New deal, ferri vecchi

ottobre 30, 2002


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Che cosa ha in mente Giulio Tremonti quando parla di New Deal?

Che cosa ha in mente Giulio Tremonti quando parla di New Deal? L’aveva già fatto al convegno sulle privatizzazioni della Fondazione IRI e proprio in presenza di Romano Prodi. Ne riparla nella lunga intervista al Corriere di domenica 27 Ottobre, la prima dopo quella al Financial Times di luglio. Lo fa alla fine, ma, alla richiesta di qualche ulteriore dettaglio, risponde brusco che non dirà una parola di più.

Non credo che Giulio Tremonti usi l’espressione new deal in modo generico, allo stesso modo di come genericamente si parla di piano Marshall. Credo invece che proprio in queste due parole stia la chiave per comprendere il suo pensiero, e che esse servano a darne l’interpretazione autentica.

Tremonti sa di essere accusato di continuare a produrre previsioni ottimiste destinate ad essere continuamente riviste al ribasso; di averlo fatto, con qualche umana giustificazione, con la Finanziaria 2002; di rifarlo ora, diabolicamente, per il 2003, con quella previsione di crescita del 2,3% che nessun istituto di analisi previsionale si sente di confermare. A queste accuse, Tremonti risponde che “il governo non è un centro studi”, che i conti dell’Italia sono stati approvati l’anno scorso da Ecofin; e si dice tranquillo che lo stesso avverrà per i conti di quest’anno. Io avrei sbagliato le previsioni? – ribatte polemico – La risposta l’ha data Prodi, con la ormai famosa definizione “patto stupido” riportata da Le Monde, e con lo spostamento al 2006 del termine in cui il deficit deve essere “close to zero”.

Tremonti sa bene che non é solo l’opposizione ad aspettarlo alla scadenza della relazione trimestrale di cassa di marzo, quella che potrebbe sancire la necessità di una manovra aggiuntiva. Sa che quello potrebbe essere il “tramonto di Tremonti”. E si difende attaccando: se la crescita sarà inferiore, è per un “crescente deficit di competitività non solo dell’Italia ma anche di altri paesi europei”. In effetti, per il terzo anno consecutivo l’Europa dei 15 cresce di più dell’Europa dei 12, quella dell’euro: questo è il problema, e il problema si chiama Germania. Gli scostamenti del 2002? L’Europa ha risposto con il “patto stupido”. Quelli del 2003? Tremonti parla di “new deal”, e vuol farci capire che qualcosa discretamente si sta discutendo.
E’ accettabile la “scommessa” di Tremonti? Possibile. Ma ad essere sicuramente non accettabile é l’interpretazione che, per ora, l’Europa sembra darne: più che new deal, una vecchia ricetta di aiuti di stato elargiti senza pudore. Aiuti agli agricoltori, i 45 miliardi di euro l’anno che costa la PAC, asse dell’alleanza Parigi Berlino, confermata fino al 2013. Aiuti a France Télécom, che ha 40 miliardi di euro di debiti, (ma forse il nuovo management potrebbe trovarne 10 in più): aiuti dati con il pretesto di restituire parte del prezzo troppo esoso preteso per la licenza UMTS, e che invece sono l’assoluzione per lo shopping di aziende condotto a prezzi forsennati. Aiuti naturalmente a Deutsche Telekom, con gli stessi pretesti e per gli stessi motivi. Aiuti alle banche tedesche, a cominciare da HypoVereinsbank e Commerzbank.

Sarebbe questo il new deal di cui ci parla Tremonti? Se così stanno le cose, se è di questo tipo l’aiuto che egli si aspetta dalla politica europea, allora ad aprirsi é una questione ben più di fondo e rilevante che non la prossima trimestrale di cassa: che utilità avrebbe questa politica di new deal per il nostro paese? Se FT e DT vengono ricapitalizzate, a rimetterci non sono solo i contribuenti francesi e tedeschi a cui si chiede di fare quello che normalmente toccherebbe agli azionisti, vale a dire pagare per gli errori del management.
No, a rimetterci siamo anche noi, perchè con quelle acquisizioni dissennate FT e DT hanno modificato il quadro competitivo in cui operano le nostre imprese private. E la stessa cosa si può dire per le acquisizioni che EDF ha fatto in giro per l’Europa, Italia compresa. Se si rifinanzia la PAC, pagano anche i cittadini italiani: 200 euro a testa, anno dopo anno, fino al 2013. L’ultima volta che si trattò di rinegoziare la PAC, nel 1999, il Governo dell’Ulivo ebbe uno scatto di reni e si schierò con Blair nella richiesta che i sussidi diminuissero, e che fossero commisurati a criteri qualitativi e non quantitativi. Invece questa volta il governo Berlusconi ha lasciato Blair da solo.

Sarebbe questo il new deal? E che cosa ne pensano i padri costituenti che lavorano a definire la carta della nuova Europa? Dobbiamo proprio concludere che l’Europa di Lionel Brittan e di Karel Van Miert è stata un’eccezione, che quella della spinta alla privatizzazione e della lotta ai monopoli pubblici è stata una breve parentesi, e che il compito che l’Europa si dà è proteggere, il suo carbone e il suo acciaio un tempo, la sua agricoltura sempre, i suoi national champions di nuovo, e quindi, perché no, anche le rigidità del suo mercato del lavoro e la generosità delle sue pensioni?

“Ma no, chissà che cosa gli han chiesto” risponde Tremonti a chi gli ricorda che è stato Berlusconi stesso ad ipotizzare una manovra aggiuntiva. Anche noi avremmo da chiedere qualcosa a Berlusconi: giova all’Italia una simile politica, e’ coerente con quella di un governo che si dice liberale? Di liberali a mezzo servizio, coerenti quando le condizioni sono favorevoli, incoerenti innanzi alle difficoltà, é pieno il libro dei fallimenti della politica.

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