→ novembre 15, 2008

L’instabilità finanziaria ha svelato gli effetti della circolarità perversa tra aiuti, azzardo morale e regolazione. Un’autorità mondiale da Bretton Woods 2
“Quelli di noi – ed io in primo luogo – che avevano pensato che bastasse l’interesse delle istituzioni che erogano il credito a proteggere gli investimenti degli azionisti, oggi sono colpiti nelle loro convinzioni”. Anche dopo la sua uscita di scena, le parole di Alan Greenspan lasciano il segno.
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→ novembre 2, 2008

di Stefano Feltri
UNTORI. Si temeva che potessero scatenare una crisi globale e invece ne sono vittima. Ma i fondi speculativi restano il simbolo di una finanza sofisticata e alimentata dal debito che molti sperano venga spazzata via. Eppure, dicono i loro sostenitori, sono più trasparenti delle banche. Dibattito dopo il caso Porsche-Volkswagen.
Secondo Giluio Tremonti sono «entità assolutamente folli», che «non hanno nulla a che fare con il capitalismo». In questa fase della crisi non si possono più attaccare gli speculatori sulle materie prime (i prezzi sono scesi) e prendersela con i banchieri è troppo facile, quindi il ruolo di capri espiatori per la catastrofe finanziaria è passato ai fondi speculativi che di mestiere comprano azioni che ritengono sottovalutate e ne vendono altre giudicate sopravvalutate, il tutto finanziandosi con i soldi delle banche.
Dopo le analisi dell’economista Nouriel Roubini dell’Economist, la polemica è arrivata anche in Italia sulle colonne dei Corriere della Sera dove Massimo Mucchetti applaude al «bagno di umiltà» cui sono stati costretti i gestori dei fondi hedge: devono rassegnarsi ad ammettere che, a differenza “di quanto promettevano, non sono in grado di garantire alti rendimenti sia quando i mercati salgono (facile) che quando scendono (molto più difficile)”.
Lo spunto è il caso Volkswagen: da tempo il gruppo Porsche diceva di voler comprare azioni di Volkswagen (oltre a quelle già in suo possesso), voci che hanno spinto in alto il titolo fino a un livello che gli osservatori hanno giudicato eccessivo.
In settimana fondi hedge hanno quindi cominciato a scommettere che il prezzo sarebbe sceso: stipulano un contratto con una controparte con cui si impegnano a consegnare domani delle azioni Volkswagen (che ancora non possiedono) al prezzo di oggi. Se la scommessa funziona, il fondo compra l’azione quando è già scesa di prezzo, la gira alla controparte al prezzo superiore concordato prima e intasca la differenza.
Quello che i fondi non potevano sapere era che, di nascosto, Porsche aveva rastrellato quasi tutte le azioni Volkswagen disponibili sul mercato e quindi, quando è arrivato il momento di comprare le azioni per onorare il contratto, gli hedge fund hanno dovuto farlo a un prezzo molto più elevato (sono salite da 200 a 1000 euro), contendendosi le poche rimaste sul mercato.
Sempre sul Corriere, Franco De Benedetti ha replicato dicendo che «in realtà chi critica gli hedge fund fa, certo involontariamente, il gioco di chi vuole un mercato poco trasparente perché lì può fare quel che vuole». I fondi hedge, dice la teoria economica (e i dati lo confermano), contribuiscono a fissare il giusto prezzo sui mercati, perché identificano ed eliminano gli eccessi, in alto o in basso, nelle quotazioni dei titoli. Ma Porsche si è mossa nell’ombra, sfruttando l’opacità del mercato tedesco, e ha trasformato una decisione razionale dei gestori di fondi in una catastrofe (per loro).
Eppure la caccia agli untori che hanno portato la crisi continua a indicare gli hedge fund, maltrattati dalle Borse di tutto il mondo che vietano la pratica del nakedshort selling (la vendita di titoli che non si possiedono). Molti invocano nuove regole per il settore degli hedge che è meno regolato di quello delle banche, ma non si discute mai dell’efficacia delle norme, che per le banche erano già rigide ma si sono rivelate inutili.
Si temeva che i fondi potessero innescare una crisi bancaria non rimborsando i debiti e invece sono stati i fallimenti bancali a mettere in crisi i fondi, strozzati dall’assenza di liquidità.
Mentre le banche nascondevano fuori bilancio i titoli tossici e bruciando i soldi dei risparmiatori in investimenti sbagliandi, i fondi dovevano rendere conto dei propri risultati ogni tre mesi, incassando commissioni solo al raggiungimento degli obiettivi.
La scarsa trasparenza rimproverata ai fondi sembra piuttosto tìpica del sistema bancario: anche nel mezzo della crisi c’è una grande banca italiana che riesce a vendere ai propri clienti le sue obbligazioni con un rendimento del cinque per cento inferiore rispetto a quello che deve pagare agli investitori professionisti.
Ma nessun governo sembra intenzionato a soccorrere i fondi, mentre le banche vengono salvate con il denaro pubblico.
ARTICOLI CORRELATI
Gli hedge funds e il caso Volkswagen
di Franco Debenedetti – Il Corriere della Sera, 01 novembre 2008
La crisi degli hedge funds «Una mina contro il sistema»
di Massimo Mucchetti – Il Corriere della Sera, 31 ottobre 2008
→ novembre 1, 2008

Interventi e repliche
«Il caso Volkswagen, scrive Massimo Mucchetti, ha messo gli hedge funds addirittura in ridicolo» (Corriere, 31 ottobre). Avevano venduto titoli VW contando che la recessione colpisse tutti i titoli ciclici. Ma nel frattempo Porsche, che ufficialmente aveva il 35% della VW, aveva aumentato il suo controllo fino al 74,1%, usando strumenti che in Germania consentono di non rivelare al mercato l’incremento della partecipazione. Così il circolante si era ridotto al 5,8%: la necessità di ricoprirsi a qualsiasi prezzo ha fatto schizzare il titolo da 210 euro a 1.005 euro, facendo di VW la prima società al mondo per capitalizzazione, e facendo perdere ai fondi hedge da 20 a 30 miliardi di euro.
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→ ottobre 31, 2008

L’allarme della Banca d’Inghilterra
di Massimo Mucchetti
Il McKinsey Global Institute li aveva eletti nell’ottobre 2007 tra i nuovi power brokers del capitalismo, assieme ai fondi sovrani, alle banche centrali dei Paesi orientali e ai fondi di private equity.
Adesso, per la Banca d’Inghilterra gli hedge funds rappresentano la mina che insidia il sistema finanziario nonostante la rete di protezione distesa dai governi attorno alle banche. Questi fondi si sono proposti per anni come i più raffinati investitori, capaci di scommettere al rialzo e al ribasso per premiare i meritevoli incompresi e punire i palloni gonfiati.
Assicuravano, si diceva, l’igiene dei mercati, con la puntuale contestazione dei giochi di potere dei top manager e degli azionisti di controllo. Eppure, anch’essi avevano un limite serio – il ricorso eccessivo al debito – e gravi vizi costituzionali – l’opacità dei comportamenti, l’allergia alla regolazione che consentiva loro anche la collusione con i gerenti delle imprese nelle fasi di rialzo. E così, proprio pochi giorni fa, i supponenti hedge devono incassare l’allarme della banca centrale inglese che, nel suo Financial Stability Report di ottobre, scrive: «Mentre i primi segnali di stabilizzazione nella raccolta bancaria sono incoraggianti, restano ancora rischi nel più ampio sistema finanziario.
Uno di questi è che gli investitori indebitati, come gli hedge funds, possano essere costretti a liquidare i propri attivi a causa delle condizioni più restrittive del credito». Del resto, il caso Volkswagen li ha messi addirittura in ridicolo. Convinti di poter guadagnare facilmente vendendo allo scoperto e a termine i titoli della casa di Wolfsburg sull’onda lunga dei ribassi nel settore automobilistico, gli hedge hanno avuto la sorpresa di non trovarne più al momento delle ricoperture: nel frattempo, infatti, la Porsche aveva rastrellato in silenzio ben più solide opzioni per salire al 75% del capitale, una quota che, sommata alla partecipazione del Land della Bassa Sassonia, riduceva al lumicino i titoli disponibili per la compravendita.
Al dunque, per onorare i contratti, gli hedge hanno dovuto comprare a prezzi irreali perdendo, stima il Financial Times, 20-30 miliardi di euro. Wendelin Wiedeking, il leader della Porsche, era stato censurato due anni fa dal quotidiano britannico. Facendo propria l’opinione degli hedge funds della City, la Lex column avrebbe preferito la redistribuzione della liquidità agli azionisti anziché il reinvestimento in Volkswagen inseguendo le ambizioni manifatturiere degli storici azionisti di riferimento Porsche e Piëch. Alla prova dei fatti Wiedeking e i suoi soci si sono rivelati industriali forti e finanzieri assai più brillanti dei rapaci cercatori del ritorno a breve termine, se è vero che, servendo gli hedge con una frazione dei titoli rastrellati, la Porsche ha già guadagnato oltre 5 miliardi.
Ironia della storia. La liquidazione degli hedge funds – non di tutti, ovviamente, ma di molti – è resa impellente dalle richieste di riscatto dei sottoscrittori: persone molto ricche, banche, fondi pensione, gestori di patrimoni, fondazioni, fondi sovrani che, di questi tempi, intendono riprendere il controllo diretto sul loro denaro. Una tendenza, questa, incoraggiata dalle performance negative se è vero che, secondo l’Hedge Fund Research, la perdita media sfiora il 20% negli ultimi 12 mesi e, secondo l’Eurekahedge Hedge Fund Index, attivo dal 2000, nessun mese ha deluso come l’ultimo settembre nel quale il settore ha lasciato sul campo 90 miliardi di dollari. D’altra parte, come segnalava McKinsey, le nuove sottoscrizioni nel primo trimestre 2008 si erano già ridotte a soli 16 miliardi su scala mondiale contro i 60 dello stesso periodo del 2007. Poiché dagli hedge non si può uscire a piacimento come dai fondi comuni d’investimento ma solo nei periodi prestabiliti di redemption, per lo più concentrati a fine d’anno, ecco spiegata la valanga di vendite che, aggravata dalla rivalutazione dello yen, ha determinato l’autunno nero delle Borse mondiali.
Annota la Banca d’Inghilterra: «Il bisogno di liquidità degli hedge funds può aiutare a spiegare le vendite dei titoli più liquidi come le azioni dei Paesi sviluppati ed emergenti, le cui quotazioni sono drasticamente cadute in settembre e ottobre». I valori in gioco sono ormai imponenti.
L’«industria» degli hedge funds mosse il primo passo, con una dotazione di 100 mila dollari, nel 1949 a opera di un sociologo americano di origine australiana, Alfred Winsolw Jones, che aveva avuto anche esperienze nella diplomazia e nel giornalismo. Riuniti 99 investitori in un fondo con quote non trasferibili come quelle dei fondi comuni, e dunque libero dalle limitazioni dell’Investment Company Act del 1940, Jones comincia a comprare a debito i titoli giudicati buoni e a vendere allo scoperto quelli cattivi così da compensare i rischi impliciti nelle due pratiche. Nei primi 10 anni fa meglio, in ragione dell’87%, del miglior fondo comune dell’epoca, il Dreyfus Fund. Il suo modello ispira campioni della finanza come Warren Buffett e George Soros.
Ma dovranno passare quarant’anni prima che gli hedge funds possano dilagare, favoriti dalla deregulation e dai bassi tassi d’interesse. A fine 2007, secondo McKinsey, ne risultano all’opera ben 7 mila con un capitale aggregato di 1.875 miliardi di dollari, una somma cinquanta volte più grande di quella amministrata nel 1990. È la base sulla quale, stressando la lezione di Jones, si costruisce un castello di debiti che eleva a 5 mila miliardi la potenza di fuoco dei nuovi arbitri della finanza mondiale, pronti a scommettere su tutto: indici, azioni, bond, reddito fisso, derivati, operazioni finanziarie di ogni genere. Formano, questi arbitri, una élite piuttosto ristretta se si pensa che il 71% dei capitali gestiti è concentrato nei primi 100 fondi, alcuni dei quali sono controllati da grandi banche, come Highbridge Capital Management che fa capo a JP Morgan.
Questo rapporto è cruciale al di là delle cointeressenze nel capitale: sono le banche a finanziare la leva degli hedge e le investment banks, le americane in particolare, a curarne le operazioni dietro congrue commissioni. In questo modo, gli hedge funds, spesso basati in paradisi fiscali, diventano banche d’investimento surrettizie, che si sottraggono deliberatamente ai controlli riservati alle banche vere e proprie, ai fondi pensione e agli stessi fondi comuni. E lo fanno con arroganza se ancora alla fine di settembre il Renaissance Technologies, l’hedge newyorkese guidato da James Simons, cerca di indurre la Securities Exchange Commission a rivedere la direttiva che consente al pubblico di conoscere le posizioni allo scoperto, posizioni che i fondi normali non possono prendere, con la seguente minaccia: «Gli investitori istituzionali potrebbero alterare il loro trading per evitare di dare notizie al pubblico».
La fratellanza siamese con le banche ora si ritorce contro. Ormai le garanzie che gli hedge funds devono fornire per ottenere credito dalle banche, gelose della propria residua liquidità, per reinvestire nel reddito fisso sono raddoppiate dall’inizio della crisi e addirittura quintuplicate se l’investimento si orienta verso le asset-backed-securities, le obbligazioni strutturate, rappresentative di altri titoli, mutui o prestiti.
E per i Cdo (Collateralizated debt obligation) i rubinetti sono chiusi del tutto. Ray Dalio, che guida il Bridgewater Associates, un hedge del Connecticut con attivi per 150 miliardi di dollari, ha ammesso davanti ai suoi clienti che il mondo sta entrando in una lunga depressione per rientrare dal debito che non potrà essere assai poco mitigata dalla riduzione al minimo dei tassi d’interesse: «Siamo dentro un ciclo di sofferenza pluriennale e il grado della sofferenza dipenderà dalle decisioni della politica». Sia pure con 10 anni di ritardo, la lezione del fallimento del Long Term Capital Management, l’hedge dei premi Nobel il cui improvviso fallimento mise per qualche settimana in pericolo la finanza mondiale, comincia a generare il suo effetto più importante: un bagno d’umiltà.
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Gli hedge funds e il caso Volkswagen
di Franco Debenedetti – Il Corriere della Sera, 01 novembre 2008
In Italia scoppia la guerra culturale sugli hedge fund
di Stefano Feltri – Il Riformista, 02 novembre 2008
→ ottobre 11, 2008

Con il decreto il Governo ha agito con prontezza e in modo ben congegnato. Prima il ministro dell’Economia, poi ieri il premier hanno espresso opinioni che hanno avuto effetti negativi sui mercati
Nel piano detto “salvataggio delle banche”, il Governo, va riconosciuto, ha fatto (quasi) tutte le cose giuste. Fallito il coordinamento europeo, ha agito con prontezza, per evitare al nostro sistema bancario l’effetto spiazzamento da parte delle banche estere.
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→ ottobre 8, 2008
Nel talk show condotto da Bruno Vespa, il tema della puntata è la recessione: i suoi effetti sull’economia reale e i rischi per i risparmiatori.
Il punto della situazione
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