Nuovi rischi di monopoli

aprile 1, 2000


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Prima le parole, dopo la musica; oppure prima la musica, dopo le parole? Fanno venire alla mente la disputa settecentesca messa in versi dall’Abate Casti ( diventata poi il “Capriccio” di Hofmannstahl e Richard Strauss), le ricorrenti discussioni su liberalizzazioni e privatizzazioni.
L’accusa di avere privatizzato prima di aver liberalizzato, che alcuni muovono agli ultimi Governi, e di avere così consegnato i monopoli ai privati, ha poco fondamento: nella telefonia la concorrenza c’è, ed il controllo di Enel ed Eni é ancora saldamente in mano al Tesoro.

Del tutto senza fondamento sarebbe l’accusa nel caso dei servizi pubblici locali: la legge proposta dal Governo è di sola liberalizzazione, di privatizzare addirittura non si parla neppure. Col rischio di un risultato paradossale: se il Senato non eliminasse una modifica che il Governo ha apportato al testo originario cedendo a un’improvvida iniziativa dell’opposizione, si potrebbe avere una legge che vuole liberalizzare e finisce per indurre a pubblicizzare.

Riformare i servizi pubblici locali richiede doti di virtuosismo legislativo: la norma deve andar bene per i piccoli comuni montani e per le metropoli, per il gas e per i trasporti collettivi; deve tener conto di un’enorme produzione legislativa stratificatasi negli anni, dalla legge Giolitti del 1903 al decreto Bersani del 1999.
La legge che il Governo propone si regge su due pilastri. Primo, la separazione tra ruolo di indirizzo-controllo, che spetta agli enti locali; e ruolo di gestione, che i comuni devono affidare a società apposite: in altre parole, fine dei servizi gestiti in proprio dai comuni. Secondo, la concorrenza, per cui gli affidamenti devono essere attribuiti a seguito di gara.

La gara rappresenta senza dubbio un grande passo avanti verso la trasparenza e l’efficienza, ma non è una formula magica: se un mercato non è concorrenziale, non lo diventa per il semplice fatto che si indice una gara per conquistarlo. Se un mercato è concorrenziale, si ha competizione nel mercato; se non lo è, si ha gara per il mercato: sono due situazioni affatto diverse che richiedono interventi diversi.
L’ente locale che vuole creare concorrenza deve per prima cosa separare verticalmente i vari segmenti del business: anche se un’infrastruttura costituisce un monopolio naturale, non é detto che non si possa avere concorrenza nelle attività a monte (ad esempio l’approvvigionamento) o a valle (vendita, assistenza tecnica, bollettazione). Inoltre non deve perdere occasione per mettere in questione la “naturalità” stessa del monopolio: non c’è ragione perché la raccolta rifiuti o il trasporto collettivo non possano essere affidati a imprese diverse; se si fa uno scavo, perché non approfittarne per invitare qualcuno a posare un tratto di rete parallela? Per le parti del servizio che costituiscono irriducibilmente in monopolio naturale, l’ente locale utilizzerà la concorrenza per confronto; darà affidamenti di durata ragionevolmente breve; sarà molto cauto verso gli affidamenti multipli; se possiede un’azienda municipalizzata, ne renderà contendibile il controllo. Ma la gara per il mercato non serve a stabilire il prezzo, ci vuole per forza un regolatore che lo gestisca durante la durata dell’affidamento.

Se il servizio non può essere esercitato in concorrenza, a nulla serve la separazione tra rete e servizio svolto sulla rete. La sola conseguenza è che invece di un monopolio se ne avranno due paralleli: quello sulla rete e quello per il servizio svolto sulla rete: e due monopoli non fanno un mercato. E poi in che cosa concretamente consiste il servizio sulla rete? Facciamo il caso di un acquedotto: l’acqua che si immette è demaniale per legge, la lettura dei contatori può essere svolta in concorrenza tra più imprese; il servizio sulla rete può solo consistere nella sua manutenzione e ampliamento. E che senso ha mettere a gara la pura proprietà passiva di una rete? Altro esempio, un servizio di trasporto collettivo urbano. Chi vince la gara si impegnerà ad usare i mezzi esistenti, ad assumere il personale, e a mantenere il prezzo dei biglietti. In queste condizioni, la gara serve in sostanza a scegliere il management. Che senso ha separare la proprietà dei pullman? magari per discutere su chi deve cambiare le gomme? La separazione tra rete e servizio riduce l’impegno finanziario: serve dunque a mettere in pista piccole imprese locali. Fa pagare alla collettività un costo in termine di minore efficienza, e va nella direzione opposta a quella di creare aziende di servizi capaci di battersi con le grandi imprese straniere che si invidiano e si temono.

La tesi della separazione tra rete e servizio è stata vigorosamente sostenuta dal senatore Grillo di Forza Italia, che addirittura voleva imporla come norma generale.
Il Governo ha cercato il compromesso, ammettendo la separazione solo come una possibilità: ma non si è accorto che così facendo lasciava entrare in circolo il virus. Risultato: è passato il principio per cui, se la rete si separa dal servizio, la rete deve essere di proprietà pubblica. Così il Governo che può vantarsi di aver privatizzato i telefoni prima di Francia e Germania, di aver venduto negli ultimi anni più di tutti, quel Governo che, vendendo l’Acquedotto Pugliese all’Enel, ha implicitamente avviato alla privatizzazione la più grande rete idrica europea, è caduto nella trappola tesa dall’opposizione e si presenta al paese con un testo che recita testualmente: “La proprietà delle reti, degli altri impianti […] spetta all’ente locale”. E’ facile immaginare con quanta soddisfazione dei comuni che non possono vendere la rete e che, se l’hanno venduta, potrebbero doversela ricomprare a suon di miliardi.

E’ prevedibile che il testo venga emendato in aula e che questo episodio rimanga una curiosità storica. Ma resta il fatto che mentre si discute della proprietà del tubo del gas di Castelnuovo e dei pullman di Roccavecchia, nulla si dice su un fatto di capitale importanza politica ed economica: si stanno ricreando grandi monopoli pubblici. Le grandi municipalizzate, Roma, Milano, Torino acquistano la distribuzione locale Enel diventando monopolisti nella distribuzione elettrica, sono o vogliono essere nel gas, e si estendono al telefono e alla fibra. Restando rigorosamente sotto controllo pubblico.
“Gli enti locali svolgono unicamente attività di indirizzo, di vigilanza, di programmazione e di controllo” sta scritto nella legge: “La gara è aggiudicata sulla base delle migliori condizioni economiche, nonché dei piani di investimento per lo sviluppo, e il potenziamento delle reti e degli impianti”: con tanti elementi discrezionali è facile prevedere a quale azienda verrà dichiarata vincitrice da parte dei comuni giudici-azionisti. Per rendere la beffa completa si faranno pure la loro authority: qualche stipendio in più.

Il disegno di legge predisposto dal Governo non discrimina (né potrebbe farlo) tra proprietà pubblica e proprietà privata, ma né offre incentivi a vendere, nè pone in capo agli enti locali vincoli di bilancio che spingano all’uso efficiente delle risorse. Il Governo potrebbe usare il potere di moral suasion per indurre i comuni a vendere, chiedendo magari prima a Roma di dare l’esempio e sfidare poi l’opposizione a Milano: con quello che ha fatto in tema di privatizzazioni è legittimato e credibile. Non l’ha fatto finora, ha sprecato una grande occasione di modernizzazione del paese. Ma adesso corre il rischio di uno spreco ben maggiore: se non riuscirà a fare eliminare quelle due righe al comma 16, a fare scomparire quella pregiudiziale a favore dei comuni della proprietà delle reti, sprecherà l’immagine di privatizzatore che si è conquistata; e sprecherà il lunghissimo lavoro svolto per portare all’approvazione una legge importante.

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