La transizione infinita dell'Italia

maggio 31, 2007


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Quello della Bicamerale resta il fallimento peggiore degli ultimi anni: per il momento sembra impossibile riprendere quel discorso

“Si commenta da sé”, è stata la stizzita battuta di Romano Prodi al discorso di Luca Montezemolo all’assemblea di Confidustria. “Non mi interessa un’effimera popolarità”, quella con cui ha commentato i risultati del voto di domenica. Uniti nelle critiche a Governo e classe politica, i messaggi che vengono dagli industriali e dagli elettori sono, com’è logico attendersi, diversi nella sostanza.

Roma 2007 presenta una Confidustria – dopo Vicenza 2006- di nuovo compatta, e – dopo Parma 2001- di nuovo autonoma rispetto alla politica; i risultati elettorali presentano un Nord disorientato, attraversato da pulsioni e timori diversi. Invece i commenti ai due fatti hanno una caratteristica comune: anche quelli meno arcigni di Prodi nel proposito di tener ferma la rotta, si articolano all’interno di un quadro sostanzialmente dato, prendono per immutabili le coordinate del campo in cui si muove la politica.

Questo vale, a ben vedere, anche per gli scenari politici su cui Montezemolo era più atteso. Immaginiamo di dare consistenza alla più radicale delle eventualità, e cioè che Roma 2007 preluda alla sua entrata in politica, a capo di un grande centro: a parte l’improbabilità nei numeri, a parte la “memoria corta” di chi pensa che “un centro eternamente governante sia la soluzione ai mali italiani” (Angelo Panebianco sul Corriere di domenica), sarebbe pur sempre una diversa sistemazione delle stesse pedine sullo stesso scacchiere. Le denunce -lo scandalo immondizie, le mini-IRI municipali, la scarsa qualità della produzione legislativa – sono tutte sacrosante, ma interne da tempo al dibattito politico, tant’è che possono essere invocate a supporto di progetti politici affatto diversi. La riduzione delle tasse è stata innovazione quando Berlusconi l’ha posta al centro del programma di governo; ora è un materia obbligatoria d’esame per ogni governo. Il tema del costo della politica è anch’esso interno alla classe dirigente, ne scrivono giornalisti del Corriere, non tribuni della Lega, Salvi e Villone, non Grillo e la Gabbanelli, è buono per D’Alema che sta al Governo, e per Montezemolo o chi per lui pensi di starci un giorno.

Di fronte a un risultato come quello di lunedì, nell’Unione si discute della data in cui disporre i gazebo per le primarie, se il capo del PD si chiamerà segretario o presidente, se a scendere in pista sarà il candidato vero o una volpe. E poi, sarebbero “innovazioni” i due temi che la politica oggi mette sul tavolo, il Partito Democratico e la legge elettorale? Quanto al Partito Democratico, a parte il modo deprimente in cui lo stanno realizzando, è fin dall’inizio un progetto ben più modesto delle ambizioni di cui è stato caricato. È assurdo far credere che la fusione di due partiti che formano una coppia di fatto da 15 anni (almeno), possa ridisegnare la geografia politica italiana. Assurdo sostenere che, fermi restando gli incentivi che favoriscono i piccoli partiti, un neppur tanto grande partito possa, con la sua mera apparizione, invertire la tendenza alla proliferazione partitica.
La riforma elettorale deve vedersela con due contraddizioni. Una pratica, fare approvare dalla coalizione di governo una riforma che ha proprio lo scopo di modificare i rapporti di forza che tengono insieme la coalizione stessa. Una logica: i sistemi elettorali sono la conseguenza di un progetto politico, non ne sono la causa. D’Alema e Fassino possono continuare a ripetere che, stesse a loro, vorrebbero il doppio turno alla francese: ma é solo perché tutti, loro per primi, sanno che si tratta di una giaculatoria, che il ripeterla non fa cadere il governo. C’è un fondo di antidemocratico nell’illudere armatori e marinai di trovare l’Oriente navigando verso Occidente, pensare di ottenere cambiamenti istituzionali in modo indiretto, calando addosso all’elettorato una legge elettorale che ne guidi le scelte in una direzione che non è mai stata loro prospettata esplicitamente. La teoria del referendum come “pistola puntata” ha poi una contraddizione sua propria: chiedere agli elettori di firmare per ottenere un risultato che i proponenti stessi dichiarano di non volere.

“La difficile partenza della raccolta delle firme per il referendum abrogativo dell’ultima legge elettorale – scrive Marco Battaglini (Se si vuole rafforzare l’Esecutivo occorre farlo direttamente, il sistema partitico cambierà di conseguenza, Sole 24 Ore, 16 Maggio) suggerisce che i cittadini […] sembrano percepire che le formule elettorali di per sé non risolvono il problema della scarsa governabilità e della moltiplicazione dei partiti”. Si invida la Francia di Sarkosy: ma “la stabilizzazione del sistema dei partiti in Francia è stata una conseguenza del rafforzamento dell’esecutivo piuttosto che la sua causa e il cambiamento della legge elettorale è stato solo uno dei fattori in gioco”. Poteri e criteri di nomina del Capo dello Stato, del Presidente del Consiglio, il Governo; e, soprattutto dopo il risultato di lunedì, l’attuazione del federalismo, in primo luogo fiscale. Le riforme necessarie sono riforme costituzionali. Ma è illusorio pensare di surrogarle con il Partito Democratico o con la legge elettorale che uscirebbe dal referendum, solo perché il loro cammino appare più facile.

Quella della Bicamerale è stata la grande occasione perduta della Seconda Repubblica: sarebbe già qualcosa se lo riconoscessero oggi anche quelli che l’hanno fatta fallire. Riprendere quel percorso richiederebbe maggioranze e Governo diversi dall’attuale, intese impossibili con le attuali leadership politiche: certamente a sinistra, probabilmente anche a destra. Il tempo ancora a disposizione in questa legislatura, la favorevole congiuntura economica, le difficoltà che incontra a ogni passo questo Governo, di per sé fanno di questa ipotesi qualcosa di più di una fantasia. In ogni caso, non più fantasia, e certo più razionale, di alcune di cui si sente parlare. Il Governo fa di tutto per blindarsi contro questa eventualità, varando provvedimenti quali la legge sul conflitto di interessi, quelle sull’assetto del sistema televisivo una e due, e adesso spostando gli equilibri all’interno del CdA RAI. Ancora una volta, l’antiberlusconismo, e la questione televisiva che ne è parente stretta, si rivelano il nodo della transizione italiana.

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