Ma la sfida liberale non è persa

luglio 31, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Tra identità e valori

Dal no al compromesso come metodo alle nuove alleanze,
dal lavoro alle riforme, molti i fronti aperti.

“La svolta liberale, tante volte annunciata, non c’è stata […]; le tradizioni culturali dei liberali e quelle di gran parte del popolo del nuovo partito sono diverse”, scrive Salvatore Carrubba (L’identità incerta del Partito democratico, il Sole 24 ore del 27 Luglio). Per dimostrare che il rifiuto dell’autocandidatura di Pannella a correre da segretario, non sia lo “sbattere la porta in faccia a chi è di cultura liberale”, Carrubba propone che si candidi a segretario uno di quelli che negli ultimi anni si sono spesi per introdurre tratti di cultura liberale nella sinistra italiana: citando, oltre a Nicola Rossi e Michele Salvati, anche il sottoscritto. Ormai c’è stato il triplice fischio dell’arbitro, (lunedì era il termine per presentare candidature e firme): ma al Partito democratico é comunque necessaria la presenza, visibile e attiva, di una posizione autenticamente liberale. E, come vedremo, non solo al Partito democratico.

“Autenticamente” lo si dice non in relazione a biografie o a posizioni programmatiche di altri candidati, ma a indicare la rottura metodologica con la mediazione, il compromesso, il “sì, ma”, una prassi e una teoria che nei decenni sono diventati costitutivi del centrosinistra. Conciliare, smussare sono doti preziose per chi governa, strumento del mestiere per chi ricopre determinati ruoli. Ma il compromesso non è un bene in sé: ricorrervi anche in questa fase nascente del partito, impedendo alle diverse identità di dichiararsi, fa sì che l’identità del nuovo soggetto politico appaia, come dice Carrubba, “incerta”. Per un liberale, autentico nel senso che si è detto, non c’è lotta all’evasione che giustifichi atteggiamenti polizieschi verso i contribuenti o intrusioni nella loro vita privata. Non c’è indipendenza della magistratura che prevalga rispetto all’esigenza di tenere separate funzioni giudicante e requirente. Non c’è fine virtuoso che giustifichi interventi governativi sui mercati dettando prezzi, imponendo cambiamenti nei contratti privati; l’”anomalia” del sistema televisivo sta nella invadente presenza pubblica, e il conflitto di interessi si contiene contrapponendo interessi a interessi, non ad aiuti di stato. Per un liberale, vincoli e divieti che irrigidiscono il mercato del lavoro, che impediscono di ridisegnare il sistema del welfare e garantire l’equilibrio di lungo termine delle pensioni, sono dannosi sul piano economico e non giustificabili su quello dell’equità.

Proprio ciò che è successo in tema di legislazione del lavoro è un esempio su cui i liberali italiani, abituati ad essere minoranza, dovrebbero riflettere: perché è la dimostrazione di quanto possa l’azione anche di una sola persona. E’ grazie a Pietro Ichino, se oggi gli scandali dei nullafacenti nella PA, soprattutto nella scuola, sono meno tollerabili; se la valutazione del rendimento non è più anatema; e se, rinviata la battaglia per la riforma dell’articolo 18, gli argomenti di chi vorrebbe addossare alla legge Biagi le colpe del cosiddetto “precariato” sono stati ad uno ad uno smontati.

Non riconoscere nel compromesso un valore in sé, essere intransigenti verso le posizioni che si stemperano e i principi che si annacquano: questo è il contributo più prezioso i liberali al nuovo partito. Ma le conseguenze andrebbero oltre: il panorama dell’offerta politica ne risulterebbe modificato. Infatti, se si rifiuta il compromesso, saranno da escludere quelle alleanze che hanno nel compromesso la loro pietra angolare. E poi, dopo i fallimenti del 1994, del 1998, e le angustie attuali, lo schema dell’alleanza con tutti i partiti della sinistra non è più proponibile. Il Partito democratico nasce proprio per essere la forza politica capace di raccogliere la maggioranza dei consensi senza ricorrere a quei compromessi. Qualcosa in quella direzione si sta muovendo, se oggi si parla di “iniziative coraggiose”, di “alleanze di nuovo conio”. Sarebbe anche, secondo Giovanni Sartori, il modo per salvare il bipolarismo in modo strutturale, non affidandolo solo al meccanismo di una legge elettorale.
Se così è, il problema è quello della transizione tra il vecchio e il nuovo sistema di alleanze. Come è possibile continuare a governare con alleati dichiarando oggi orientamenti strategici che li escluderanno domani? Come è possibile impedire che essi si oppongano in modo ancor più risoluto a riforme (elettorali, istituzionali) che diminuiscono il loro potere di veto? Come è possibile ricorrere ancora al collante dell’antiberlusconismo, sapendo che è un “prodotto” prossimo alla scadenza, e di cui nel nuovo schema ci si deve liberare? Se per Walter Veltroni appare difficile il compito di costruire un partito diverso eppure non ostile all’attuale Governo, per Enrico Letta far tutto ciò creando anche una propria immagine distinta da quella del probabile segretario, e continuando a organizzare i lavori del Consiglio dei Ministri, appare al limite dell’impossibile. Se le difficoltà della maggioranza in questa legislatura, come sostiene Nicola Rossi, derivano in gran parte da come il centro sinistra ha fatto opposizione in quella precedente, è preferibile per il centrosinistra introdurre la discontinuità in questa legislatura essendo maggioranza o in quella prossima rischiando di essere all’opposizione? Walter Veltroni nel suo discorso di Torino ha indicato le riforme che ritiene necessarie. Alcune sono anche costituzionali, da attuare con l’accordo del centrodestra. Perché aspettare un’altra legislatura? Non è meglio usare quanto resta di questa per una fase di transizione in cui realizzarle?

Il contributo di una presenza “autenticamente” liberale nettamente individuabile, andrebbe dunque ben oltre quello di definire un’identità che a Salvatore Carrubba appare incerta. Oltre ai nomi del suo maliziosamente breve elenco, esistono di sicuro tra coloro che guardano con interesse al Partito democratico intelligenze ed energie capaci di raccogliere questa sfida. Se così non fosse, se fallisse l’opzione liberale nel centrosinistra, allora bisognerà proprio rassegnarsi e cercarla altrove.

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