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→  dicembre 16, 2016


Al direttore.

Tutto è normale nell’Itis Pininfarina di Moncalieri e nelle sue merendine. Normale che l’autorità reprima un’attività che, se generalizzata, trasformerebbe la scuola in un suk; normale (siamo ottimisti, è Natale) che qualcuno vi veda un’iniziativa “imprenditoriale” da premiare. Normalissima poi la protesta degli studenti, al punto da rendere l’episodio un apologo di come vanno le cose nel nostro paese. Da noi non manca chi si accorge delle inefficienze, vede i vantaggi che con l’eliminarle verrebbero a sé e ad altri. Ma il cittadino diffida dell’iniziativa individuale, sta dalla parte di chi difende le regole, e sopporta il danno che gliene deriva. Nessuno se la prende col regolatore (il preside), che con le sue regole (le merendine si possono comperare solo alle macchinette) crea un monopolio, e non si cura di controllare il costo (bastava che andasse a comperare una merendina al supermercato) e negoziare il prezzo (vendere grosse quantità senza commessi dovrebbe consentire prezzi ancora inferiori. La gente ha paura della libertà, non crede nei benefici della concorrenza. Vale per le merendine come per i servizi pubblici locali, per l’istituto di Moncalieri come per le municipalizzate del comune. E alla maggioranza sta bene: il preside rimane al suo posto, e nessun sindaco ha perso le elezioni perché non ha eliminato un monopolio.

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→  novembre 5, 2016


1349, 1703, 1832: sono le date di (alcuni dei) terremoti devastanti in Umbria. Quello che fa unico e prezioso iI carattere dei paesi colpiti, quello che vediamo distrutto e temiamo di poter perdere, sono le ricostruzioni che le generazioni passate fecero dopo quei disastri. Sono quelle il loro lascito. E noi, che cosa lasceremo alle generazioni future?

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→  dicembre 15, 2015


Il Corano è in realtà ben diverso da quello che comunemente si crede, scriveva su queste colonne Luca Ricolfi (Il terrorismo jihadista e la strategia del rospo Zen, 24 Novembre): ha precetti durissimi contro chi non si converte e non lo osserva, e, siccome è parola di Allah, non è interpretabile né modificabile. Dobbiamo rileggere il Corano se vogliamo liberare il mondo dall’islamismo titolava Newsweek il 12 Dicembre.

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→  dicembre 5, 2015


articolo collegato di Giulio Meotti
E’la storia indicibile di una famiglia che ci porge, come pochissime altre, la normalità sofferente di Israele. Una lunga coda di buio carica di dolore e di vitalità. La storia inizia a Zdeneve, un piccolo villaggio sui Carpazi ungheresi, negli anni Trenta. Lipa è un ragazzino ebreo. Famiglia poverissima, si sfama con due mucche che danno ogni giorno tre litri di latte e le patate coltivate nell’orto. Gli abiti vengono rammendati e passati da un bambino all’altro. Nel 1944, durante la Pasqua ebraica, arrivano i nazisti e ordinano a tutti gli ebrei di preparare un bagaglio di venti chili. Salgono sul treno per Auschwitz. All’arrivo, sulla rampa di Birkenau, Lipa si ritrova solo. La madre, il padre, la sorella e il fratello di un anno dopo due ore verranno inghiottiti dalle camere a gas. “Alla mia sinistra vedevo il fumo dei crematori, i corpi presi per i piedi e le mani e gettati nel fuoco”, mi ha raccontato Lipa. Gli fu data una divisa, un cappello e una gavetta di alluminio.
Era tutto ciò che aveva al mondo. “Ad Auschwitz pensavo che se fossi stato forte, i tedeschi avrebbero avuto bisogno di me”. Passano i mesi, si avvicina la fine della guerra e Lipa viene deportato in Austria, nel lager di Mauthausen. Da quel momento si sarebbe chiamato con un numero. “68.864 era il mio nome”. Quel numero era impresso sui pantaloni e la giubba, assieme a un triangolo rosso e alla lettera “J”. L’iniziale di Juden, ebreo. Sopravvive anche a Mauthausen, arriva la Brigata Ebraica, assieme ai soldati inglesi e americani. “Ci aiutarono a credere che gli ebrei potevano difendersi da soli e avere il loro stato. Diventare ‘ebrei in Palestina’”. Lipa entra nella sinistra sionista di HaShomer Hatzair. Ma gli inglesi avevano posto restrizioni all’immigrazione, così Lipa restò nei campi fino al marzo 1948. Il 14 maggio di quell’anno, Lipa si trova a Marsiglia, dove si imbarcherà sulla prima nave diretta in Israele. Era il giorno della proclamazione dello stato ebraico. “Salpammo sapendo di avere uno stato”. Attracca a Haifa, c’era fermento nell’aria e l’esercito ebraico lo arruolò subito. Lo misero di guardia a un kibbutz, Ein Hashofet. Due anni dopo nasce il primo figlio, Avner, che significa “ricordo di mio padre”, per onorare il padre gassato ad Auschwitz. Sei anni dopo arriva il secondo figlio, Yanay.
Passano gli anni e nasce anche Gidi. Servono tutti nell’esercito israeliano, chi nell’artiglieria, chi nell’aviazione. Da una Shoah a un’altra.
Il terrorismo palestinese inizia a portarsi via pezzi di questa famiglia. E’ l’inizio della Seconda Intifada. La prima vittima delle bombe umane è la bellissima Inbal, la figlia di Avner. Lavorava agli archivi del Beit Locamei Haghetaot, il centro che documenta la resistenza ebraica ai nazisti. Prendeva sempre l’autobus per tornare a casa dall’Emek Yisrael College nella fertile valle di Jezreel. Ma quel giovedì, Inbal sceglie una strada diversa per incontrare i genitori al ristorante. La strada passa attraverso numerosi villaggi arabi. Ancora non c’era la barriera antiterrorismo, ingiustamente condannata da tutto il mondo come “il muro”. I genitori la chiamano al cellulare per sapere dove fosse.
Due minuti dopo un terrorista di Jenin si fa saltare in aria. Il bus è quasi vuoto: tre israeliani uccisi, fra cui Inbal. Le conseguenze di quel giorno, come vedremo, si avvertiranno anche a tanti anni di distanza. Come una cometa carica di dolore.
Passano due anni da quell’attentato terribile e il 29 aprile la famiglia rivive lo stesso film. E’ la giornata della memoria della Shoah in Israele. Nelle stesse ore, i jet dell’aviazione con la stella di Davide sorvolano i prati di Auschwitz, dove vennero sparse le ceneri di un milione di ebrei, tra cui quelle dei genitori e dei fratelli di Lipa. La dimostrazione è guidata dal generale israeliano Amir Eshel. “La piattaforma delle selezioni, la linea ferroviaria, i campi verdi, un innocente silenzio”, disse Eshel. “Così appariva l’inferno sulla terra, nel cuore dell’Europa. Abbiamo compreso l’enormità della nostra responsabilità, nel garantire l’eternità del nostro popolo e della nostra terra. E’ stato un grande privilegio essere i delegati del nostro popolo e portare la sua grandezza sulle nostre ali”.
Quella sera, mentre lo stato ebraico sarà chiamato a stringersi nel ricordo dalla stessa sirena che annuncerà alla popolazione il lancio dei missili dei terroristi da Gaza, Yanay si stava esibendo in un pub del lungomare di Tel Aviv. Il kamikaze fu fermato all’ingresso dalla guardia, che volò alcuni metri in aria ma che sarebbe sopravvissuto. Yanay era appena uscito fuori per una boccata d’aria, e venne ucciso sul colpo. L’attentatore, entrato da Gaza, aveva il passaporto inglese. Era arrivato dall’Europa soltanto per uccidere ebrei innocenti. Il terzo tragico capitolo di questa straordinaria famiglia, che aveva sempre creduto nella coesistenza con i palestinesi, che ha sostenuto il rilascio di Gilad Shalit in cambio del mandante dell’uccisione della loro figlia (il terrorista del Jihad islamico Tabeth Mardawi), è stato scritto una settimana fa.
E’ il giorno dell’anniversario dell’uccisione di Inbal, quando suo fratello Ami, terzogenito di Avner, militare con lodi della marina israeliana, estrae la pistola di ordinanza e si uccide. Non lascia neppure un biglietto. Il giorno dopo sua sorella dà alla luce una splendida bambina. La storia di questa famiglia è la storia stessa di Israele, dove ogni vita che finisce si annoda a una che nasce, i sei milioni di ieri con i sei milioni di oggi. E’ il buco nero che l’Europa ha scelto tragicamente di ignorare.

→  giugno 26, 2015


In Italia il documento inviato al Parlamento e al Governo da parte dell’Autorità dei Trasporti ha rimesso sui binari corretti la questione uber pop, dopo il “700” del Tribunale di Milano, l’ordinanza che, rispondendo a una richiesta di un gruppo di tassisti, ne aveva bloccato l’attività. Ricordo che UberBlack è il servizio di limousine “nere” degli Ncc(noleggio con conducente), mentre UberPop é il servizio (ieri al centro di scontri tra i tassisti e la polizia in Francia) che consente a chiunque di utilizzare la propria auto per lavorare come autista quando crede.

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→  novembre 25, 2009

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da Peccati Capitali

Perché non si mette il crocifisso nei tram? Quello che sta nelle aule scolastiche ha fatto nascere il problema: se levarlo per rispetto a chi è di religione diversa, oppure lasciarlo come segno dell’identità culturale del Paese. La discussione si è poi impennata su temi alti, diritti di maggioranze e minoranze, tolleranza e multiculturalismo. Sta però il fatto che i crocifissi su cui si discute sono solo quelli che si trovano nelle aule scolastiche e in quelle dei tribunali: la ragione per cui sono solo lì e non altrove può aiutare a capire in che cosa veramente consista il problema.

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