Attenti allo statalismo di ritorno

novembre 15, 2008


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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L’instabilità finanziaria ha svelato gli effetti della circolarità perversa tra aiuti, azzardo morale e regolazione. Un’autorità mondiale da Bretton Woods 2

“Quelli di noi – ed io in primo luogo – che avevano pensato che bastasse l’interesse delle istituzioni che erogano il credito a proteggere gli investimenti degli azionisti, oggi sono colpiti nelle loro convinzioni”. Anche dopo la sua uscita di scena, le parole di Alan Greenspan lasciano il segno.

Comprensibile che chi viene accusato di avere lasciato che si formasse la bolla immobiliare, con la sua politica dei tassi, oggi si difenda, fino a mettere in dubbio i fondamenti dell’economia di mercato. Per gli altri invece, uscire da questo stato di “shocked disbelief” é la priorità numero uno per cavarci fuori dalla crisi.

Sono state avanzate molte spiegazioni del perché una banca prenda strade che mettono a rischio la sua sopravvivenza e i patrimoni dei suoi azionisti: illusione che la strategia di diversificazione del rischio, valida per il singolo investitore, continui ad essere valida anche quando é perseguita da tutto il mercato; hybris nel credere in strumenti finanziari sempre più complessi; remunerazioni dei vertici aziendali legati al breve termine. Ma la ragione più immediata é quella dell’azzardo morale, che nasce dalla presunzione che qualcuno alla fine ti venga a salvare. Non c’é da stupirsi che il capitalismo non funzioni se viene meno la prima delle sue leggi, e cioè che chi sbaglia paga per i propri errori. Controprova: tra gli hedge fund, sospettati di essere “gli untori” della crisi, dopo oltre un anno, alcuni sono falliti, altri hanno dovuto chiudere, altri hanno rinviato l’uscita ai clienti che lo chiedevano: se é stata una ritirata ordinata, e non la rotta disastrosa che si é vista per alcune banche, é anche perché il gestore del fondo rischia il proprio di patrimonio, e sa che lo stato non correrebbe a salvarlo. Sono gli “hedge fund nascosti” fatti dalle banche -nella ignoranza o disattenzione del regolatore – quelli dove si sono presi i rischi veri, come si deduce dalle perdite molto maggiori che hanno sofferto. L’azzardo morale é l’epicentro della crisi immobiliare: Fannie Mae e Freddy Mac, che insieme hanno più della metà dei trilione di $ di mutui a rischio (Alt-A), godevano dell’implicita garanzia dello Stato. E pensare che era stato proprio Greenspan a mettere sull’avviso un paio d’anni prima dello scoppio della bolla.

Diffondere a piene mani azzardo morale: questa é la conseguenza di tutti i salvataggi, dalla Northern Rock alla diecina di interventi degli stati su banche il cui fallimento avrebbe provocato “rischi sistemici”. Gli interventi hanno esacerbato il problema? Era meglio lasciar fallire Bear Sterns? Ormai questioni accademiche. Oggi, quello che possiamo far é, nel settore bancario, usare cautela, e nel settore industriale, evitare di rifare la stessa cosa. Bisogna avere ben chiara la circolarità perversa tra aiuto di Stato, azzardo morale e regolazione: concedendo l’aiuto, lo Stato produce azzardo morale, questo dà motivo all’autorità politica per intervenire ponendo regole, per evitare che qualcuno ne approfitti. Ma la regola produce una forma di azzardo, la presunzione che basti rispettarla per assolvere i propri doveri di prudenza. Una spirale che porta sempre più il regolatore a sedersi al posto di comando accanto al regolato: esito inevitabile o obbiettivo raggiunto?

A fare la differenza sono i principi di fondo che tengono insieme una società e su cui poggia la sua struttura economica. E’ una cosa se questa crisi viene sentita come un shock alla propria fede, lo “shocked disbelief” di Alan Greenspan; tutt’altra se giunge come conferma alla propria sfiducia di fondo nella libertà del mercato, occasione per modificare rapporti di potere tra stato e mercato o, più prosaicamente, tra governo e centri di potere economico.
E’ forse perché sue precedenti affermazioni non inducano a credere a questa seconda interpretazione, che il ministro Tremonti usa ogni cautela per evitare che gli aiuti alle nostre maggiori banche siano sospettati di interventi sulla loro governance o sui loro assetti proprietari; e vede la nuova Bretton Woods come un trattato che ridefinisca i rapporti di potere tre la massime potenze economiche. Oggi é invece Nicolas Sarkozy a confermare il permanere nel suo paese di una visione centralista e statalista, a farsi promotore di una Bretton Woods II che insedi una – per fortuna improbabile – autorità mondiale al cui controllo nessun operatore, in nessun angolo del pianeta, possa sfuggire.

Negli USA un intervento in soccorso dell’industria dell’auto non desta sospetti, tanta é la certezza che l’opinione pubblica non tollererebbe se diventasse permanente. E’ vero, il precedente dei 2 miliardi di $ prestati da Jimmy Carter alla Chrysler dovrebbe insegnare l’inutilità di rinviare la resa dei conti: ma l’America é pur sempre il Paese in cui le aziende (comprese le compagnie aeree) falliscono, dove il meccanismo di selezione schumpeteriano é bene all’opera ed evidente. Siamo noi quelli che abbiamo ragioni di temere le banche di stato, l’auto di stato eccetera. Noi abbiamo necessità di ricordarci che c’è anche “il lato buono delle crisi” (Luca Ricolfi, La Stampa del 10 Novembre), in cui si fanno le scelte che nei tempi di prosperità ci eravamo rifiutati di compiere. Sabato si tiene in convegno in cui si ricorda la storia dell’Olivetti: dovrebbe essere un’occasione per ricordare, oltre ai fasti, anche quale é il prezzo che si finisce di pagare, come poi é successo, quando si dedica più tempo a mantenere l’occupazione e a riempire capannoni, che a pensare a prodotti nuovi; e come cambiare il gioco, puntare su un settore diverso, possa essere l’inizio di una nuova storia.

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