La lezione di Bacone e la finanza che nessuno vuole mettere in regola

aprile 8, 2012


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di Guido Rossi

Se per una sorta di Odissea nello spazio e nel tempo, ad esattamente quattro secoli di distanza, rivivesse il grande filosofo Francesco Bacone, scoprirebbe che questo periodo, lungi dall’aver abbandonato ogni sorta di ideologie come si è soliti sostenere, s’è abbarbicato a fantasmi metafisici ancor più gravi. Bacone non avrebbe alcuna difficoltà a qualificare come “idola fori” (idoli del mercato) che sfuggono alla realtà, ma tuttavia condizionano i comportamenti umani e in modo particolare quelli dei governanti, quei principi ideologicamente indiscussi e a loro volta componenti di una catafratta ideologia. La tesi che all’inizio della crisi economica pareva destinata a esser messa in discussione, ma non lo è, sta tutta nel riconoscimento di astratti e opachi sovrani che vengono chiamati “mercati”, e che paiono comandare il mondo.

È stupefacente pertanto che dalla crisi del capitalismo finanziario non si sia tratto finora alcun insegnamento per proporre una seria disciplina dei mercati finanziari, come era avvenuto con Roosevelt dopo la crisi del 1929. Anzi, gli adepti alla religione della deregolamentazione e del mercato libero sono pronti ancora a sostenere che non è stata la deriva finanziaria che ha creato una bolla speculativa, che ivi rimane, superiore a circa dieci volte il Pil mondiale, cioè il lavoro dell’umanità, bensì il desiderio spasmodico degli americani di possedere una casa che avrebbe originato i subprime mortgages, nonché l’ambizione di organizzare le Olimpiadi che avrebbe rovinato la Grecia.
Pur non essendo finora stata presa alcuna decisione per garantire la difesa dei diritti e delle democrazie costituzionali occidentali, da più parti ci si interroga finalmente su quale sia la vera funzione degli istituti di credito ed in modo particolare delle banche, prime protagoniste del capitalismo finanziario. Verrebbe qui d’istinto il desiderio di citare testualmente una frase di circa un secolo fa:

«Ma, a mano a mano che le banche si sviluppano, e si concentrano in poche istituzioni, si trasformano da modeste mediatrici in potenti monopoliste, che dispongono di quasi tutto il capitale liquido di tutti i capitalisti e piccoli industriali, e così pure della massima parte dei mezzi di produzione e delle sorgenti di materie prime di un dato paese e di tutta una serie di Paesi».

La frase è di Lenin in “L’imperialismo, fase suprema del capitalismo” (capitolo secondo).
Che dire allora del rapporto annuale della Federal americana di Dallas del 2011, appena pubblicato, nel quale si precisa che il sistema finanziario americano va cambiato perché la percentuale di ricchezza controllata dalle cinque più grandi istituzioni bancarie ha raggiunto il 52% e questa loro dimensione ha creato complessità, magnificando le opportunità per l’opacità, e l’incapacità di valutare i rischi. Sottolinea il rapporto che la legge Dodd Frank e il Consumer protection act nulla hanno fatto per frenare il continuo aumento della concentrazione dell’industria bancaria americana. Vi è poi un deciso attacco sul quale oramai sono d’accordo i maggiori studiosi americani, per distruggere i vari pregiudizi, come quello che impedisce alle grandi banche, perché portatrici di “rischio sistemico”, di fallire.
Il principio “too big to fail” (troppo grandi per fallire), oltre che essere antidemocratico, non risolve il problema che secondo il rapporto può essere solo affrontato in senso contrario, cioè con la riduzione delle dimensioni delle grandi istituzioni finanziarie.
Tutto ciò impedirebbe anche, come sottolineato da Andrew Haldane (London Review of Books, 23 febbraio 2012), direttore esecutivo della Banca d’Inghilterra, gli odiosi compensi dei responsabili delle istituzioni bancarie che costituiscono poi la base vera dell’indignazione di tutti gli “Occupy Wall Street” e via dicendo.
Finirebbe così l’incredibile paradosso attraverso il quale gli Stati e le Banche centrali, coi denari dei contribuenti, salvano le grandi istituzioni finanziarie, alimentandone la speculazione.
La contropartita è che con l’iniezione di denaro pubblico la grande speculazione privata dei mercati sta governando gli Stati.
Ma ciò che ancora più sorprende è che il primo ministro cinese Wen Jiabao in un appassionato intervento di mercoledì scorso dichiarava testualmente: «Francamente, le nostre banche fanno profitti troppo facilmente, perché occupano una posizione di monopolio ed è necessario ridurre la loro influenza politica e affrontare una vera riforma del sistema finanziario, cominciando con ridimensionare i grandi monopoli bancari».
Qualche anima candida si potrà forse sorprendere delle vicende del capitalismo di Stato cinese, ma forse sarebbe l’ora che i responsabili della cosa pubblica abbandonassero gli idolafori e ritornassero a difendere lo Stato di diritto.

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di Franco Debenedetti – La Domenica del Sole 24 Ore, 08 aprile 2012

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