Libertà esportata, la sfida di Fukuyama

febbraio 19, 2005


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di Luca Savarino

Dopo l’11 Settembre, il problema centrale della politica globale non sarà quello di diminuire la statualità, ma di costruirla». L’ultimo lavoro di Francis Fukuyama, Esportare la democrazia. State Building e ordine mondiale nel XXI secolo (Lindau, pp. 171, €18), affronta un tema di evidente attualità politica: la «creazione di nuove istituzioni di governo o il rafforzamento di quelle esistenti».

Un esempio eclatante di state building è il processo avviato, e si spera nel futuro pienamente realizzato, in Iraq. A quindici anni di distanza dalla controversa tesi sulla fine della storia che l’ha reso famoso in tutto il mondo, Fukuyama, professore di economia politica internazionale alla Johns Hopkins University, spiega perché la storia non è finita, i conflitti non sono scomparsi e il mondo non sembra avviarsi verso un’epoca di pace e di prosperità.
Dopo la fine della guerra fredda, la tendenza della politica mondiale è stata quella di indebolire lo Stato nazionale. La globalizzazione ha messo in discussione la sovranità statale, erodendone sfere di competenza e autonomia decisionale. La crisi della Stato, secondo Fukuyama, genera gravi problemi: il mancato sviluppo economico, gran parte dei fenomeni di criminalità internazionale, la scarsa incisività delle politiche sanitarie mondiali.
Quel che più conta, essa è una minaccia diretta per l’Occidente: Stati deboli, o falliti, sono fonte di conflitto e di instabilità, praticano violazioni dei diritti umani, alimentano il terrorismo internazionale.
In cima alle priorità di politica internazionale va dunque posto il rafforzamento dello Stato: se la globalizzazione indebolisce gli Stati, alla globalizzazione occorrerà reagire ricostruendoli.
L’intento di Fukuyama è di correggere l’unilateralità di una visione economicista dello sviluppo: istituzioni stabili e ben governate sono altrettanto importanti delle pur necessarie politiche di liberalizzazione.
«Le istituzioni contano», e il metro con cui misurarle è l’efficacia, la loro capacità di pianificare ed eseguire politiche. Il nesso tra state building e democrazia sta proprio qui: se la si intende non come semplice forma di governo, ma come principio di legittimità, la democrazia appare uno tra i principali fattori della qualità delle istituzioni.
Democrazia e buon governo non possono essere separate: ecco perché sarebbe opportuno riuscire ad esportare la democrazia. Su questo punto, tuttavia, l’autore invita alla cautela. Il fattore democratico è a bassa trasferibilità, a maggior ragione in un contesto come il Medio Oriente dove lo state building deve fare i conti con l’assenza di strutture statali, di una solida cultura liberale e di un grado accettabile di sviluppo economico. Fukuyama discute a questo proposito le tesi di Fareed Zakaria, che, in Democrazia senza libertà (Rizzoli), ha riproposto la controversa questione dei rapporti tra liberalismo e democrazia: storicamente, in Occidente, la democrazia non precede il liberalismo,malo segue. Se esportata in un contesto privo di uno stato di diritto, essa rischia di produrre conseguenze illiberali.
Di recente, Fukuyama è tornato sul rapporto tra state building e democrazia in un’intervista ad Astenia (nr. 24, 2004), e in un articolo sul Journal of Democracy (vol 16, nr. 1, 2005): state building e democrazia sono complementari e conflittuali. Il primo mira a creare uno Stato, vale a dire, weberianamente, un organismo che abbia il monopolio del legittimo uso della forza fisica su un dato territorio, che sia in grado di emanare leggi e di farle rispettare. Ecco perché prende avvio dalla creazione di una forza militare e di polizia, che garantisca stabilità a breve termine. La democrazia liberale, al contrario, presuppone l’esistenza di uno stato di diritto che limiti il potere e lo responsabilizzi di fronte ai cittadini.
«La sequenza di come e quando costruire due istituzioni distinte e interdipendenti va attentamente calibrata »: uno dei più gravi errori in un processo di state building può consistere in una prematura transizione alla democrazia.
Progettare sistemi politici democratici funzionanti è possibile, conclude Fukuyama. Lo dimostrano la Germania e il Giappone postbellici.
Occorre convincersi che si tratta di un processo i cui risultati dovranno essere valutati nel lungo periodo. Solo così si potrà venire a capo del paradosso che affligge lo state building democratico: come produrre, e mantenere in vita, una libertà generata da un atto autoritario?

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