Sulle fondazioni no al gradualismo

settembre 19, 1995


Pubblicato In: Corriere Della Sera, Giornali


Da cinque anni, da quando cioè la legge Amato impose la separazione tra fondazìoni e banche e la loro trasformazione in spa, il problema di privatizzare le banche naviga nella nebbia. Allora, il 56 per cento del sistema bancario italiano era in mano pubblica, controllato da fondazioni, di nomina pubblica (cioè politica); così resta oggi, nonostante il governo Dini abbia chiesto alle fondazioni di scendere al 49 per cento di proprietà entro 5 anni, e insista con coerenza.

Proprio per uscire da questa nebbia, con Giavazzi, Penati e De Nicola abbiamo elaborato la nostra proposta. Senza nulla levare all’autonomia delle fondazioni, né alla proprietà dei loro patrimoni, abbiamo definito una procedura per le dismissioni che lascia alle fondazioni totale libertà di scelta; consente di mantenere fino al 15 per cento delle loro banche; definisce una strada di ricorso al mercato ove le altre procedure di vendita non avessero successo, privilegia le persone che con la banca hanno rapporti di lavoro o di affari dando loro un buono di acquisto negoziabile di valore pari al 25 per cento del prezzo di un’azione.
Non siamo di così ristrette vedute da ritenere che questa sia l’unica soluzione possibile. Ma siamo convinti che solo il mercato possa decidere di una questione altrimenti irrisolvibile: quella che contrappone patrimoni rivalutati a valori elevati (sovente non realistici) e bassa redditività delle banche.
Bisogna intendersi sul motivo di fondo che induce a propone tempi stretti per la vendita delle banche. Non si tratta di condurre una guerra a chi oggi amministra le fondazioni, né di fermarsi alla pur rilevante considerazione che, se non si incomincia dalle banche, la privatizzazione degli altri beni di proprietà dello Stato si può tradurre in una loro ripubblicizzazione di fatto. Il problema di fondo investe invece uno dei nodi strutturali della storica debolezza del sistema industriale italiano, l’inadeguato afflusso del capitale di rischio. Fino a due anni fa, i limiti posti alle banche ad assumere partecipazioni nelle imprese hanno rappresentato una delle cause più rilevanti della sottocapitalizzazione del sistema industriale italiano. Nel ’93, col nuovo testo unico bancario, è stata fatta la scelta di consentire alle banche di diventare azionisti di imprese, seppur entro limiti prefissati. Cosa è avvenuto? I due terzi delle partecipazioni assunte dalle banche in imprese si configurano come rinegoziazione di crediti; il portafoglio di azioni industriali in mano alle banche è passato da 3.700 miliardi a 15.700, ma all’enorme aumento di esposizione non è corrisposto un aumento delle competenze valutative e gestionali. Non si è sviluppata quella capacità delle banche di esercitare il controllo sulle imprese che ne giustifica il ruolo di azionisti e che sta alla base del modello renano cui alcuni dicono di ispirarsi.
Perché le banche possano corrispondere a questo fondamentale ruolo, è necessario che esse siano restituite al mercato. Il salto di qualità non si otterrà con un compromesso statalista che garantisca il controllo agli attuali proprietari, ma solo attivando la concorrenza tra azionisti privati per i diritti di proprietà delle banche. Per questo riteniamo che la parte della nostra proposta che prevede una fase di ricorso al mercato sia centrale. Per il sistema industriale avere servizi più efficienti è necessario, ma provvedere al capitale di rischio è problema di vita o di morte.
I tempi sono essenziali: per questo le ipotesi gradualiste mostrano tutta la loro inadeguatezza. Si può capire che chi vede la questione dal solo punto di vista delle fondazioni (compresi i molti accademici cooptati ai vertici delle fondazioni e delle loro banche) reagisca vivacemente contro la nostra proposta, inviti, come Demattè (Il Corriere della Sera, 17 settembre), al gradualismo, a distinguere tra le fondazioni. Ma i tempi lunghi non risolvono il problema: che è la sostituzione della proprietà e la contendibilità del controllo. Gradualismo per arrivare dove? Perché se, come pare di capire, si pensa di mantenere, con percentuali di possesso vicine al 49 per cento, il controllo delle banche in mano alle fondazioni, è chiaro che si dice gradualismo e si pensa a come evitare di perdere il controllo. Non vorremmo che tempi lunghi e distinzioni tra caso e caso fossero invocati per favorire la creazione, di cui si sente parlare, di un polo delle principali banche del nord, dar vita cioè a un’aggregazione da contrappone a Mediobanca. Progetto la cui validità andrà giudicata non in base alle dimensioni, bensì alle competenze che saprà aggregare.
Ma se i sostenitori di questo ritengono che esso sia più facilmente raggiungibile con un compromesso politico tra gli attuali amministratori delle fondazioni senza passare per la preventiva restituzione delle banche al giudizio del mercato, allora il loro progetto nasce con un vizio originario. Per questo sono necessari tempi certi e disposizioni che mettano tutte le fondazioni sullo stesso piano. Solo dopo che azionisti privati, in concorrenza tra loro, abbiano preso il controllo delle banche si potrà sperare che nascano due o tre mediobanche, dotate di quelle competenze e capacità che di Mediobanca sono il vero e finora ineguagliato capitale.

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