per vari motivi. In primo luogo, la politica del Quantitative easing avviata dalla Bce all’inizio di quest’anno ha contribuito a ridurre i tassi d’interesse e gli spread , ma non può evitare eventuali rimbalzi, anche ingenti, come quello che si è verificato sul mercato dei titoli di Stato europei nelle ultime settimane. Di fronte a nuove turbolenze, provocate in particolare dall’uscita dalla Grecia dall’euro, la Bce potrebbe accelerare il ritmo di acquisto dei titoli, attualmente pari a 60 miliardi al mese per l’insieme dell’area. Ma il vincolo della ripartizione geografica del programma di acquisto tra i titoli dei diversi Paesi e quello mirato ad evitare che la Bce detenga più del 33 per cento del debito di ciascun Paese può rappresentare un limite alla portata dell’operazione.L’istituto di Francoforte potrebbe far ricorso ad un altro strumento di politica monetaria, l’Omt ( Outright Monetary Transaction ), annunciato nel settembre 2012 per difendere i Paesi membri dal rischio di uscita. Ci si dimentica tuttavia troppo spesso che la Bce ha chiaramente indicato che questo intervento può essere effettuato solo nei confronti dei Paesi che si sottopongono ad un programma di aggiustamento con le istituzioni europee. Questa condizione è politicamente impegnativa, visto che la Spagna, il Portogallo e l’Irlanda sono già usciti dai rispettivi programmi di risanamento e che Cipro intende farlo entro la fine dell’anno, mentre altri Paesi – incluso il nostro – hanno sempre sostenuto di non volervi far ricorso ad alcun costo. La Bce potrebbe decidere di intervenire in modo ancor più flessibile e proattivo, anche con nuovi strumenti, per contrastare tensioni eccezionali sui mercati finanziari. Tuttavia, l’esperienza dimostra che difficilmente ciò può avvenire senza una copertura politica a livello europeo, che dia un chiaro segnale di forte rafforzamento istituzionale dell’Unione. Nel Maggio 2010 la Bce decise di intervenire in acquisto di titoli di Stato greci, portoghesi e irlandesi solo dopo l’annuncio della creazione del Fondo salva Stati. Nell’estate 2012 l’Omt fu adottato solo dopo la decisione del Consiglio europeo di dar vita all’unione bancaria.Sono circolate, nei giorni scorsi, varie proposte, incluse quelle di alcuni Paesi membri, per rafforzare le istituzioni politiche europee e consolidare l’unione monetaria. Queste proposte non sembrano tuttavia sufficientemente ambiziose da indurre la Bce ad assumersi da sola il rischio di intervenire in un contesto politico incompleto. Ci vuole ben altro per convincere gli operatori di mercato, e i cittadini dei vari Paesi, che il caso greco è una eccezione, che non si ripeterà più. Sono necessarie ulteriori misure di mutualizzazione dei rischi – come una assicurazione comune dei depositi bancari e un fondo di risoluzione bancario più ampio e pronto ad agire – oltre ad ulteriori cessioni di sovranità in campo fiscale, per consolidare l’irrevocabilità della moneta unica. Ma è difficile che le autorità nazionali si privino dei loro poteri e accettino, senza esservi spinte, ulteriori iniziative di integrazione. La storia rischia così di ripetersi. La sottostima dei problemi, e la speranza che siano altri a risolverli fa rimandare le decisioni più difficili, fin quando non scoppia una crisi, con ripercussioni impreviste, che mette le istituzioni politiche nazionali con le spalle al muro. Solo in quelle condizioni capiscono che è venuto il momento di condividere la sovranità. Come diceva Jean Monnet, «l’Europa si farà attraverso le crisi, e sarà costituita dalla sommatoria delle soluzioni che saranno date a queste crisi». La frequenza con cui devono avvenire le crisi in Europa per far proseguire il processo di integrazione appare tuttavia eccessiva.
→ giugno 14, 2015
articolo collegato di Luigi Zingales
L’articolo di Francesco Giavazzi sulla Grecia, apparso sul FT, ha scatenato un sacco di reazioni viscerali, ma non è stato analizzato per ciò che significa rispetto al cambiamento di atteggiamento dell’élite europea nei confronti del progetto europeo.
Si capisce che un ideale è in difficoltà quando anche i più convinti sostenitori cominciano a prenderne le distanze. Per questo motivo, l’articolo di Giavazzi suona come una campana a morto per l’ideale di un’Europa unita. A lungo collaboratore e amico di Carlo Azeglio Ciampi (che ha portato l’Italia nell’euro) e del presidente della BCE Mario Draghi, Giavazzi è stato, appunto, uno dei più convinti sostenitori dell’euro e del processo di unificazione europea. Sostegno e convinzione entrambi difficili da scorgere nel suo articolo (anche se immagino che negherà).
L’articolo tocca diversi punti importanti: che il debito greco è insostenibile, che la sola riduzione di questo debito non produrrà automaticamente ricchezza, che il resto d’Europa non può imporre riforme in Grecia e che anche gli europei hanno commesso errori. Ma questi punti sono inseriti in un contesto che da un lato sembra ignorare il “peccato originale” della zona euro e dall’altro cerca di scaricare tutte le responsabilità sul comportamento dei greci. Questo atteggiamento non solo non è giusto nei confronti della Grecia, ma è pericoloso per l’Europa perché porta alla conclusione – sostenuta nell’articolo – che amputando l’arto greco canceroso, si risolve il problema europeo. Questa è un’enorme illusione, dato che il problema non è solo in un arto, ma pervade l’essenza dell’unione monetaria.
Espellere la Grecia non risolverà il problema, solo ne rinvierà la necessaria soluzione.
Non vi è dubbio che i governi greci abbiano mentito (più di quelli di altri paesi) e che la situazione fiscale greca nel 2010 fosse insostenibile, dentro o fuori dall’euro. Tuttavia, in situazioni analoghe la ricetta del FMI ha comportato austerità più un generoso taglio del debito. Perché in questo caso il taglio non è stato imposto? Se non lo si è fatto per preservare la stabilità del sistema finanziario europeo, perché l’intero costo di questo intervento è stato fatto pagare alla sola Grecia? Negli Stati Uniti – che correttamente Giavazzi indica come riferimento di unione che funziona – il costo del piano di salvataggio delle banche è stato sostenuto da tutti i contribuenti, non solo da quelli del Nevada e della Florida, dove la crisi è stata più grave.
In una vera e propria unione monetaria – come gli Stati Uniti – la redistribuzione fiscale non è limitata all’unione bancaria, ma comprende anche trasferimenti fiscali automatici (come l’assicurazione federale contro la disoccupazione) e trasferimenti ad hoc. Un terzo del pacchetto di stimolo da 800 miliardi di dollari approvato da Obama nel 2009 conteneva trasferimenti eccezionali agli stati.
Cosa e quanto ha fatto l’Unione europea per i paesi più colpiti dalla crisi?
Nel suo confronto con gli Stati Uniti, tuttavia, Giavazzi ha un lapsus freudiano molto rivelatore, quando confronta Angela Merkel con Barack Obama. A differenza di Obama, Angela Merkel, non è il presidente legittimamente eletto dell’Unione, ma semplicemente il capo dello Stato più potente. È più come Andrew Cuomo, governatore dello stato di New York, o Jerry Brown, governatore della California. Che lei sia responsabile dei negoziati rivela l’errore fondamentale dei padri fondatori dell’euro: realizzando l’unione monetaria prima dell’unione politica, hanno creato non un’unione democratica, ma una egemonia tedesca.
Negli Stati Uniti anche gli stati più piccoli hanno due senatori, lo stesso numero di quelli più grandi. Questo dispositivo costituzionale assicura che sarà fatto l’interesse di tutto il popolo americano, non solo di quello dello stato economicamente più potente. Al contrario, l’approccio intergovernativo europeo, fa sì che l’Unione europea sia gestita principalmente nell’interesse di tedeschi e francesi. E non dei popoli tedesco e francese, ma delle banche tedesche e francesi. Nel 2010, quando queste erano pesantemente esposte verso la Grecia, “salvare” la Grecia era una priorità. Ora che hanno scaricato il loro discutibile credito sulle spalle dei contribuenti europei, sono felici di lasciare andare la Grecia.
Il merito dell’articolo di Giavazzi è quello di rendere molto chiara la posizione dell’élite pro-Europa. La Grecia non è essenziale per salvare il progetto europeo nella forma attuale. Si sta quindi cercando di correggere un errore con un altro errore. Il progetto europeo nella forma attuale non è sostenibile e non per colpa della Grecia.
È arrivato il momento di riconoscerlo e fare del nostro meglio per risolvere il problema.
→ giugno 14, 2015
di Francesco Giavazzi
Da oltre 5 anni è la Grecia il problema che più preoccupa l’Europa: non il lavoro, non l’immigrazione e nemmeno la Russia di Putin, ma un Paese che rappresenta meno del 2 per cento del Prodotto interno lordo (Pil) delle nazioni che partecipano all’unione monetaria. Sarebbe interessante calcolare quante ore la signora Merkel ha dedicato ad Atene in questi 5 anni. Che penseremmo se scoprissimo che il presidente Obama dedica altrettanto tempo ai problemi del Tennessee, uno Stato che conta, nella federazione americana, un po’ più della Grecia nell’eurozona?
In questi 5 anni il mondo, soprattutto in Oriente, è cambiato. In Cina e India sono saliti al potere politici nuovi, che hanno rotto con il passato. A Pechino il presidente Xi Jinping ha avviato un processo di riforme che ha un solo precedente: Deng Xiaoping all’inizio degli Anni 90. In India Modi ha messo fine a sei decenni di predominio politico della famiglia Gandhi e soprattutto rivendica la matrice induista del Paese. Noi invece, anziché chiederci quale Europa possa far sentire la propria voce e difendere i propri interessi, economici e militari, in un mondo geograficamente e politicamente in forte mutamento, passiamo le giornate a parlare di Grecia.
Dopo 5 anni di discussioni che non hanno prodotto alcuna riforma significativa – le poche fatte, come il tentativo di ridurre il numero di dipendenti pubblici, sono state in gran parte rovesciate da Tsipras – è ormai evidente che i greci non pensano che la loro società debba essere modernizzata e resa più efficiente. Sembrano non preoccuparsi di un sistema che per oltre quarant’anni, dagli anni 70 ad oggi, ha aumentato il numero degli occupati nel settore privato al ritmo dell’uno per cento l’anno, mentre i dipendenti pubblici crescevano del quattro per cento l’anno con un sistema di reclutamento fondato per lo più sulla raccomandazione politica.
Certo, anche gli europei hanno sbagliato. Da quando, nel 2002, Atene è entrata nell’unione monetaria abbiamo prestato alla Grecia oltre 400 miliardi di euro (circa due volte il Pil del Paese) senza chiederci se quella cifra sarebbe mai stata ripagata. È però inutile oggi sprecar tempo, coltivando l’illusione, che ha sfiorato i finlandesi, che forse potremmo venir ripagati in natura, con la cessione di qualche isola. Le cannoniere britanniche dell’Ottocento fortunatamente non ci sono più. Il passato è passato, meglio metterci una pietra sopra.
E se i greci non vogliono modernizzarsi, inutile insistere: d’altronde hanno votato a gran maggioranza un governo che continua ad essere popolare. Hanno scelto, spero consciamente, di rimanere un Paese con un reddito pro capite modesto, metà dell’Irlanda, inferiore a Slovenia e Corea del Sud, che fra qualche anno verrà superato dal Cile. Spero che però nessuno ad Atene si illuda che fuori dall’euro, anche una volta cancellato il debito, inflazione e svalutazione possano essere un’alternativa a rendere l’economia più efficiente.
Penso sia venuto il momento di chiederci quanto sia importante per noi tenere la Grecia nell’Unione Europea, perché di questo si tratta: se Atene abbandonasse l’euro dovrebbe anche uscire dall’Ue. Il criterio non può essere la difesa dei nostri crediti, che comunque non potranno essere recuperati. A guidarci non può essere nemmeno quanto rischi l’unione monetaria che ormai, grazie alla Banca centrale europea, è sufficientemente robusta per poter affrontare l’uscita di un Paese come la Grecia.
La vera domanda è quanto ci interessa mantenere in Europa non tanto il museo della nostra civiltà, quanto soprattutto la delicata cerniera geopolitica fra Europa e Paesi islamici, in primis la Turchia. Il che non significa cedere al ricatto di Tsipras, ma accettare il rischio che comporta la condivisione della moneta con un Paese che ha liberamente deciso di non volersi modernizzare. Ma il salto politico necessario per porci questa domanda non siamo in grado di farlo. L’unione monetaria ha avuto il grande merito di accelerare l’integrazione economica – si pensi al trasferimento a Francoforte della vigilanza sulle banche – ma non può essere un sostituto dell’integrazione politica. Se la crisi greca ci aiuterà a comprenderlo, non saranno stati 5 anni spesi invano .
→ giugno 14, 2015
by Wolfgang Münchau
So here we are. Alexis Tsipras has been told to take it or leave it. What should he do?
The Greek prime minister does not face elections until January 2019. Any course of action he decides on now would have to bear fruit in three years or less.
First, contrast the two extreme scenarios: accept the creditors’ final offer or leave the eurozone. By accepting the offer, he would have to agree to a fiscal adjustment of 1.7 per cent of gross domestic product within six months.
My colleague Martin Sandbu calculated how an adjustment of such scale would affect the Greek growth rate. I have now extended that calculation to incorporate the entire four-year fiscal adjustment programme, as demanded by the creditors. Based on the same assumptions he makes about how fiscal policy and GDP interact, a two-way process, I come to a figure of a cumulative hit on the level of GDP of 12.6 per cent over four years. The Greek debt-to-GDP ratio would start approaching 200 per cent. My conclusion is that the acceptance of the troika’s programme would constitute a dual suicide – for the Greek economy, and for the political career of the Greek prime minister.
Would the opposite extreme, Grexit, achieve a better outcome? You bet it would, for three reasons. The most important effect is for Greece to be able to get rid of lunatic fiscal adjustments. Greece would still need to run a small primary surplus, which may require a one-off adjustment, but this is it.
Greece would default on all official creditors – the International Monetary Fund, the European Central Bank and the European Stability Mechanism, and on the bilateral loans from its European creditors. But it would service all private loans with the strategic objective to regain market access a few years later.
The second reason is a reduction of risk. After Grexit, nobody would need to fear a currency redenomination risk. And the chance of an outright default would be much reduced, as Greece would already have defaulted on its official creditors and would be very keen to regain trust among private investors.
The third reason is the impact on the economy’s external position. Unlike the small economies of northern Europe, Greece is a relatively closed economy. About three quarters of its GDP is domestic. Of the quarter that is not, most comes from tourism, which would benefit from devaluation. The total effect of devaluation would not be nearly as strong as it would be for an open economy such as Ireland, but it would be beneficial nonetheless. Of the three effects, the first is the most important in the short term, while the second and third will dominate in the long run.
Grexit, of course, has pitfalls, mostly in the very short term. A sudden introduction of a new currency would be chaotic. The government might have to impose capital controls and close the borders. Those year-one losses would be substantial, but after the chaos subsides the economy would quickly recover.
Comparing those two scenarios reminds me of Sir Winston Churchill’s remark that drunkenness, unlike ugliness, is a quality that wears off. The first scenario is simply ugly, and will always remain so. The second gives you a hangover followed by certain sobriety.
So if this were the choice, the Greeks would have a rational reason to prefer Grexit. This will, however, not be the choice to be taken this week. The choice is between accepting or rejecting the creditors’ offer. Grexit is a potential, but not certain, consequence of the latter.
If Mr Tsipras were to reject the offer and miss the latest deadline – the June 18 meeting of eurozone finance ministers – he would end up defaulting on debt repayments due in July and August. At that point Greece would still be in the eurozone and would only be forced to leave if the ECB were to reduce the flow of liquidity to Greek banks below a tolerable limit. That may happen, but it is not a foregone conclusion.
The eurozone creditors may well decide that it is in their own interest to talk about debt relief for Greece at that point. Just consider their position. If Greece were to default on all of its official-sector debt, France and Germany alone would stand to lose some €160bn. Angela Merkel and François Hollande would go down as the biggest financial losers in history. The creditors are rejecting any talks about debt relief now, but that may be different once Greece starts to default. If they negotiate, everybody would benefit. Greece would stay in the eurozone, since the fiscal adjustment to service a lower burden of debt would be more tolerable. The creditors would be able to recoup some of their otherwise certain losses.
The bottom line is that Greece cannot really lose by rejecting this week’s offer.