Ma per andare in Europa serve più flessibilità

ottobre 8, 1996


Pubblicato In: Giornali, La Stampa


I toni concitati delle baruffe tra cancellerie rischiano di far passare in secondo piano l’essenza della questione europea.
Pagare tanto, discutere poco, ed essere contenti: questo finora il paradossale atteggiamento degli italiani verso l’Europa. Solo adesso che ci si presenta il conto – che ancora una volta viene detto finale – si incomincia a discutere; e si discute, ancora una volta, del prezzo del biglietto – la tassa per l’Europa – non del viaggio che ci aspetta, tantomeno di come prepararcisi.

Sarà un viaggio molto diverso da quelli a cui siamo abituati.
La nostra finanza pubblica è stata all’insegna, nei passati decenni, di permissivismo quando non di incoscienza: ad aggiustare le cose provvedevano deficit, inflazione e svalutazione.
Questa strada diventa preclusa: per uscire da cicli negativi i singoli paesi dell’Euro non potranno più svalutare, né ricorrere a deficit di bilanci perché le clausole di stabilità imporrebbero salatissime multe. A correggere squilibri regionali – e i nostri sono i più gravi d’Europa – ci sono solo gli aiuti comunitari.
Sottratti gli strumenti tradizionali, si può solo contare sulla flessibilità nell’impiego dei fattori produttivi, capitale e lavoro: qui si giocherà la partita tra gli aderenti all’Euro. Sulla flessibilità si giocherà la competitività tra i paesi che avranno adottato l’Euro. Per questo gli inglesi, divisi sull’opportunità di entrare in Europa, sono tutti contrari all’adozione di statuti europei del lavoro.
E noi come ci presentiamo all’appuntamento? In questi anni i più convinti sostenitori dell’unione monetaria hanno tracciato una strada di virtù della quale metà corsia – tagli di spese e riduzione dei deficit- è stata costruita; l’altra metà – tutto ciò che serve alla flessibilità- è stata purtroppo totalmente trascurata. Non intendo polemizzare sull’europeismo, rifiuterei accuse di euroscetticismo, riconosco a tecnici valorosi come Ciampi lo sforzo di piegare alle virtù di bilancio, costi quel che costi, politici inavveduti e inconseguenti. Tuttavia non si può tacere oltre che una strada è buona se di corsie ne ha due.
Nel nostro caso invece, ci presentiamo all’appuntamento mantenendo rigido e gravato da un pesante cuneo fiscale il lavoro; e tassando il capitale più dei consumi. E poi: con servizi pubblici che diciamo di voler privatizzare, in realtà preoccupati più di mantenere gli attuali monopoli che di esporli rapidamente alla concorrenza; con un settore statale esteso e inefficiente; con infrastrutture su cui prima ha gravato l’imposta tangentizia e poi si è abbattuta la scure dei tagli alle spese di bilancio.

Chi lo ricorda si sente rispondere che anche i grandi Paesi europei hanno rigidità, spese pensionistiche e del settore pubblico, pressioni fiscali analoghe alle nostre. Ma si dimentica che anche gli altri stanno procedendo nella direzione di una maggiore flessibilità. Anticiparli, batterli sul tempo, di questo abbiamo bisogno: proprio perché siamo più lontani dai parametri di finanza pubblica, più degli altri dobbiamo mirare all’apprezzamento che i mercati riserverebbero a incisive misure di liberalizzazione.
La scelta riguarda tutta l’Europa: la cieca e integrale difesa di un’organizzazione sociale sviluppata durante la guerra fredda, quella che sinteticamente si chiama l’Europa del welfare, sarebbe un’ipoteca sul futuro della più grande area economica del mondo; un pericoloso errore di fronte alle sfide della concorrenza portata da due poli – americano ed asiatico- entrambi assai più snelli di un’Europa altrimenti fatalmente avviata al declino. Noi più degli altri abbiamo la necessità che l’Europa dell’euro sia l’Europa del libero mercato, non solo quella del deficit zero.
Non avere assunto chiaramente la flessibilità come obbiettivo prioritario di tutta l’azione del governo, non avviarcisi con determinazione nei pochi anni da qui al 1999, è la critica di fondo alla finanziaria. è una colpa, come si vede, ben diversa che di voler tassare la casa anziché le baby-pensioni, di economizzare sulle auto blu anziché rinegoziando gli aumenti al pubblico impiego. Mi si obbietterà, magari proprio dagli europeisti più convinti come Ciampi, che l’Italia oggi a malapena può sopportare gli effetti politici del rigore di bilancio, ma che in nessun caso sopporterebbe le grida degli interessi colpiti da liberalizzazioni e privatizzazioni vere, anche se queste si risolverebbero in più efficienza e meno inflazione. Io mi limito ad obbiettare che la sola corsia del rigore sta esaurendo la sua stessa praticabilità, e che così si corre il rischio di non avere né gli effetti di questa prima, né – mai- dell’intera seconda corsia.
Una leadership politica si misura dalla sua capacità di indirizzare il paese su questa nuova strada.

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