Quando il capo del governo si fa capo del partito

ottobre 16, 2006


Pubblicato In: Giornali, Il Riformista

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Il 3 ottobre la Finanziaria iniziava il suo percorso in Parlamento. Il 6, a Orvieto, i leader del centrosinistra avviavano il Partito democratico verso la tappa decisiva, i congressi in cui Dl e Ds decideranno il loro scioglimento. La coincidenza temporale invita a riflettere sulla contiguità tra un provvedimento che definisce il futuro dell’azione del governo, e un avvenimento che definirà il futuro dell’assetto della coalizione.

Certo, Romano Prodi è il riferimento apicale comune, responsabile ultimo della Finanziaria e ispiratore primo del Partito democratico. Ma la contiguità è molto più stretta, e produce difficoltà aggiuntive, alla legge per trovare supporto nell’opinione pubblica, e al partito per trovare il consenso tra le forze costituenti.
Breve è il passo tra contiguità e ambiguità. Era quello che indicava il Riformista commentando il risultato delle primarie, di cui ieri ricorreva il primo anniversario: «chi vota per Prodi – si domandava – vota per Prodi leader di tutti, per Prodi leader di un rinato Ulivo, per una lista Prodi o addirittura per un partito di Prodi?» E’ per questa ambiguità che oggi Antonio Polito ha buona ragione di replicare con un «ma se stiamo regalando un partito a Prodi!» a chi ha voluto vedere nel “tavolo dei volonterosi” una minaccia alla stabilità del governo, e ne ha ordinato la chiusura. L’ambiguità è strutturale: deriva dal rovesciamento della direzione in cui si svolgono i processi.
Di regola, la direzione è quella che va dal partito al governo, qui invece va dal governo al partito. Di solito è il partito che esprime il leader che guiderà il Paese, qui invece è il capo del governo il motore e il mentore del processo costitutivo del partito. Questa inversione produce importanti conseguenze. In primo luogo sui tempi: gli orizzonti temporali di un governo o addirittura di una Finanziaria finiscono per prevalere, con la loro urgenza pragmatica, sugli orizzonti generazionali di un progetto, che comporta un radicale cambiamento in partiti protagonisti per 60 anni della politica, e nel modo in cui essi interpretano il mandato costituzionale. In secondo luogo sugli obbiettivi politici: di regola è il partito il luogo dove elaborare e custodire il progetto, il modello ideale che risponda alle richieste dei cittadini in tema di libertà, giustizia, sicurezza, che offra stimoli per intraprendere iniziative e opportunità per realizzarle. Mentre il governo è fondamentalmente amministrazione dello Stato, responsabile di un patto con i cittadini, quanto e in che modo lo Stato preleva della ricchezza che essi producono, e in cambio di che cosa. Il risultato della contiguità è di fare apparire sovrapposti i due ruoli, identiche le culture politiche dei progetti e le carature politiche dei soggetti, del governo che avremo per una legislatura e del partito che avremo per una generazione. Si finisce così per far carico al governo di mancare di missione, mentre è la coalizione, e in prospettiva il nuovo partito, che dovrebbe esprimerla, e indicarla al governo perché la realizzi.
È vero che la Finanziaria si merita in pieno la severità con cui è stata giudicata da istituzioni e analisti. Ma poteva esserci spazio per considerare il momento specifico, l’opportunità per l’esecutivo di qualificarsi presso organismi comunitari e mercati finanziari, le esigenze della coalizione, i vincoli che realtà sociale e legge elettorale pongono all’azione di governo: in breve, le ragioni dei compromessi. Invece, proiettati su uno schermo più lontano, i difetti appaiono ingigantiti, quelli che potevano essere considerati interventi contingenti vengono giudicati come fossero elementi di una politica di lungo periodo.
E’ il governo per primo, con le ragioni e i toni con cui sostiene i propri provvedimenti, ad indurre i suoi critici a questo scambio di prospettive. Ad esempio la rimodulazione dell’Irpef è criticabile come strumento inadatto a raggiungere l’obbiettivo dichiarato di produrre maggiore equità. Ma a rendere più severe le critiche c’è anche l’impressione che questa potrebbe essere non solo una manovra di governo ma un manifesto ideologico di partito: l’«invidia di stato» per mascherare un sostanzioso aumento delle tasse, e una sostanziale «tassonomia sociale spietata» (Geminello Alvi, ieri sul Corriere Economia).
Allo stesso modo, la lotta all’evasione può essere un piano di emergenza affidato a un ministro che «impersona questa volontà come pochi altri, in modo quasi fisiognomico» (Ilvo Diamanti domenica su Repubblica): ma sarebbe inaccettabile che attecchissero nel Partito democratico atteggiamenti di presunta superiorità morale, il pre-giudizio per cui chi evade è in ogni caso e prima di tutto un delinquente. Prendiamo il prelievo del Tfr inoptato: forse il provvedimento può essere giustificato dall’emergenza, e sterilizzato nelle sue conseguenze più negative. A preoccupare è che il Partito democratico adotti il principio per cui i risparmi dei lavoratori sarebbero meglio impiegati a finanziare le opere pubbliche dello Stato piuttosto che le scelte degli imprenditori. O che possa entrare nel suo dna il giudizio sprezzante che il ministro dell’Economia pro tempore ha riservato a Capri alle piccole imprese con meno di dieci dipendenti e al loro contributo all’economia nazionale: «non è a quella dimensione che si è abituati ad associare l’idea di un’impresa vitale».
Passi falsi nei rapporti tra governo e imprese, del tipo Telecom o Autostrade, possono anche darsi: ma sarebbe inaccettabile che il Partito democratico fungesse da brodo di cultura per intenti nazionalizzatori, chiusure nazionaliste, presunzioni pianificatorie. Credo che sia l’azione del governo sia il processo fondativo del nuovo partito incontrerebbero ostacoli minori se questa contiguità diventasse meno stretta. E questo rimanda direttamente al problema delle leadership. Scrive Parisi (Corriere di ieri) che il Partito democratico «non è un partito per Prodi, semmai un partito per il dopo Prodi». Bisognerebbe allora che chi è al governo riducesse la preoccupazione di assicurarsi la solida piattaforma di duraturo sostegno nel partito che verrà; e che chi guiderà il partito sentisse come prioritaria rispetto ad ogni altro obbiettivo l’urgenza di dargli un’identità e una missione che valga a ricucire le contraddizioni di un’economia capitalistica nell’era della globalizzazione. Bisognerebbe distinguere gli obbiettivi a breve e quelli a medio termine, e scegliere per gli uni e per gli altri gli uomini adatti a raggiungerli.

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