Kyoto rincorre i giganti emergenti

dicembre 8, 2004


Pubblicato In: Giornali, Il Sole 24 Ore

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Alla decima «Conferenza delle parti» di Buenos Aires si apre una nuova fase del negoziato: Cina, India e Brasile vanno coinvolti subito – La scommessa del protocollo, che ha alti costi, è la competitività del modello economico

Il trattato di Kyoto per la riduzione delle emissioni di gas serra, impegna l’Italia a ridurre entro il 2008-2012 le proprie emissioni di anidride carbonica del 6,5% rispetto ai valori del 1990. Per raggiungere tale livello può ricorrere anche ai cosiddetti meccanismi di flessibilità: o comperare “diritti ad inquinare” da paesi che hanno superato gli obbiettivi di Kyoto, oppure compensare le proprie emissioni di anidride carbonica (CO2) con crediti di carbonio ottenuti realizzando o finanziando progetti a basse emissioni in Paesi in via di sviluppo. Il trattato prevede sanzioni finanziarie in caso di inadempimento.

A questa prima fase dovrà seguirne un’altra, della quale si sta discutendo nella decima Conferenza delle parti (iniziata il 6 dicembre, si chiuderà il 17 dicembre) a Buenos Aires.

Il protocollo di Kyoto si è col tempo caricato di significati politici che hanno perfino finito per prevalere rispetto al suo contenuto tecnico. Caldeggiato dalla Commissione Europa, decisamente respinto da George W. Bush, guardato con fastidio dal governo Berlusconi, è per molti europei l’ennesima dimostrazione di un multilateralismo virtuoso da opporre all’unilateralismo di questa amministrazione americana; per la quale invece è la prova dell’idealismo inconcludente degli europei. Un’altra immagine di Venere e Marte, questa volta in Arcadia. Ci sono dunque ragioni politiche per la soddisfazione con cui in Europa, a sinistra, è stata generalmente salutata la sua entrata in vigore. Logico che la sinistra l’ha vissuta come una vittoria. Meno logiche le vistose divergenze che si verificano all’interno del governo, ad esempio tra i Ministri dell’Ambiente e delle Attività produttive.
Sarebbe dannoso se argomenti ideologici permanessero anche ora che é un trattato a stabilire per l’Italia impegni che non sono né facili né lievi, Proprio con questo intento si suggeriscono riflessioni da tre punti di vista diversi: globale, nazionale, prospettico.

Uno sguardo globale.
La vittoria politica giustifica il compiacimento, non l’incosciente entusiasmo, che ricorda quello delle domeniche senza auto all’inizio della prima crisi petrolifera. Si può essere soddisfatti di (sperare di) avere imboccato la strada giusta, ma non si può dimenticare che essa è stretta e corre tra due strapiombi: da una parte ci sono gli scenari catastrofici per il nostro pianeta, se sono giuste le previsioni che sono alla base del trattato; dall’altro c’è l’eventualità di aver sacrificato inutilmente benessere e crescita in quello che non è del tutto escluso che potrebbe rivelarsi un abbaglio. Infatti non è unanime il consenso scientifico sulla teoria del riscaldamento globale, e su ciascuna delle catene di ipotesi su cui si fonda il trattato: che sia anomalo, che sia dannoso, che sia prodotto dall’uomo, e che i mezzi proposti saranno idonei ad arrestarlo.

L’Italia.
L’Enea stima che l’Italia riesca a coprire il proprio “emission gap” solo per metà, nella migliore delle ipotesi, con la riduzione delle emissioni (e “truccando” un poco con l’aumento della forestazione) e che per il resto debba ricorrere ai meccanismi di flessibilità.
Le fonti rinnovabili (eolico e solare) contribuiscono in Italia per circa lo 0,1%. Tuttavia il massimo contributo da queste fonti potrebbe arrivare al 5%, e certamente non entro il 2010. Ci sono limiti fisici: una centrale da 1000 MW se nucleare occupa 15 ettari, se a combustibili fossili 12-30, se solare 2000, se eolica 12500. L’energia nucleare è totalmente priva di emissioni; noi siamo già un paese nucleare, solo che le centrali da cui importiamo energia (fino al 25% nelle ore notturne) sono in Svizzera, Francia, Slovenia. Il nucleare risolverebbe anche il problema della nostra dipendenza da combustibili fossili. Rimangono considerazioni sui tempi di costruzione di una centrale (oggi saliti a quasi 20 anni) , sulla convenienza economica, a sua volta funzione del prezzo del barile: ma non si può realisticamente – e cioè a meno di auspicare una drastica riduzione del nostro tenore di vita – essere a favore di Kyoto e ideologicamente contrari al nucleare.
Kyoto rappresenta per la nostra economia uno shock esogeno, analogo a quello che ha colpito l’Occidente durante la prima crisi petrolifera, e, a differenza di quello, di carattere permanente.
I costi – per acquistare diritti, per dare impianti non inquinanti ai paesi in via di sviluppo, al limite per pagare le sanzioni – equivalgono a una tassa sull’energia. Non solo: alcune attività economiche dovranno o diminuire o svolgersi in modi che non sarebbero economici se non determinassero i costi previsti da Kyoto. Ci sarà uno spostamento di risorse produttive da un settore ad un altro, dunque le risorse saranno impiegate con minore produttività. I costi e i tempi prima che l’economia si assesti su un nuovo equilibrio dipenderanno dalla vischiosità del sistema, in particolare da quella del sistema del lavoro. La nostra economia si assesterà su specializzazioni produttive diverse dalle attuali, e non c’è nessuna garanzia di ricuperare lo shock e di avere un paese ugualmente ricco. Il raggiungimento degli obbiettivi di Lisbona diventa ancora più improbabile, e spostato avanti nel tempo.
Neppure qui ci sono pranzi gratis: la sostituzione di una lavatrice vecchia con una più efficiente non si paga da sola, il maggior costo dell’energia che rende conveniente cambiare lavatrice non diventerà mai un ricavo! Un cambiamento del regime fiscale, che tassi meno il lavoro e più il consumo di energia, può essere neutrale per le finanze pubbliche, ma non certamente per i conti economici delle aziende. La stima del costo totale varia dal mezzo punto di PIL secondo il modello UNICE (a livello europeo), a oltre un punto (per l’Italia) secondo quello dell’economista Margo Thorning, in un paper dell’Istituto Bruno Leoni.

Il futuro.
Tra i paesi che per ora sono esclusi dagli obblighi di Kyoto ci sono Cina, India e Brasile, paesi grandi e in rapida crescita, che quindi producono molti gas serra. Kyoto prevede di assegnare crediti di emissione a casa propria per i paesi che costruiscono impianti non inquinanti nelle nazioni in via di sviluppo. E’ vero che, con la stessa spesa, si riduce più CO2 in impianti inefficienti in Cina che in un impianto già efficiente in Italia, e che queste iniziative possono essere dimostrative di nostre tecnologie: ma per l’economia italiana sempre costi sono, anche se parzialmente “sovvenzionati” dal valore del credito di emissioni.
La somma di questi costi rappresenta il prezzo del buon esempio nella battaglia per combattere i danni dei gas serra, di cui l’Europa ha assunto la leadership. L’Europa è responsabile del 24% delle emissioni dei paesi industrializzati; se riduce il suo inquinamento del 6,5%, l’inquinamento dovuto a questi ultimi cala dell’1,56%: mentre quello dei paesi in via di sviluppo cresce ogni anno di più. Se i beni prodotti nei paesi che aderiscono a Kyoto diventano più cari relativamente a quelli prodotti in paesi che non hanno queste limitazioni, aumenteranno attività economica ed emissioni nei paesi fuori Kyoto: è il curioso effetto di “CO2 leakage” che riduce l’efficacia delle misure adottate.
La scommessa di Kyoto non è l’entità delle riduzioni di emissioni di CO2 ottenibili da qui al 2010, ma la dimostrazione di un modello competitivo in termini economici. Questa è la ragione che giustifica i nostri sacrifici. Non perché abbiamo finora inquinato di più: quello è stato il prezzo pagato da tutto il mondo per lo sviluppo di tecnologie che tutto il mondo ha adottato, che hanno consentito di sostituire le tecnologie del legno e dello sterco, con quella del petrolio e dell’elettricità, e ora con quelle del risparmio energetico. E neppure perché, siccome oggi un indiano inquina 1/20 di un americano, si dovrebbe attendere che lo raggiunga prima di chiedergli di usare tecnologie meno inquinanti: discorso in cui è difficile trovare una logica e che suona aberrante soprattutto in bocca a chi più sente l’urgenza di risolvere i problemi dell’effetto serra.
La partita planetaria si gioca certo negli USA, ma in modo determinante, soprattutto nell’arco di tempo su cui ci si traguarda, nei grandi paesi emergenti. Non la si risolve con le dimostrazioni. E’ quindi essenziale che, negoziando la seconda fase di Kyoto, i grandi paesi che crescono con tanta velocità siano chiamati da subito a fare la loro parte.

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