La cultura del rischio

marzo 5, 1999


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore


Perché Ataualpa non è andato lui a Madrid e non ha messo lui in prigione Carlo V? È il confronto di performance economica tra Europa continentale e America, che il vertice di Milano ha riproposto, a far nascere la domanda: perché loro sì e noi no? Non si tratta solo di tasso di crescita, o di indice di partecipazione al lavoro: il lungo ciclo espansivo dell’economia americana un giorno o l’altro finirà, e quel giorno dovremo sopportare la Schadensfreude degli uomini di incerta fede, di cui si è avuta un’anticipazione nella crisi della seconda metà del 1998.

Ciò che impressiona è la differenza nella fertilità con cui nuove idee nascono e si diffondono, nel numero di imprese che si formano, nella varietà di opportunità che si offrono e nella capacità stessa di rovesciare situazioni negative, quali il declino tecnologico a cui l’America sembrava condannata solo pochi anni fa. Furono proprio ragioni tecnologiche, come spiega Jarod Diamond (Armi acciaio e malattie, Einaudí, 1998) a consentire a Pizarro, con 150 uomini, di battere a Cajamarca l’esercito di un regno parecchie volte più grande della Spagna.
Ma oggi? Oggi a far la differenza non può essere la tecnologia, che viaggia su Internet ed è diffusa dagli insediamenti delle multinazionali; non la dotazione di capitali che sono mobili e alla ricerca di occasioni; oggi la spiegazione va ricercata nella cultura e nei valori condivisi: emblematico, a mio parere, il diverso atteggiamento degli individui verso il rischio.
Usare la promessa di proteggere il cittadino dal rischio per garantirsene il consenso politico: è un filo che accompagna la storia europea da almeno 150 anni, quello di cui i capi di Stato riuniti a Milano tengono ora l’ultimo bandolo. Ci si può proteggere dal rischio erigendo barriere o aumentando le opportunità. Mentre la irrational exuberance americana esalta le opportunità, lo stato sociale europeo ha finito per mettere l’enfasi sulle barriere. Il risultato è questa Europa irrigidita a proteggere l’esistente, imbrigliata nell’osare il nuovo, gretta di idee e avara di occasioni, dove non circolano le persone e non circolano le idee. Ataualpa non andrà mai a Madrid.
Cambiare è difficile. Quando un indirizzo di conduzione della cosa pubblica si perpetua per decenni e decenni, costante al variare dei governi e fin al sorgere e cadere dei regimi, si instaura un processo di rinforzo circolare: i valori culturali modellano le istituzioni, si perpetuano nelle interpretazioni della giurisprudenza, si solidificano in alleanze politiche. Alla fine l’atteggiamento, quel modo di valutare rischi e opportunità della vita, diventa un dato «naturale».
L’atteggiamento verso il rischio condiziona anche le strategie delle imprese, spinge a preferire quelle che allineano gli interessi del management con quello dei dipendenti. Per entrambi i cambiamenti di tecnologie obbligano a cambiare mentalità, rendono obsoleto il sapere, aumentano la probabilità di licenziamento; per entrambi i cambiamenti di struttura sono causa di fatica, di stress. Piuttosto che affrontare questi rischi, diventa molto preferibile, per management e dipendenti, una strategia espansiva attraverso operazioni anche a bassa redditività marginale. Fintanto che í valori culturali prevalenti, il modo di fare e di interpretare le leggi, il peso politico del sindacato, sono tutti a favore della diminuzione del rischio dei dipendenti, piuttosto che ad aumentare il valore per gli azionisti, íl modello di società ad azionariato diffuso sarà intrinsecamente meno efficiente, non diventerà, al contrario di quanto avviene negli USA, un elemento base dello sviluppo industriale. E non per la mancanza di investitori istituzionali, come viene lamentato: questa è essa stessa conseguenza della pressione
sociale volta a ridurre i rischi per í gruppi più organizzati, che hanno conquistato un potere politico prevalente, ma che così privano la società di un potente strumento di creazione di ricchezza.
La rivoluzione liberale diventa così un passaggio obbligato per le grandi democrazie sociali europee. Realizzarla richiede di ridiscutere valori, innovare consuetudini, rescindere alleanze; per i partiti di sinistra pone una difficoltà in più, compiere il «passo estremo» di ridefinire il proprio rapporto con il sindacato. Chiunque governi dovrà abbattere mura e fortificazioni, rimuovere incrostazioni fossili. Già duecento anni fa, a un grande tedesco, il panorama europeo sembrava, a fronte di quello americano, angusto di «castelli in rovina», e di «basalti». Non è per vezzo filologico se le parole di Goethe vengono citate in originale: in tedesco. Amerika, Du hast es besser / Als unser Kontinent, der alte, / Hast keine verfallenen Schloesser / Und keine Basalte.

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